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Comitato Direttivo Nazionale Fillea Cgil. Roma, 29 ottobre 2007 - Ordini del Giorno

 

 

Relazione di Franco MARTINI, Segretario Generale Fillea Cgil

 

Con la sessione odierna del Comitato Direttivo dobbiamo approvare tempi e modalità di svolgimento del percorso che ci porterà alla Conferenza Nazionale di Organizzazione della Fillea, sulla base dei criteri definiti dalla Cgil.

Al tempo stesso, dovremo approvare il documento base, che rappresenterà il nostro contributo tematico alla discussione generale, sia sulle questioni politiche, che organizzative. Nei giorni che hanno preceduto questo appuntamento vi abbiamo inviato la bozza del documento, affinché nel corso dei lavori odierni possano essere proposte integrazioni, correzioni, approfondimenti utili. Al termine di questa riunione approveremo la stesura definitiva, che diventerà materiale di discussione che si aggiungerà a quello che la Confederazione proporrà a tutta l’organizzazione.

 

Naturalmente, è impossibile decontestualizzare questa nostra discussione dal quadro generale, caratterizzato dalla precarietà del quadro politico, dall’importante risultato della consultazione sul protocollo, dall’imminente inizio della stagione contrattuale.

 

Vorrei partire dalla consultazione, perché il Direttivo Nazionale Cgil vi ha speso la scorsa settimana due giorni di intenso dibattito, assumendo delle decisioni che impegnano anche la nostra organizzazione, che sono contenuti nel documento finale approvato a conclusione dei lavori, al quale rimando.  Si è trattato –come voi sapete- di una discussione molto seguita dalla stampa, soprattutto per i risvolti interni alla vita della nostra Confederazione.

 

Innanzitutto, è utile tornare sui risultati del voto e della partecipazione, che ha visto nel nostro settore la netta prevalenza dei SI, con oltre il 90%.

Così come è stato fatto nel Direttivo Confederale, anch’io vorrei nuovamente ringraziare, a nome dell’intera segreteria e della stessa Confederazione, tutte le compagne e compagni, funzionari sindacali, ma anche semplici delegati ed iscritti, che nel corso delle scorse settimane si sono prodigati per consentire di realizzare quel risultato, che qualifica il ruolo del sindacato confederale.

 

Su questi dati dobbiamo compiere delle necessarie riflessioni per coglierne a pieno i significati utili alla nostra azione presente e futura. Sono dati che ci danno delle indicazioni, che noi dobbiamo sapientemente interpretare, tanto nei problemi rimasti aperti con quell’accordo col Governo, quanto per rendere il rapporto con i lavoratori una costante irreversibile della nostra pratica democratica.

 

Sul piano della partecipazione, non sfugge a nessuno il risultato del grande sforzo compiuto dalle strutture. Sebbene avessimo sognato un traguardo ancora più avanzato, mezzo milione di votanti, gli oltre 340 mila che alla fine hanno depositato la scheda nell’urna, rappresentano un dato eccezionale se rapportato a quello della volta precedente (1995), sono più del doppio e non sono conteggiati quelli che hanno votato nei seggi allestiti dalle strutture confederali. E’ vero che nel ’95 la categoria era ancora immersa nelle conseguenze della crisi di Tangentopoli, ma è vero anche che le sollecitazioni costanti della Confederazione a superare noi stessi ha fatto si che si producesse questo sforzo generalizzato, evidenziato anche dal numero delle assemblee svolte. Se, inoltre, si pensa al fatto che il rapporto addetti/impresa in dieci anni si è modificato del 40% (in peggio) si può capire quanto ci si sia dati da fare.

Credo doveroso, dunque, il ringraziamento che facevo all’inizio.

 

Il primo problema politico che ci consegna questo risultato è che fine far fare a questa grande prova di democrazia e partecipazione dei lavoratori alle decisioni sindacali?!

 

La prima risposta che mi verrebbe spontanea è che noi non possiamo più tornare indietro. Sappiamo che il tema della democrazia e della rappresentanza è tema che non vede ancora un approccio condiviso tra le confederazioni sindacali. Tuttavia, di fronte a prove così impegnative, quando sono in gioco materie così importanti noi dobbiamo assumere l’impegno a rendere praticabile la consultazione iniziale sulla piattaforma e quella finale sull’accordo. Tanto più, come secondo me è accaduto in questo caso, che ciò incontra l’apprezzamento pieno dei lavoratori, un apprezzamento che si concretizza in un attestato di stima rinnovata verso il sindacato, che ha influito non poco anche sul consenso all’accordo.

 

L’alto consenso registrato sul protocollo, che nella nostra categoria supera addirittura il 90%, è un dato che smentisce le letture strumentali e deformanti delle prime ore, con il NO a rappresentare il disagio dei lavoratori, con le grandi fabbriche industriali epicentro di questo stesso disagio.

Questo secondo aspetto non è stato vero nemmeno tra le aziende meccaniche, addirittura. Ma nel nostro caso è risultato completamente smentito, come già abbiamo avuto modo di analizzare nei primi giorni successivi al referendum.

 

Ma, soprattutto, quello che risulta smentita è l’equazione disagio = NO. Chi più degli edili vive condizioni di disagio: penalizzati sugli usuranti, disinteressati allo scalone, per i noti motivi, del tutto estranei al tempo determinato, dato il diritto delle imprese a licenziarli per fine cantiere? Oltre al disagio del lavoro insicuro dei cantieri e quello generale di ogni persona che vive in questo Paese.

 

Eppure hanno detto SI al protocollo! Come si spiega? Sono privi di una capacità critica, come i loro colleghi meccanici? Sono tutti influenzati o peggio ancora voti finti?

La provocazione dei brogli è durata poco, per fortuna, anche se quel poco quanto è bastato per mettere in evidenza il tentativo di inficiare, delegittimare, screditare l’azione delle confederazioni, e se ciò poteva non suscitare sorpresa se manifestato dagli ambienti della destra, il fatto che questa accusa sia stata mossa dalla parte sinistra, dentro e fuori il sindacato, non è stata una bella dimostrazione di amore verso la causa che si diceva di voler sostenere.

Anche per questo, da una categoria che ha fatto uno sforzo immane per assicurare il massimo della partecipazione attiva dei lavoratori, non può che venire una dura condanna politica a chi si è fatto parte di questa inaccettabile accusa.

