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Intervento di Giorgia LeoniPresidente Confederazione Italiana Archeologi
Il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, la legislazione vigente in materia di Beni Culturali, non nomina mai la figura dell’archeologo; allo stesso modo il Codice dei Contratti Pubblici all’art. 198, comma 2, non cita mai l’archeologo. Ciò avviene non certo per negligenza ma perché allo stato attuale la figura dell’archeologo non è definita e, quindi, normata da alcuna legge dello Stato. Questa dunque è la causa di un problema, quello del riconoscimento professionale, che nella realtà risulta più ampio e riguarda la maggior parte delle figure professionali che operano nel settore dei beni culturali, per le quali manca ancora, a livello istituzionale, un sistema di riconoscimento omogeneo delle professionalità. Le trasformazioni susseguitesi negli ultimi anni nel sistema dei beni culturali hanno determinato profondi cambiamenti anche per quanto riguarda il mercato del lavoro dell’archeologo. Così se prima i laureati delle facoltà umanistiche si trovavano sostanzialmente a poter scegliere tra la carriera accademica o l’ingresso nella pubblica amministrazione, oggi gli sbocchi professionali trovano molto più spazio nell’ambito privato e parastatale. Nonostante i tentativi di riforma abbiano cercato di rinnovare la formazione in questo settore, l’Università sembra in ritardo rispetto ai cambiamenti avvenuti nel mondo del lavoro, risultando spesso lontana dalla realtà professionale dell’archeologo. Manca, a nostro avviso, una valutazione strategica dei bisogni formativi nei beni culturali che renda fluido il rapporto tra formazione e lavoro. Questa indeterminatezza sui requisiti necessari per operare in qualità di archeologo è generata dalla mancanza di un percorso formativo unico, che abbia, almeno nelle linee essenziali, caratteristiche uniformi in tutto il paese. A potersi proporre quali archeologi sono oggi laureati quadriennali in lettere con indirizzo archeologico o in conservazione dei beni culturali, i laureati triennali con laurea specialistica in archeologia, i diplomati presso le scuole di specializzazione in archeologia ovvero chi ha completato un dottorato di ricerca. Risulta, quindi, evidente come la mancanza di chiarezza nella definizione dei percorsi formativi sia alla base della mancanza del riconoscimento della professionalità dell’archeologo. Oggi ancora non è chiaro chi può definirsi Archeologo, o Restauratore, o Storico dell’Arte, in quanto i parametri di qualificazione richiesti sono diversi a seconda dei casi: a seconda che il committente sia lo Stato o gli enti locali, il privato no profit o il privato imprenditore. La mancanza di una definizione chiara dei requisiti abilitanti alle diverse professioni ha portato alla diffusione di un lavoro spesso dequalificato e quasi sempre male pagato. L’esito fin troppo scontato di questa situazione è la sostanziale assenza di tutele, sicurezze e diritti per i lavoratori. Per gli archeologi manca un contratto di riferimento, mancano tariffari di compenso che siano validi a livello nazionale, aggiornati con i dati ISTAT e che considerino e riconoscano le diverse competenze specialistiche operanti nel campo archeologico. Occorre inoltre definire con maggiore precisione il ruolo che la figura professionale dell’archeologo esercita nell’ambito delle attività di lavori e servizi. E’ necessario che le soprintendenze, come gli enti locali, redigano una graduatoria pubblica dei collaboratori esterni, stilata su base curriculare, che regoli l’assegnazione dei contratti secondo il principio della rotazione, e non della cooptazione. Riteniamo inoltre fondamentale che nei cantieri archeologici, così come in quelli di restauro conservativo, l’Ufficio della Direzione Lavori eserciti un rigoroso e puntuale controllo verificando che siano operative adeguate figure professionali, quali archeologi e restauratori, al fine di garantire un’esecuzione qualitativamente alta degli interventi. Anche alla luce dei recenti tragici avvenimenti, si impone una severa riflessione sulla sicurezza nei cantieri archeologici, dove purtroppo sono frequenti incidenti causati spesso dalla superficialità e dalla mancanza di risorse, che inducono a non rispettare le norme di sicurezza. E’ necessario che gli organi preposti vigilino in maniera ferrea sulle condizioni di lavoro e di sicurezza che vigono su questi cantieri. E’ necessario, inoltre, che a livello legislativo si faccia chiarezza sulle responsabilità e sul ruolo che gli archeologi ricoprono nei cantieri, ma, soprattutto, che venga posta la dovuta attenzione alla formazione dei professionisti riguardo alle norme sulla sicurezza. Per essere più espliciti, siamo convinti che la precarietà e la mancanza di tutele, l’assenza sistematica di certezze, la difficoltà nella definizione di percorsi formativi, non siano premesse felici per garantire competenza e professionalità. Il recente decreto sull’Archeologia Preventiva, (Legge n. 109 del 25 giugno 2005, recepita agli art. nn. 95-96 del Codice dei Contratti pubblici), in merito alla quale il Consiglio di