>dove siamo  >chi siamo  >Contrattazione  >Documenti  >Dipartimenti  >Agenda  >News  >Uff.Stampa >Mappa sito >Le nostre foto >Valle Giulia >Disclaimer

 

Stampa questo documento

Convegno 16 maggio 2007 FilleaRestauro ”Il lavoro nei beni culturali”

 

RELAZIONE INTRODUTTIVA

Franco MARTINI – Segretario Generale Fillea Cgil

 

L’iniziativa promossa congiuntamente dalla Confederazione Italiana Archeologi, dall’Associazione Nazionale Cooperative Produzione e Lavoro e da FilleaRestauro può apparire inedita, dato il suo carattere trasversale. In realtà essa sta a dimostrare che sul tema dello sviluppo dei beni culturali è possibile costruire un punto di vista comune tra imprese, associazioni professionali e lavoratori ed è quello rappresentato dal documento che oggi presentiamo e sul quale è per noi molto importante un primo momento di confronto con il Governo, attraverso i vari Ministeri interessati.

 

Un Paese in cerca di nuovo sviluppo quale è quello nostro non può non guardare ad una delle principali risorse di cui dispone, l’ingente patrimonio costituito dai beni culturali, la cui ricchezza e diffusione rende unica l’Italia nel resto del mondo. Recupero e valorizzazione non possono non rappresentare due leve sulle quali agire per far si che dal settore venga una risposta positiva e qualificata alla crescita dell’occupazione e delle imprese.

 

E tuttavia, ciò che potrebbe apparire scontato non lo è per niente e da qui muove il ragionamento condiviso tra le organizzazioni che hanno promosso questa iniziativa. Il settore Beni Culturali rischia di rappresentare un altro caso di quanto insufficiente attenzione ed in alcuni casi vero e proprio abbandono possono vanificare le aspettative dei tanti soggetti che hanno scelto di indirizzare le proprie scelte professionali ed imprenditoriali verso questo settore.

In questo caso, gli effetti negativi sulle politiche di sviluppo non riguardano solo il mancato contributo ad una crescita qualificata del lavoro e dell’impresa. Non stiamo parlando di un settore manifatturiero. In questo caso si tratta dei valori intrinsechi che appartengono alla nostra cultura e che sono fondamentali per lo stesso progresso civile del nostro Paese.

 

La crisi della cultura è forse il tratto che più di ogni altro misura il livello complessivo di crisi di un Paese. Il declino dell’Italia che negli anni scorsi avevamo denunciato non rappresentava solo un processo materiale dell’economia, ma riguardava un più ampio sistema di valori immateriali.

Oggi che all’emergenza sembra accompagnarsi una nuova fase di ripresa occorre fare una scelta netta, consapevole del fatto che rendere forte e strutturale la ripresa significa rafforzare l’identità stessa del Paese e ciò è possibile se l’intero fronte della cultura assume carattere centrale nelle politiche del Paese e di chi lo governa.

 

Così non è stato fino ad oggi. Si è assistito in questi anni ad una progressiva e preoccupante riduzione di finanziamenti per molti settori di competenza del ministero. Nelle ultime finanziarie molte di queste risorse si sono addirittura annullate. Nel 2004 si è registrata una diminuzione degli investimenti pari al 30% su base nazionale rispetto all’anno precedente.

 

Ma erano gli anni del Governo di Centro-Destra e nessuno di noi si era fatto soverchie illusioni sulla vocazione culturale di un Governo presieduto dall’inventore della televisione commerciale.

Molte più attese, invece, erano state riposte sul nuovo Governo che pure a fatica si è insediato un anno fa. Sarà perché il primo anno di legislatura è stato l’anno della terribile eredità ricevuta dal Governo precedente, ma nonostante le intenzioni e gli stessi indirizzi  contenuti nel Dpef 2007-2011, non si può dire che sia in atto una vera e significativa inversione di tendenza.

 

Non ci manca la consapevolezza delle difficoltà ereditate sul piano finanziario, anche se continuiamo a considerare la cultura come settore di “prima necessità”. Ma l’inversione di tendenza che attendiamo non riguarda solo le risorse investite. Esse indubbiamente rappresentano il primo aspetto e non c’è altro modo di valutare la credibilità del Governo se non quello di misurare lo scarto che nella prossima finanziaria verrà operato in materia rispetto a quella di quest’anno.