 

Il consenso all’accordo ha, innanzitutto, ragioni di merito, relative a misure che vanno incontro alla condizione previdenziale degli edili, come quelle sugli ammortizzatori, ma soprattutto al messaggio di solidarietà che abbiamo trasmesso, per il fatto che il protocollo cerca di dare risposte a più di una categoria sociale: pensionati, giovani, donne, disoccupati ed anche lavoratori. Il nostro settore ha ritenuto giusto valorizzare questo messaggio di solidarietà e noi non siamo andati nelle assemblee a presentare il protocollo come un accordo per i soli edili o solo sulle misure che riguardavano gli edili. Sono gli stessi lavoratori delusi, come tanti altri, delle difficoltà incontrate dal Governo Prodi a far avanzare una politica nettamente discontinua rispetto a quella degli anni scorsi. Ma sono lavoratori che hanno saputo anche apprezzare misure che il Governo ha adottato tra mille difficoltà e che parlano di lotta al lavoro nero, contro gli infortuni, per la regolarità delle imprese. Su questo versante, il nostro versante, si è fatto più in questi diciotto mesi che negli ultimi dodici anni, per dirla con Montezemolo…

 

Il nostro SI è la risultante di un sano realismo, congiunto con un alto senso di solidarietà, ma non è l’accontentarsi di quello che “passa il governo”.

Tant’è che noi abbiamo un problema del dopo-protocollo forse più consistente delle altre categorie, perché nelle assemblee non abbiamo mai detto che quella era la “soluzione finale”, bensì un avanzamento per continuare a migliorare la condizione dei nostri lavoratori.

 

Questo significa che dobbiamo continuare a lavorare su alcune questioni importanti. Abbiamo chiarito che l’edilizia è fuori dagli usuranti, ma abbiamo anche detto che per alcune professioni, come gli asfaltisti, i coibentatori , gli autisti di mezzi privati, proveremo a convincere la commissione governativa che i requisiti vi sono tutti, sulla base dei criteri definiti dal protocollo. La norma dovrà essere ulteriormente chiarita, dato che è saltato il tetto numerico, ma non quello della copertura finanziaria, con evidenti problemi di incostituzionalità.

L’altro aspetto riguarda gli immigrati, per i quali abbiamo previsto una nuova iniziativa sui temi previdenziali, la ricerca di soluzioni atte a definire le condizioni per il riscatto dei contributi previdenziali.

 

Resta aperto il problema del pensionamento anticipato degli edili sul quale dovremo proseguire nell’idea di una soluzione che incroci la contrattazione con il sostegno legislativo.

 

E poi, il tema della precarietà, che è il vero problema lasciato in eredità dal protocollo. Per i giovani abbiamo fatto molto. Ma il protocollo, occupandosi del futuro previdenziale dei giovani, si occupa del loro domani. Esiste un problema che riguarda la condizione dell’oggi, assolutamente determinante per lo stesso futuro previdenziale, il lavoro, la sua certezza e valorizzazione. Noi non possiamo ridurre la questione alla semplice abolizione della L.30, perché lo stato di precarietà del lavoro in Italia, soprattutto per i giovani, è problema complesso, che viene da più lontano e comporta politiche ben più strutturali a favore di una valorizzazione delle competenze.

 

Basti pensare ad un esempio: il titolo di laurea in Francia comporta una rivalutazione sul reddito di un giovane più del doppio che in Italia. Ossia, laurearsi in Francia vale più del doppio che in Italia, in termini di reddito. Anche questa è precarietà! Come lo è la diffusione strumentale dei contratti part-time in edilizia per aggirare i provvedimenti sull’emersione del lavoro irregolare: anche questa è precarietà! Per non parlare delle mille esternalizzazioni di attività svolte in impresa, affidati a giovani costretti a lavorare in proprio, o a progetto, o a termine.

 

Questo è il cancro del lavoro e questa malattia dobbiamo debellare. Il Direttivo Nazionale Cgil ha deciso di assumere una iniziativa sul precariato. Dobbiamo rendere credibile questa decisione, attraverso un impegno vero di tutto il sindacato, tanto più che su questo terreno ci giochiamo la partita del rapporto con intere nuove generazioni.

 

Ma di questa importante consultazione, del suo esito, dei risultati di merito ottenuti si è parlato meno che delle beghe interne alla Cgil. Tutta l’attenzione della stampa era sul processo intentato ai dissidenti in casa Cgil.

Vorrei tranquillizzare il Direttivo che nessun processo è stato aperto a coloro che hanno votato NO. Noi riteniamo che il NO, come il Si, appartenga a tutta l’organizzazione. Quello che viene dipinto come un processo è una discussione rigorosa sulle regole che devono consentire la vita di questa organizzazione. Almeno questo, si! E questo è il senso del percorso di discussione negli organismi dirigenti deciso al Direttivo, che non intende estraniare la Cgil dagli appuntamenti impegnativi di questi mesi, ma, al contrario, ricercare le basi per un rafforzamento dell’unità del suo gruppo dirigente, condizione necessaria per affrontare quegli stessi impegni.

 

La questione delle regole è questione di rispetto fra noi. Ciò che appare sempre meno tollerabile è l’idea che qualcuno in Cgil possa godere di particolari stati di immunità, per cui tutto è consentito, in base a non si sa quale dono divino.

 

La vicenda del Protocollo ha evidenziato due problemi in casa nostra.

Il primo, appunto, quello delle regole, che non è negazione del dissenso, ma come questo possa essere veicolato nel rispetto di comportamenti condivisi da tutti, quello che chiamiamo: le ragioni dello stare insieme. Una organizzazione nella quale ognuno fa e dice quello che vuole non è il massimo esempio di solidarietà e coesione del gruppo dirigente, tanto più dopo che le decisioni sono assunte dagli organismi preposti a farlo. Nel caso del referendum sul protocollo, inoltre, non poteva essere sottovalutato il fatto che non eravamo da soli, dunque, la condizione per esprimere tutte le posizioni in campo doveva essere condivisa da tutte le organizzazioni. In assenza di questa condizione l’unica alternativa era rinunciare al referendum unitario e non mi pare sarebbe stata una grande scelta.

