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RESTAURO
LA CONFERENZA STAMPA DELLA FILLEA CGIL A FIRENZE

18.04.09 Parte la mobilitazione dei lavoratori del settore che chiedono al Ministero per i Beni e le Attività Culturali la possibilità, dopo anni di lavoro, di essere valutati e qualificati.

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Di seguito la relazione di Livia Potolicchio, segretaria Fillea Cgil nazionale, alla Conferenza Stampa della Fillea Cgil, svolta a Firenze il 18 aprile, cui hanno partecipato Antonio Ledda e Massimo Bollini, rispettivamente segretario generale Fillea Toscana e Fillea Firenze.
Il rischio maggiore che il patrimonio culturale italiano corre, rispetto alla crisi economica che stiamo attraversando, e’ dato da una politica che non lo riconosca come un settore strategico su cui investire.
Abbiamo assistito, anche in questa ultima finanziaria, ad una ulteriore massiccia e distruttiva riduzione di finanziamenti vitali per il settore e, dunque, ad una inevitabile e conseguente riduzione della qualità della Tutela.
Il lavoro che si svolge sui beni culturali deve essere improntato e ispirato su regole che garantiscano livelli di qualità elevati negli interventi, per garantire i quali sono necessari adeguati investimenti e rigidi criteri di selezione delle imprese.
Non potrebbe essere altrimenti se si pensa che ogni intervento agisce su beni che fanno parte di un patrimonio culturale collettivo, una volta danneggiato, irripetibile.
Gli interventi legislativi, che regolano il sistema di affidamento degli appalti, hanno introdotto (almeno in via teorica) criteri di valutazione migliorativi rispetto al massimo ribasso, come l’offerta economicamente più vantaggiosa, ma hanno lasciato aperti ancora molti problemi e dubbi interpretativi.
Dubbi interpretativi aggravati da una situazione dalla situazione di caos normativo, dovuto al sovrapporsi provvedimenti che si sono accavallati tra loro, spesso senza esplicita abrogazione di quelli precedenti, in particolare rispetto alle qualifiche delle imprese del settore e delle singole professionalità che vi operano (come la stessa Autorità di Vigilanza aveva segnalato nel 2005).
E’ invece necessario garantire regole chiare tra pubblico e privato per rispondere alle esigenze di tutela che il patrimonio culturale impone (sia rispetto ai criteri di affidamento degli appalti, quelli per la selezione delle imprese, così come nella definizione delle professionalità che devono caratterizzare la struttura d’impresa in tutta la filiera delle operazioni).
La normativa, fino ad oggi prodotta (non perdiamo la speranza che si possa fare meglio in futuro), ha istituzionalizzato l’idea che la qualità degli interventi sia garantita sostanzialmente dal curriculum professionale del Direttore Tecnico, spesso coincidente con il solo Titolare dell’Impresa (specie quando si tratta di imprese artigiane); si sottovaluta totalmente la struttura dell’organico (da quanti lavoratori sia composta l’impresa, se siano strutturali o meno, quale sia il curriculum lavorativo dei singoli operatori) che dovrebbe essere, invece, uno dei criteri sostanziali nella scelta del contraente.
Le conseguenze che questo atteggiamento produce sul mercato del lavoro sono devastanti.
Non solo produce un problema di concorrenza sleale tra imprese strutturate e non, ma di fatto, sommandosi alla mancata definizione delle competenze e dei titoli professionali, si traduce nella diffusione di un lavoro precario e mal pagato.
Nei cantieri di restauro, e questo vale anche per quelli di archeologia, se si escludono pochissime imprese strutturate secondo le regole, viene quasi sistematicamente elusa l’applicazione dei Contratti nazionali di riferimento ed i loro livelli di inquadramento.
Più del 52% dei lavoratori ha contratti di lavoro autonomo e parasubordinato, con contratti il cui progetto coincide con la ragione sociale dell’impresa.
Se a questo aggiungiamo che nei capitolati di appalto le pubbliche amministrazioni solo in rarissimi casi riconoscono i costi del lavoro e che il più delle volte il prezzo di un restauratore, così come per l’archeologo, è equiparato (se va bene) al costo dell’operaio specializzato, risulta del tutto evidente che il sistema porta le imprese alla destrutturazione invece che alla crescita in termini qualitativi.
La dichiarata volontà, degli organi di tutela e delle direzioni lavori, di puntare ad elevati standard di qualità per il settore, dovrebbe essere sostanziata da scelte coerenti.
In tutti questi anni invece moltissimi lavoratori hanno operato, per conto della pubblica amministrazione, al restauro e alla conservazione del nostro patrimonio culturale, ignorati sui cantieri dalle Direzioni Tecniche.
In molti casi erano presenti con Contratti di Collaborazione Coordinata e Continuativa, o come singole imprese artigiane con Partita IVA, e per tanto gli si dovrebbe riconoscere una responsabilità diretta nella conduzione tecnica degli interventi di restauro, vista la gestione autonoma sottintesa da tali rapporti di lavoro.
Le ricevute dei pagamenti per i lavori svolti dimostrano la loro effettiva presenza nei cantieri, eppure le Soprintendenze affermano di non averli mai visti e nel buon esito del lavoro citano solo l’impresa appaltatrice.
E’ in uscita il regolamento per la prova di idoneità che in via definitiva rilascerà, previo superamento dell’esame, il titolo di ‘Restauratore Conservatore’, prevista solo per coloro che non sono usciti da scuole di Alta Formazione.
L’accesso all’esame di idoneità è vincolato alla presentazione di una serie di requisiti, tra i quali la certificazione di un certo numero di anni di lavoro con responsabilità diretta nella gestione tecnica dell’intervento. Un modo per dire che il riconoscimento verrà dato solo a quei lavoratori che hanno lavorato direttamente per le soprintendenze.
Risulta così molto difficile, in tutti i casi sopra descritti, vedersi riconosciuta la professionalità rendendo esigibili gli anni di lavoro svolto. Ma questo vale anche per chi ha lavorato come dipendente per le imprese di restauro, svolgendo un ruoli di responsabilità nella conduzione delle operazioni di restauro, perché le imprese si rifiutano di riconoscere i ruoli svolti ai loro dipendenti.
Questo significa che il problema delle attestazioni del lavoro, a prescindere dall’esame, riguarda tutti, restauratori conservatori e collaboratori/tecnici restauratori che in via Transitoria e definitiva devono legittimare i loro curricula.
L’esame, atteso da anni, è ultima soluzione per vedersi riconosciuto il titolo professionale, l’ottenimento del titolo ha una ricaduta fondamentale per l’accesso degli operatori al mercato di settore e per il loro adeguato inquadramento contrattuale.
La Conferenza Stampa di oggi è convocata dunque per lanciare, a partire da oggi, una mobilitazione a favore dei lavoratori del settore che chiedono al Ministero per i Beni e le Attività Culturali la possibilità, dopo anni di lavoro, di essere valutati e qualificati.
Annunciamo pertanto che il sindacato ha intenzione di sostenere le azioni dei lavoratori nei confronti delle imprese, per rivendicare il riconoscimento e la certificazione del ruolo svolto e
nei confronti delle Soprintendenze, per tutti coloro che possono certificare di aver lavorato a Partita Iva nei cantieri (e dunque con responsabilità diretta nella gestione tecnica dell’intervento di restauro), senza che la Soprintendenza abbia controllato e registrato la loro presenza.
Guardiamo all’esame con interesse, ma è necessario impostare il percorso di accesso in modo sereno ma che sia in grado di permettere alle persone di cimentarsi con la serietà della prova e non con la mortificazione dell’esclusione e della diffidenza.