Stato con l’Adunanza del 13 Marzo 2006 ha espresso parere negativo, se per un verso cita per la prima volta ufficialmente la figura dell’archeologo, dall’altro ha posto un grave vincolo allo svolgimento dell’attività, indicando esclusivamente nella specializzazione e nel Dottorato di ricerca i titoli che danno diritto a definire un archeologo, seppure solo per quanto riguarda questo settore specifico dell’attività archeologica. Tale sbarramento non è accettabile dal momento che, da una parte, non si riconosce all’università la capacità di fornire una formazione professionalizzante e universalmente da tutti riconosciuta ad un archeologo, come fa invece per altre categorie professionali, dall’altra, scavalca ed esclude i professionisti e le società di archeologia che operano da anni nel settore. A tal fine semmai è da auspicare che l’accademia continui ad operare in funzione del suo primario scopo, cioè la formazione e l’innovazione nella ricerca metodologica, garantendo contemporaneamente una formazione tecnica in grado di soddisfare le esigenze della collettività e le richieste del mercato del lavoro, come avviene in praticamente tutti gli altri settori, in cui è parte integrante del percorso formativo universitario la preparazione necessaria allo svolgimento della professione sin dal conseguimento della laurea. Inoltre, nella volontà di istituire un “elenco” degli operatori dei Beni Culturali, considerando per la sua costituzione solo il Ministero ed i Dipartimenti universitari, si ravvede un’inaccettabile autoreferenzialità che rischia di danneggiare , sul lungo termine, la professionalità degli archeologi e delle società che si occupano di indagini preventive, con certificata esperienza e competenza nel settore archeologico. Aggiungiamo alle preoccupazioni fino qui elencate una considerazione sulle ricadute occupazionali: con questo provvedimento vengono tolti spazi operativi ad imprese, di archeologi, con un reale pericolo di ricaduta per quanti già lavorano nel settore. Vi è così il rischio di amplificare il paradosso già esistente, nelle facoltà umanistiche, di formare laureati in discipline per le quali manca, totalmente, una politica di inserimento nel mercato e sviluppo del lavoro. Proponiamo pertanto di inserire tra i soggetti abilitati alla raccolta, elaborazione e validazione dei documenti, chiunque abbia conseguito una laurea quadriennale con indirizzo archeologico o laurea specialistica in archeologia o equipollenti, nonché le società di archeologia (che abbiano i requisiti necessari). Siamo infatti convinti che la laurea quadriennale con indirizzo archeologico o laurea specialistica in archeologia o equipollenti debbano essere riconosciuti come titoli fondamentali per la qualificazione professionale dell’archeologo. Altra questione centrale che emerge con sempre maggiore forza, è quella del diritto d’autore sui dati scientifici elaborati dai collaboratori esterni del Ministero e delle società operanti nel settore. Questi dati, oggi, sono consegnati al Ministero o alle società che li rendono cosa propria escludendo lo “scopritore” da ogni successiva utilizzazione, anche dalle pubblicazioni: una prassi abituale in relazione agli scavi, alla documentazione prodotta su di essi, alle schede di catalogo, etc. Riteniamo, dunque che sia necessario stabilire dei criteri di riconoscimento delle professionalità a partire dalla valorizzazione stessa dei percorsi formativi e delle risorse umane impiegate, perché effettivamente si possa esercitare una coerente attività di tutela dei beni culturali. Siamo infatti convinti che solo un mercato normato, nel quale le regole siano certe e condivise, le professionalità riconosciute, nelle diverse sfaccettature e competenze, possa essere un modello di mercato sano e funzionale alla tutela del patrimonio del bene culturale, alla crescita economica ed allo sviluppo della conoscenza. E’ fondamentale dunque avviare una riflessione profonda sulla necessità di una programmazione di interventi che promuovano e rilancino i Beni Culturali come patrimonio unico, insostituibile ed integrante del nostro vissuto. Beni culturali come beni di tutti, capaci di creare relazioni di qualità con il contesto che li circonda. Valorizzare, quindi, superando la logica esclusiva dell’intrattenimento e dell’evento, puntando piuttosto alla creazione di un senso civico profondo che passi attraverso la conoscenza e la cultura. E’ per questo che vogliamo sottolineare l’importanza della giornata di oggi. La partecipazione all’elaborazione del documento di rappresentanti dei professionisti, archeologi e restauratori, del mondo sindacale e di una importante parte del mondo imprenditoriale, ha lo scopo di arrivare ad una definizione partecipata e condivisa delle competenze e della tutela dei professionisti dei beni culturali, sia in ambito pubblico che privato. Solo con questa premessa sarà possibile riprogettare un sistema dei beni culturali attraverso provvedimenti legislativi che pongano il settore culturale all’interno di un’economia di crescita del territorio e delle sue risorse.
Roma, 16 Maggio 2007
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