 

Il secondo aspetto è quello della natura confederale della Cgil. La mia opinione è che nel modo come il No è stato argomentato vi sia poco di confederale, direi quasi una visione corporativa del sindacato. E’ impressionante come le ragioni di chi ha sostenuto il protocollo, il merito che ne sta alla base non sia mai stato oggetto di attenzioni da parte di chi ha rigettato il protocollo. Il fatto che con quell’accordo –ad esempio- una categoria come la nostra possa recuperare alcuni anni nell’andare in pensione, pur rimanendo distanziata dalla media di chi va in pensionamento anticipato, sembra non riguardare un settore dell’organizzazione. Così come, sembra non interessare il fatto che per tanti giovani, pur restando una condizione di precarietà del lavoro che va mantenuta al centro dell’iniziativa sindacale, quel protocollo migliori le aspettative pensionistiche. Oppure il fatto che dopo quindici anni vi siano risultati importanti per le pensioni già in essere. Tutto questo, ed altro ancora contenuto nel protocollo, vale molto meno di un risultato parziale ottenuto sullo scalone, questione, si importante, ma che riguarda una minoranza dei soggetti destinatari dell’accordo; oppure, meno di soluzioni insoddisfacenti, come quelle realizzate sul mercato del lavoro, ma che potranno essere comunque oggetto di intervento della contrattazione, per ridurne gli effetti negativi, mentre dovrà continuare a svilupparsi l’iniziativa per migliorare la legislazione sul lavoro.

 

Per queste ragioni la lettura del NO risulta riduttiva ed ispirata ad una visione corporativa.

Ma la crisi della confederalità sta anche e soprattutto nella difficoltà a costruire le necessarie sinergie e visioni unitarie nella gestione della contrattazione. Noi possiamo dirlo, avendo cantieri da gestire nei quali sono presenti lavoratori con contratti di settori diversi e non riusciamo a mettere insieme le categorie interessate, soprattutto in presenza dei subappalti, cioè, guarda caso, del precariato. Si denuncia a parole il precariato e poi si fa fatica a costruire su di esso una iniziativa comune delle categorie. In questo limite vi è grande traccia di una lettura arretrata del mondo del lavoro, nella quale si continua ad assegnare una centralità del lavoro manifatturiero della grande impresa, che è centrale solo nella nostalgia di chi dirige il sindacato, non certo in chi vive questa condizione.

 

Di questo bisogna parlare nella fase di discussione che il Direttivo Cgil ha proposto, non di processi o sanzioni, come si è voluto far credere, cosa che appartiene ad altre sedi della vita di questa organizzazione.

In questo caso, resto convinto di quanto affermato al Direttivo. Non c’è compatibilità tra il valore della confederalità e quello dell’indipendenza. Richiamarsi a questo ultimo valore significherà negare sempre il primato della confederalità: se si è tutti indipendenti non può esistere più la Confederazione. Se vogliamo la Confederazione dobbiamo rinunciare all’idea di indipendenza. Questo è l’equivoco principale che continua a trascinarsi, soprattutto nel rapporto con la Fiom, che resta una grande risorse di questo sindacato.

 

Altrettanto va detto sul valore dell’autonomia. La mia opinione resta che nelle ragioni di chi si è opposto al protocollo c’è poco del merito sindacale, o per lo meno esiste una sproporzione poco giustificabile con le ragioni sindacali, tra risultati e reazione negativa. Nella nostra storia è capitato di fare molto peggio di quello che di poco condivisibile vi era nel protocollo. E allora, perché, molti si chiedono? Perché questa volta NO?

Difficile sfuggire alla convinzione che le ragioni erano altre. Del resto, un sindacalista, quando rinuncia ad una intesa, che spesso è un compromesso, deve offrire una alternativa valida e praticabile. Qual’è in questo caso? La stessa manifestazione del 20 ottobre, che ha messo in piazza un problema autentico, ma sul versante del protocollo quale alternativa praticabile ha offerto? Tutti sanno che questo governo regge l’anima con i denti e che non esistono le condizioni per cambiare alcunché. Un gruppo dirigente non può deresponsabilizzarsi rispetto alla proprio funzione. A quelle centinaia di migliaia di persone andate in piazza occorre dire se esiste una via, altrimenti produciamo nuova frustrazione.

 

La verità è che noi non sappiamo ancora quanto durerà questo Governo, il che, ovviamente non può essere condizione di ricatto per nessuno. Ma dobbiamo sapere che se non c’è questo Governo al 99% tornerà Berlusconi e se tornerà Berlusconi non solo del protocollo non se ne parlerà più, non solo tornerà lo scalone e altro (dato che indipendentemente da Berlusconi, il protocollo deve essere approvato dal Parlamento), ma gran parte dei provvedimenti adottati in questo anno, che guardano al nostro settore, potranno fare dietro front.

 

Io considero questa eventualità non solo una iattura, ma la dimostrazione più grande che si possa offrire di masochismo e di stupidità politica. Assistere al dilaniarsi del centro sinistra, per interessi di pura bottega, sulle spalle di migliaia di lavoratori e pensionati, credo una offesa al Paese ed al sentimento di chi, pur nelle difficoltà che il voto ha manifestato, aveva espresso un atto di fiducia verso il centro sinistra.

 

Per questo, nel rispetto della nostra autonomia, dobbiamo dire quali danni sarebbero per i lavoratori delle costruzioni se il Governo tornasse a casa. Pensiamo al Durc, alle misure contro il lavoro nero a quelle per la sicurezza e così via.

Pensiamo alla differenza tra rinnovare un contratto dentro questa cornice normativa e quella che potrebbe tornare a galla con un governo di centro destra.

 

Nei prossimi giorni, dunque, la Fillea intende stare in prima fila per vigilare sulla corretta applicazione del protocollo, auspicando un ritrovato e necessario equilibrio all’interno della maggioranza. E vogliamo stare in prima fila nell’affermare il valore della confederalità, a partire dalle sfide dentro le quali gran parte del sindacato è impegnato. Per questo propongo che il nostro Direttivo approvi un ordine del giorno di sostegno alla lotta contrattuale delle altre categorie, a partire dai meccanici, ai pubblici dipendenti e quelli della scuola, che proprio in questi giorni sono stati impegnati e lo saranno ancora nelle prossime ore nelle loro iniziative di mobilitazione.

 

Così come saremo in prima fila nell’iniziativa sui temi della precarietà e del fisco, che saranno al centro del confronto sulla finanziaria 2008, la cui piattaforma sarà al centro dell’attivo nazionale unitario del 24 novembre, che preparerà una grande manifestazione a sostegno dei nostri obiettivi.

 

Sui nostri contratti non c’è nulla di nuovo da dire, se non l’importante chiusura del contratto legno artigiani, con qualche strascico nel rapporto con la Confederazione, che stiamo tentando di chiarire in modo costruttivo.

Tutte le piattaforme sono concluse ed anche l’edilizia è pronta a partire, poiché già è stata convocata l’apertura del negoziato, il 14 novembre.

Anche sul versante contrattuale, la consultazione ha consentito di stabilire un rapporto positivo con i lavoratori, che adesso non deve essere disperso. Per questo in ogni fase dei negoziati dobbiamo sentirci impegnati a tenere vivo questo rapporto, con tutti i mezzi e gli strumenti che ci consentono di rapportarci ai luoghi di lavoro.

 

Al tempo stesso, dovremo rilanciare l’iniziativa sulle questioni legate alla qualità del settore, anche a fronte dei nuovi investimenti che la finanziaria individua sul capitolo infrastrutture (2,5 milioni). E collegato a questo aspetto, dovremo proseguire nell’iniziativa al tavolo di settore, per estendere i provvedimenti connessi alla regolarità, a partire da quello sulla congruità.

Ma su queste materie, potremo tornare con più attenzione nella prossima sessione del Direttivo Nazionale.

 

 

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Nei materiali che sono stati consegnati alle strutture nei giorni scorsi è descritto il percorso che porterà la Fillea alla sua Conferenza di Organizzazione Nazionale, in preparazione di quella della Cgil. Rimando a quelli per i particolari.

 

Perché consideriamo l’appuntamento della Conferenza qualcosa più di un evento rituale nella vita della Cgil?

Innanzitutto, per il fatto che la distanza che ci separa dalla precedente, 15 anni, la rendono tutto fuorché appuntamento rituale.


Se è vero che una Conferenza di Organizzazione ha il compito di verificare la sintonia tra il progetto politico e la strategia organizzativa, rendendo tale verifica molto più puntuale ed in profondità di quanto lo possa fare un congresso nazionale, il fatto che l’appuntamento manchi da oltre un decennio, rende di per sé necessario impegnare tutta la Cgil in una radiografia aggiornata di quanto lo strumento della politica si sia evoluto al passo della politica che abbiamo scelto di sostenere.

 

Abbiamo sempre considerato l’organizzazione un mezzo e non un fine, quindi, terreno non per cristallizzazioni ideologiche, quanto laboratorio di sperimentazioni delle soluzioni più utili a conseguire gli obiettivi che ci diamo ai congressi.

Naturalmente, sarebbe impossibile parlare di buona organizzazione senza il fondamento di una strategia forte, circa il ruolo di tutela e di rappresentanza del mondo del lavoro, che noi ci proponiamo di esercitare.

 

Per queste ragioni, mentre la Cgil sta predisponendo i materiali per la Conferenza, attraverso il lavoro delle commissioni, sulla base della Relazione che Carla Cantone ha presentato al direttivo Nazionale, la Segreteria Nazionale Fillea, quale contributo specifico a questa discussione, vi ha proposto un documento, che questo Direttivo dovrà discutere e approvare, per diventare, assieme ai materiali della Confederazione, elemento di arricchimento della nostra discussione e delle nostre proposte.

 

Li troverete il nesso tra la politica e l’organizzazione, perché muoviamo dalla riproposizione del profilo politico e culturale della nostra categoria. E’ utile farlo oggi, in una Conferenza che si svolgerà a due anni dal Congresso di Pesaro, quindi, al giro di boa del mandato congressuale, per capire quanto quelle scelte siano diventate così radicate dentro la categoria, da far ritenere irreversibile il processo che abbiamo avviato all’inizio degli anni duemila

Ed è ancor più utile farlo oggi, perché la Conferenza coinciderà sostanzialmente con l’avvicinarsi di scadenze importanti che riguardano il mandato di un nucleo consistente di questo gruppo dirigente, ed è bene sapere cosa e a chi consegneremo questo lavoro.

 

Dato che il documento, seppur in modo sintetico, dice chiaramente quello che la segreteria pensa a questo proposito, posso limitarmi ad evidenziarne i tratti principali.

Se il congresso di Pesaro ha rappresentato l’espressione massima della crescita registrata dalla categoria in questi anni, la Conferenza non può che sancire l’irreversibilità di quel processo.

Quel processo descrive un percorso che in questi anni ha accompagnato i cambiamenti intervenuti all’interno del settore ed il tentativo della categoria di interpretarli al meglio.

 

Chi viene da più lontano ricorderà la complessità delle sfide che la categoria ha dovuto fronteggiare negli anni ‘90. La Fillea che ci fu consegnata da Carla a conclusione di quel ciclo, era una categoria uscita a testa alta e con le spalle larghe e solide da quello che può considerarsi un vero e proprio ciclone abbattutosi sul settore, la crisi di Tangentopoli. Una categoria che aveva saputo resistere, che aveva saputo gestire la ricostruzione del tessuto di rappresentanza nelle aree più colpite dalla crisi e che aveva saputo presidiare i fronti più significativi dell’azione sindacale, a partire da quelli legati alla contrattazione.

 

Quel gruppo dirigente, a partire da Carla, nel consegnare a questo gruppo dirigente le sorti della categoria, chiese di portare la Fillea ancora più avanti, come era giusto che fosse, chiese di capire la fase nuova che già si percepiva nel ciclo economico e produttivo del settore e fare di questa inversione di tendenza una nuova opportunità per accelerare gli stessi processi di rinnovamento delle strutture e dei gruppi dirigenti della categoria. Ed è il lavoro che tutti quanti ci siamo messi a fare in questi anni, convinti che quelle indicazioni fossero le più giuste per consolidare la Fillea.

 

E’ per questo che nessuno capirebbe oggi una discussione sulla validità delle scelte che ne sono conseguite, quando, la vera discussione non può che essere sul come assicurare, oggi come ieri, che a questo processo sia garantita continuità ed analoga capacità e forza evolutiva. Forse è il mio vestire in continuazione i panni dell’avvocato del diavolo a farmi porre problemi che probabilmente non esistono nemmeno. Del resto, abbiamo fatto un congresso, l’ultimo, che in fatto di chiarezza su ciò che vogliamo e su dove vogliamo andare, è apparso più chiaro della luce, incontrando un generale consenso da parte di tutta l’organizzazione.

 

Ma le cose è meglio dirle una volta in più, che una in meno, soprattutto per tutelarci dal rischio di cullarci sugli allori, perché, se è vero che molto abbiamo fatto, anche per noi vale che molto ancora può e deve essere fatto.

 

Vorrei esplicitare questo concetto su due questioni, sulle quali, ogni tanto arrivano refoli di vento tesi a scompigliare le nostre convinzioni.

 

Vengo alla prima. Aver portato la Fillea ad investire ancor di più su territori sui quali in precedenza la crisi non aveva reso possibile una adeguata esplorazione, ha significato allontanamento dalla missione principale della categoria?

Ogni tanto tra le righe del nostro discutere in categoria riecheggia il richiamo al primato assoluto della contrattazione. Ed in questo dire è chiaramente contenuto il monito ad un presunto smarrimento o allontanamento dalla priorità assoluta della nostra missione sindacale, appunto, la contrattazione.

 

E’ così? E’ esistito ed esiste veramente il rischio che il lavoro da noi svolto in questi anni ci abbia resi meno contrattualisti o meno efficaci in questa attività primaria del sindacato? Chiederei un pronunciamento chiaro su questo punto, perché se è così va detto, poiché si tratta di introdurre le necessarie correzioni al nostro lavoro.

 

Io credo che non sia così e penso –anzi- che sia esattamente il contrario. A dirlo non sono io, ma sono i risultati dell’intero ciclo contrattuale di questi anni, segnato da un rinnovo contrattuale con risultati importanti, in tutti i settori; da un biennio economico altrettanto soddisfacente, da una contrattazione di secondo livello che ha ribadito la validità del nostro modello e dalla preparazione della nuova stagione contrattuale, con piattaforme la cui elaborazione ha visto la nostra organizzazione fare ancora una volta la parte di attori protagonisti e non di comparse.

Indubbiamente, siamo stati premiati anche dal ciclo favorevole dell’economia settoriale, ma i risultati parlano chiaro, tanto sul piano economico, che su quello normativo e parlano di un gruppo dirigente che la contrattazione la sa fare, sa cosa sia, tanto a Roma che in periferia. Qui dentro non c’è nessuno che abbia mai pensato e pensi di rendere la contrattazione una attività opzionale della Fillea.

 

Il problema, semmai, è un altro. Se la contrattazione è lo strumento con il quale il sindacato deve esercitare al meglio la propria funzione di tutela e di promozione delle condizioni dei lavoratori nei nostri settori, non esiste e non potrà mai esistere una visione accademica di questa funzione, ossia, una sua interpretazione assoluta. Sull’esercizio della contrattazione non può che riflettersi l’evoluzione di un settore, tanto nella composizione del lavoro, che della natura e struttura dell’impresa, altrimenti rischieremmo che la contrattazione parlerebbe ad un’area sempre più ristretta di lavoratori, guarda caso quella più forte.

 

In questi anni abbiamo tentato di dare maggiore efficacia alla contrattazione misurandoci con la complessità del settore, che rende –per prima cosa- intrecciata la stessa con l’assetto normativo e legislativo del settore. A cosa sarebbe servita, ad esempio,  tutta la nostra iniziativa sui temi della regolarità e trasparenza degli appalti, della qualificazione dell’impresa, della lotta al lavoro nero e gli infortuni, se non ad imporre provvedimenti legislativi, utili a rendere più efficace l’azione di tutela contrattuale? E come non vedere nei provvedimenti assunti in questi mesi dal Governo in queste materie, il risultato della nostra pressione e delle nostre proposte, che aiuteranno i tavoli contrattuali?! Non tutte le categorie hanno la stessa nostra esposizione all’impatto con le norme legislative. Pensate solo alla differenza che vi sarà nell’avviare un negoziato per il rinnovo del Ccnl in edilizia con o senza la pregiudiziale della controparte sull’Art.15. La volta precedente questa pregiudiziale ci costò ben tre mesi di trattativa in più!

 

Ma abbiamo guardato alla contrattazione anche quando ci siamo occupati delle aree deboli della nostra organizzazione, ad esempio, il Mezzogiorno. Che senso ha parlare di sviluppo del Sud, come abbiamo fatto nella prima conferenza sul Mezzogiorno e come continueremo a fare nella seconda Conferenza, che proponiamo di svolgere dopo la Conferenza di organizzazione, se non quello di creare le condizioni affinché anche in quelle aree possa esercitarsi una contrattazione forte, in grado di tutelare il lavoro, fuori dai ricatti della povertà e delle mafie?

Di questa seconda conferenza sul Mezzogiorno vi daremo nei prossimi giorni le indicazioni tematiche ed organizzative, ma fin da adesso posso confermare che per le ragioni dette essa rappresenterà u appuntamento di tutta l’organizzazione, non solo di quelle meridionali.

 

Dunque, l’investimento in termini di iniziativa fatto su questi temi in questi anni ha avuto (e continua ad avere) lo scopo non solo di non distrarci dal primato della contrattazione, ma, al contrario, di affermare tale primato nel nuovo contesto, quello di una crescita economica che rischiava di saltare completamente il tema della qualificazione del settore. I soldi spesi per una convenzione con l’Università di Valle Giulia che ci aiuti a studiare e capire i processi che hanno investito la composizione dell’impresa in questi anni, oppure, quelli spesi per le competenze necessarie ad avanzare proposte legislative in materia di qualificazione dell’impresa, ma anche quelli per apprendere meglio il processo di responsabilizzazione (o deresponsabilizzazione) nella catena dell’appalto, cono soldi spesi bene, per fare una buona ed efficace contrattazione.

 

La seconda questione riguarda il lavoro da noi fatto sulla rappresentanza: aver impegnato la Fillea su nuovi territori della rappresentanza, quali i lavoratori stranieri, comparti inesplorati come quello dei beni culturali, la questione della rappresentanza di genere e poi lo sforzo per produrre un rinnovamento anche in termini generazionali, insomma, la dico in modo più volgare, essersi occupati di immigrati, donne, giovani, restauratori ha significato perdere tempo, dilettarsi con il contorno trascurando il centro della pietanza?  Ha significato “deviare” dalla natura intrinseca della categoria, per rincorrere mode che poco hanno a che fare col settore stesso? Anche qui, se qualcuno pensa che sia così lo deve dire, perché se ha ragione dobbiamo correggere il nostro lavoro.

 

Il documento dice bene quello che pensiamo, che è quello che già al XVI Congresso abbiamo affermato. Anche in questo caso –dato che pochi o nessuno credo contesterà la validità di questa scelta- il problema penso sia più quello della coerenza delle nostre azioni, quello dell’attuazione concreta e convinta di queste scelte. Per questo mi limito ad offrire una guida sintetica di come cogliere bene le decisioni che proponiamo nel documento.

 

Facciamo alcuni esempi. Il tema dell’immigrazione e della presenza degli immigrati nel sindacato è quello che probabilmente, più di ogni altro ci pone di fronte alla necessità di ripensare noi stessi. La scelta del sindacato multietnico è la testimonianza di un approdo irreversibile per un sindacato che alla presenza dei lavoratori stranieri nei propri settori non potrà che guardare come una componente sempre più prevalente. Il positivo lavoro svolto dalla nostra categoria ha avuto una recente conferma e rinnovati apprezzamenti in occasione della Conferenza Nazionale Immigrati Cgil tenuta a Napoli proprio alla fine della scorsa settimana. Non è solo il dato quantitativo, che porta la Fillea da sola a rappresentare un terzo di tutti gli immigrati iscritti alla Cgil; è soprattutto la crescita della presenza di quadri immigrati nel nostro gruppo dirigente ed il tentativo di qualificare le politiche contrattuali su questi temi. Di questo dobbiamo dare atto a tutte le strutture e alle compagne e compagni che nella struttura nazionale in questi anni hanno lavorato con determinazione a questi obiettivi.

 

E tuttavia, proprio il fatto di essere riconosciuti, legittimamente, avanguardia nel lavoro sugli immigrati non deve farci cullare sugli allori. A noi è giusto chiedere di più, perché possiamo fare di più e, come diceva Carla a Napoli, aver eletto Moulai segretario nazionale della Fillea, fatto di per sé importantissimo, non compensa i limiti che ancora esistono nel nostro lavoro, limiti che dobbiamo superare.

 

Questi limiti possono essere individuati innanzitutto nel ritardo con il quale alcune strutture stanno affrontando il tema della rappresentanza degli immigrati. I dati sul tesseramento giugno07/giugno’06 offrono un quadro  utile alla comprensione di quanto affermiamo. Il Sud è l’area che cresce più delle altre, a conferma di un fenomeno che comincia ad interessare in modo sensibile quelle regioni, anche se proprio nelle regioni degli sbarchi clandestini si verifica una diminuzione importante, che in un caso assomiglia più ad un crollo che ad una diminuzione.

Il Nord continua a crescere, per evidenti ragioni, anche se con una percentuale pari a meno della metà del Sud. In questo gruppo vi sono importanti strutture il cui dato è ancora lontano dalla presenza di immigrati nel territorio di riferimento.

Il Centro cresce poco e se non fosse per le Marche, che tira su la media, l’unico dato positivo è del Lazio, ma di appena due punti percentuali, mentre le altre hanno un trend negativo.

 

Nel complesso, questo andamento conferma il fatto che la Fillea, nonostante il suo gran da fare, è delle tre l’organizzazione che meno intercetta l’iscrizione degli immigrati. E’ una contraddizione sulla quale è utile interrogarsi a fondo.

Anche perché potrebbe esistere una connessione con una concezione che ancora permane in alcune nostre strutture, relativa all’impegno degli stranieri dentro la Fillea. Anche qui lo dico volgarmente: diversi di loro descrivono un loro utilizzo quasi prevalente da “portaborracce”, da “cacciatori di deleghe”, il che, associato ad una resistenza ad offrire le necessarie agibilità sindacali (partecipazione alle riunioni, partecipazione all’attività formativa), la dice lunga sulla convinzione di quanto gli immigrati siano considerati risorse dell’organizzazione.

 

Noi non proponiamo condizioni di privilegio per gli immigrati che sono parte dei nostri apparati sindacali, ma corsie preferenziali SI, perché altrimenti non si può fare finta di non vedere che qui vi è un investimento da fare da parte dell’organizzazione. Un investimento che deve nascere già a livello delle RSU e RLS, la cui composizione non evidenzia tracce consistenti di questo investimento. E poi, negli apparati e nei gruppi dirigenti: quanti immigrati, della trentina circa entrati nelle nostre strutture, sono nelle segreterie?

Anche per questo, nel documento, proponiamo la costituzione dei coordinamenti, provinciali e regionali, che non devono essere costituiti solo dai funzionari, ma da tutti gli iscritti, aperti agli stessi lavoratori, per offrire non sedi di isolamento e ghettizzazione, ma luoghi di incontro, per aiutare l’espressione dei bisogni specifici e delle difficoltà che questi lavoratori incontrano.

Ed anche per questo, proponiamo che i coordinamenti immigrati accompagnino la fase di elaborazione delle piattaforme contrattuali, per aiutare l’organizzazione a cogliere queste peculiarità.

Ma la costruzione del sindacato multietnico, lo abbiamo già detto, comporta una iniziativa di politica internazionale della Fillea, che comprenda una iniziativa nelle sedi delle federazioni europea e mondiale ed una a sostegno della cooperazione allo sviluppo. Stiamo costruendo piano, piano una attività più sistematica del dipartimento internazionale, che la Conferenza deve sancire, come terreno irrinunciabile del nostro lavoro.

 

L’altro esempio riguarda le lavoratrici ed i lavoratori dei beni culturali, che ci vede impegnati in una annosa vertenza con il Ministero.

All’inizio, questo impegno è stato vissuto come il “pallino” di qualcuno, per dare un po’ di colore alla Fillea. Poi, quando si è capito che si trattava di alcune decine di migliaia di ragazzi sparsi per i cantieri in prevalenza delle città d’arte, l’ironia è diventata sufficienza, pacifica sopportazione di un fenomeno considerato ai confini della nostra tradizionale rappresentanza.

Quando abbiamo insistito ad occuparci del problema non lo abbiamo mai fatto pensando che questo fosse IL problema, ma semplicemente, uno dei problemi dei quali una categoria come la nostra deve occuparsi, anche per competenze contrattuali.

 

Ma serve rimarcare, in questo esempio, il ritardo con il quale un gruppo dirigente come il nostro fatica a cogliere alcune importanti novità, che non ci parlano solo di quel settore.

Per molto tempo tanti di noi hanno ragionato con questo schema mentale: “essi non ci appartengono, perché non sono iscritti in Cassa Edile”. Quando poi siamo riusciti a coinvolgere alcuni di loro nel lavoro sindacale, alcune sentenze emesse contenevano il fatidico “non fanno le deleghe nei cantieri, dunque, non sono utili!”. Scusate la volgare franchezza!

In realtà, dentro questo ragionamento, sono contenuti molti limiti di approccio con i quali il gruppo dirigente consolidato della Fillea affronta più di un fenomeno in atto nel nostro settore. Di questi limiti, quelli che io considero più dannosi e da rimuovere sono, innanzitutto, la miopia con la quale si nega alla categoria la possibilità di alimentare i propri gruppi dirigenti, ma prima ancora, le proprie idee attingendo a giovani, in prevalenza ragazze, espressioni di un mondo fatto di sensibilità culturali nuove, e di esigenze inedite rispetto alla tradizionale azione rivendicativa della categoria. Per non parlare delle potenzialità di sviluppo del settore stesso.

E poi, il limite prevalente, l’incapacità di immaginare una rappresentanza che vada oltre il lavoro strutturato del settore: da una parte gli impianti fissi, nei quali valgono le dinamiche del manifatturiero; dall’altro, gli edili, il cui accesso alla categoria avviene sostanzialmente, per non dire esclusivamente, tramite la Cassa Edile. Tutti gli altri, che pure lavorano in cantieri, ma anche in alcuni impianti fissi, sono figli di nessuno!

 

Eppure sono figli dello stesso processo produttivo, con la differenza dell’aver incrociato l’era della flessibilità nella sua versione peggiore, quella della precarietà!

Quando sento dire che i restauratori non ci appartengono, perché non sono lavoratori dipendenti, anzi, tanti di loro sono Partite Iva, mi chiedo come si possa smarrire la memoria storica, che ci parla di quanti anni ci costò capire che le lavoranti a domicilio del tessile erano semplice esternalizzazione del lavoro dipendente (come del resto i tessitori artigiani) e dovemmo addirittura inventarci una legge per loro; oppure, le lavoratrici e lavoratori delle imprese di pulizia, molto meno strutturate dei dipendenti degli ipermercati; oggi aggiungeremmo l’esempio dei giovani dei call center.

 

Stiamo parlando del precariato e parlando dei beni culturali, stiamo parlando di una faccia del nostro precariato!

Il precariato non è solo lavoro nero e irregolare, quello è lavoro illegale, innanzitutto, che produce condizione precaria.

Qui stiamo parlando della destrutturazione legalizzata del mercato del lavoro, i figli della Legge 30, come riduttivamente qualcuno dice. Gente che non né iscritta alla cassa Edile, almeno per adesso; che non sa neanche cos’è il sindacato e magari non prenderebbe mai una tessera sindacale, almeno per adesso.

Noi vogliamo essere il sindacato anche per loro e di loro, oppure NO? Vogliamo che la Fillea si faccia carico della rappresentanza del nostro precariato, o pensiamo che queste migliaia di giovani ragazze e ragazzi debbano essere abbandonati al proprio destino, sperando che Nidil da sola possa produrre qualche illusione?

 

Chi frequenta qualcuno di questi cantieri sa di cosa parliamo e invito i compagni della Sicilia e di Catania a spiegare a questo Direttivo la vergogna della quale stiamo parlando, a proposito della vertenza in corso in quella città!

Il documento è chiaro su questo, come già lo fu il Congresso: questa è roba nostra, ci riguarda e dobbiamo farcene carico. Ovviamente, a partire dalle strutture più coinvolte. Vi sono delle involuzioni in corso, alcune delle quali considero veramente preoccupanti, perché riguardano strutture molto significative della nostra organizzazione. Noi, come Nazionale, intendiamo dare un segnale forte, che indietro non si torna, anche perché questo è un impegno che candida la categoria ad estendere i confini della propria rappresentanza, anche se sarà faticoso. Però dobbiamo farlo!

 

Oltretutto, in questo caso, è un modo per contribuire anche alla crescita della rappresentanza di genere, dato che quel settore è composto quasi esclusivamente di donne.

Su questo tema, credo che il lavoro svolto ancora dopo il Congresso abbia testimoniato quanto la Fillea abbia voluto provare ad andare contro una legge quasi fisica. Tra pochi giorni le donne segretarie generali di province saliranno a dodici, diciamolo francamente, una piccola rivoluzione.

Vale qui, quanto detto in precedenza. Non possiamo fermarci, nonostante i risultati, ma badate, non tanto e non solo perché c’è una regola statutaria che ce lo impone. Per me, quel riferimento, non è mai stato il vero stimolo per agire su questo punto, anche perchè, se realmente le donne non esistessero nel settore non ci sarebbe barba di commissione di garanzia che potrebbe imporre una cosa che non esiste.

 

Abbiamo detto di credere a due cose. La prima, che vogliamo combattere l’idea di una incompatibilità biologia tra il nostro settore prevalente, l’edilizia, e la presenza delle donne nei cantieri. Certamente, si tratta di una attività pesante, soprattutto per le modalità di svolgimento del lavoro. Ma la battaglia per la qualificazione del settore, qualità del lavoro, sicurezza, condizioni di vita nei cantieri, deve servire per ridurre le distanze tra questo lavoro e la possibilità delle donne di entrarvi.

L’altra è che, là dove le donne sono presenti, debbono essere rappresentate e impegnate agli stessi livelli di responsabilità degli uomini, sapendo che per rimontare lo squilibrio vale quello che ancora Carla diceva a Napoli, portando questo problema come esempio. Non solo a parità di condizioni occorre scegliere la donna, ma occorre anche che una donna non entri nei gruppi dirigenti solo per sostituire una donna, ma anche e soprattutto per sostituire un uomo.

Ovviamente, questo non significa che le donne debbono saltare i processi democratici e trasparenti di verifica del consenso. Ma, essendo tutti adulti e vaccinati, sappiamo che alle donne si è soliti presentare un conto più salato, esami supplementari, invece di favorire la creazione di queste condizioni di consenso. E’ triste quando ogni tanto si sentono affermazioni del tipo “ma quella non può farlo, c’ha anche i bimbi da badare e non potrebbe garantire…” E’ triste, ma è anche grave, quando è soprattutto se non esclusivamente l’uomo a fare queste affermazioni.

 

La nostra volontà di rispettare la regola dello Statuto, lavorando per costruire le condizioni, è innanzitutto una scelta culturale. Vorrei ricordare che già in diversi paesi, anche nel nostro, il tema della parità tra i sessi nella rappresentanza politica ed istituzionale –anche in riferimento all’Art. 51 della Costituzione- è gia oggetto di iniziative, che assumono come obiettivo la presenza paritaria di entrambi i sessi. Non dico che dobbiamo assumere quel riferimento come obiettivo vincolante, ma faccio per ricordare quale sia oggi l’orizzonte che sta orientando la discussione sulla presenza di genere, per far si che la Fillea vi partecipi sia come adesione culturale alla campagna, che come impegno ad una coerente applicazione della norma statutaria.

 

Rispettare la norma antidiscriminatoria significa, innanzitutto, sanare il deficit nella Segreteria Nazionale. In occasione della discussione sulle dimissioni della compagna Innocenzi, assumemmo l’impegno all’integrazione entro la Conferenza di organizzazione. Per le ragioni suddette quell’entro non può che essere interpretato in un modo solo, subito, altrimenti saremmo dentro una grave contraddizione, commetteremmo un grave errore politico!

Poiché è nostra intenzione rispettare il percorso deciso a suo tempo, che prevede la discussione preventiva nel coordinamento di Fillea@donna (la cui riunione è stata programmata per la metà di novembre), non eravamo nella condizione di procedere con l’odierna sessione del Direttivo. Ma la proposta è di farlo in occasione della prossima sessione, prevista prima della fine dell’anno, affinché la Segreteria possa nella sua interezza gestire la fase più impegnativa della Conferenza di Organizzazione.

 

Le donne discuteranno, poi discuterà anche il Direttivo, credo giusto, tuttavia, anticipare l’opinione della Segreteria Nazionale relativa al fatto che dovremo trovare una soluzione interna alla categoria, pur scontando una possibile difficoltà dell’organizzazione. Ma qualunque soluzione esterna non potrebbe che rappresentare la sconfessione di un lavoro che vede la Fillea una delle categorie più impegnate sul fronte della presenza delle donne nei gruppi dirigenti.

 

Rispettare la norma significa, inoltre, che con il coordinamento donne dovremo compiere un accurato monitoraggio sulle strutture in sofferenza con la presenza delle compagne e per ognuna avviare un progetto di valorizzazione delle donne, che possa, entro i tempi del prossimo congresso, realizzare un riequilibrio della rappresentanza di genere.

 

Tutto ciò che abbiamo fin qui detto parla di un lavoro fatto da noi nel corso di questi anni, teso a creare la miglior coniugazione fra tradizione ed innovazione. Una categoria che vive di tradizione, ma che per non sopravvivere, deve saper innovare il proprio profilo politico e culturale. Per questo non sarebbe capita una contrapposizione o un presunta incompatibilità tra il cosiddetto vecchio ed il cosiddetto nuovo.

Questo vale quando proponiamo il rinnovamento generazionale, che mai nessuno ha inteso come pensionamento delle più consolidate esperienze, o quando ci sforziamo di dare voce a quella parte del mondo del lavoro che ci appartiene, che non deve chiedere scusa di esistere, non deve sentirsi ospite in questa categoria, ma protagonista, come chi lo è stato per tanti anni.

 

La Conferenza, infine, ribadirà altre scelte da noi compiute, adeguandole alle esigenze più attuali. Le troverete nel documento. Di queste sento di dover chiarire solo qualche altra.

 

La questione delle strutture e dei regionali. Non c’è messa in discussione della scelta ormai consolidata di abolire i regionali quali istanze congressuali di primo livello. E’ una scelta che ha pagato e che vogliamo riproporre per i prossimi anni. Ma ciò no significa abolire la funzione di una attività di direzione e di coordinamento regionale. Da una verifica fatta in questi mesi emerge la necessità di valorizzare tale funzione, in particolare in alcune realtà dove, la doppia responsabilità regionale/provinciale ha oggettivamente appannato l’una e l’altra funzione. Come vedrete dal documento, si tratta delle regioni più consistenti, dato che per quelle minori può immaginarsi la riconferma del doppio incarico.

 

Le rispettive conferenze territoriali affronteranno l’argomento e definiranno i percorsi, per le strutture che dovranno adeguare il loro assetto, ma vorrei chiarire che si tratta di esigenze che dovranno essere realizzate con i tempi della Conferenza o subito dopo, perché sarà poi il Congresso, fra due anni, a verificare gli effetti che questa scelta avrà prodotto nel nostro lavoro.

 

La questione delle risorse. Nulla di nuovo da dire, se non il fatto che la conferma di una politica di solidarietà verso le strutture confederali dovrà sempre più avvenire con criteri finalizzati e nel pieno esercizio della titolarità delle risorse. Carla non ha bisogno di sentirselo dire, poiché conosce perfettamente la categoria. Criteri finalizzati significa sostegno a progetti di qualità dei gruppi dirigenti. Spesso assistiamo a vere e proprie rapine di giovani quadri formatisi in categoria, senza alcuna concertazione con le Camere del Lavoro, in cambio di risorse non sempre compatibili col lavoro della categoria. Quando possiamo opponiamo resistenza, cercando di spiegare le nostre ragioni. Non sempre questa resistenza è colta dalla Cgil come ispirata agli interessi della stessa nostra organizzazione.

 

Continueremo a investire nella formazione, nella informazione e comunicazione e nella informatizzazione. Li accomuno solo per la rima, ma per ognuno di questi settori troverete nel documento le giuste motivazioni che sostengono la scelta di attrezzare sempre di più la Fillea su entrambi i terreni.

La formazione, in particolare, sarà sempre più la leva per la formazione dei nostri gruppi dirigenti. Io non vorrei che quando poniamo il nesso tra l’uso delle risorse ed il carattere vincolante della formazione qualcuno pensasse alla favola del lupo e dell’agnello. Alla fine, il rischio che il lupo si mangi l’agnello è più che probabile, se dovessimo registrare un allentamento dell’impegno delle strutture, alcune delle quali ancora proprio non hanno capito che la formazione diventerà sempre più obbligatoria.

 

Qualche giorno fa è stata finalmente siglata l’intesa unitaria che rinnova il cosiddetto patto di Grottaferrata. Mi limito a dire che quell’intesa rappresenta per noi un punto di riferimento importante per intensificare la nostra iniziativa sulla trasparenza della deleghe, contro ogni fenomeno degenerativo, con il chiaro obiettivo di estendere la rappresentanza, dato che il risultato vero della competizione –lo abbiamo detto più volte- al momento è una diminuzione del tasso di sindacalizzazione.

 

Ed infine l’unità interna alla Fillea, condizione indispensabile per quella con Filca e Feneal, ma anche per contribuire a rafforzare quella dentro la Cgil. La nostra categoria, per la sua esperienza positiva può dare un grande contributo affinché dentro la Cgil le ragioni dello stare insieme prevalgano sulle spinte contrarie. Oggi ci si interroga, ad esempio, se il patto unitario uscito dall’ultimo Congresso sia ancora in essere.

Ho sempre considerato l’unità della nostra categoria la capacità di tenere insieme tutte le sensibilità e le diversità presenti. Esse, però, non riguardano solo le più scontate, quelle rappresentate dalle aree programmatiche. Mi riferisco anche alle diverse sensibilità espressioni di esperienze territoriali diverse, a partire da Nord e Sud, di esperienze settoriali diverse, e poi quelle tra i sessi, tra le nazionalità, tra le generazioni. Il laboratorio che abbiamo aperto, nel quale abbiamo investito l’eredità che ci era stata consegnata, è questo, è quello di una multiculturalità a 360 gradi, parla di questo tentativo e mi pare che i risultati ci dicono che potremo vincere questa scommessa.

 

Per questo vi chiediamo di proseguire con convinzione nel lavoro fatto in tutti questi anni, sapendo che solo il vostro impegno convinto metterà al riparo questi risultati e ci consentirà di guardare con tranquillità al futuro prossimo della Fillea.

 

Roma, 29 ottobre 2007

 

 

 

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