 

Ma i mali del settore culturale, con particolare riferimento alle attività che qui sono rappresentate, vengono da lontano e riguardano anche altro. Se dovessimo sintetizzarle in un aggettivo potremmo scegliere il termine precarietà, che è l’esatto opposto di ciò che ispira un settore come quello dei beni culturali, cioè, la qualità.

 

Il settore in questi anni è stato al centro di numerosi interventi legislativi finalizzati all’obiettivo di un riordino della materia. In particolare, col Nuovo Codice dei beni culturali si è tentato di finalizzare la legislazione ai due concetti di tutela e valorizzazione, tentando di stabilire una visione unitaria del patrimonio culturale nazionale. Ma in realtà, molti problemi rimangono ancora insoluti e riguardano tanto le imprese, quanto gli operatori professionali, restauratori ed archeologi.

 

La prima domanda che viene legittimo porsi è se questi problemi li vediamo solo noi, che abbiamo elaborato un documento comune, oppure se di essi vi è coscienza in chi governa il settore, sia a livello politico, che amministrativo.

 

Di quali problemi stiamo parlando?

 

Il documento che presentiamo ricostruisce l’iter legislativo che ha interessato il settore in questi anni, quindi, non ripeterò quell’analisi, se non per dire che il continuo accavallamento di norme hanno portato ad una situazione di vero e proprio caos nel settore. Per fare qualche esempio, manca ancora una norma che regoli in maniera certa ed imparziale i criteri di qualificazione delle imprese che operano nel settore dello scavo archeologico e del restauro; manca una norma che definisca con esattezza la figura dell’archeologo (mai citato nel Codice dei BB.CC., né nel Codice dei contratti pubblici); per quanto riguarda i restauratori basta citare i contenuti della vertenza che da mesi stiamo conducendo nei confronti del Ministero.

 

Le conseguenze di questo caos colpiscono in ugual misura tanto le imprese, quanto i lavoratori, le prime penalizzate dall’assenza di trasparenza nella concorrenza, i secondi sul piano della mancata tutela dei diritti e delle condizioni di lavoro.

 

Per avere un’idea di quanto questo quadro sia ampiamente diffuso è sufficiente visitare uno dei tanti cantieri di restauro. La situazione non è molto diversa da quella che si incontra in un normale cantiere edile, nel cui contratto di settore sono inquadrati gli operatori di restauro ed archeologia: in questo caso la precarietà è data dal mancato rispetto dei contratti di lavoro, dall’imposizione di contratti di collaborazione, co.co.co. e co.co.pro, partite IVA e stage, che mascherano veri e propri rapporti di lavoro subordinato, retribuiti sotto contratto, dentro un quadro di preoccupante diffusione del lavoro nero e senza le clausole di salvaguardia sociale (malattia, ammortizzatori sociali, contribuzione previdenziale ed assicurativa). Inutile dire che in questo scenario sono del tutto eluse le norme sulla sicurezza, in un settore dove al rischio infortuni si somma un diffuso rischio di malattie professionali, dato l’utilizzo di sostanze tossiche.

 

E se quanto detto vale per il settore del restauro, cosa dire di quello dell’archeologia, che rischia di essere la cenerentola del settore, le cui contraddizioni hanno origine nell’indeterminatezza dei requisiti necessari per operare in qualità di archeologi, che neanche il decreto sull’Archeologia Preventiva del 2005 ha risolto.

 

Se in un settore come quello delle costruzioni la regolarità è di difficile attuazione, pur in presenza di regole e norme ben definite,  vi è da immaginare quanto possa prevalere l’irregolarità in un settore –quale quello dei beni culturali- dove il caos normativo è largamente diffuso.

 

Il tema della regolarità nel settore Beni Culturali è dunque la questione centrale sulla quale abbiamo concentrato analisi e proposte contenute nel documento. Regolarità delle imprese, regolarità del lavoro, terreno di sfida che in questo primo anno di legislatura ha impegnato il nuovo Governo, ma che in questo settore presenta ulteriori complessità, un settore dove più che in ogni altro è sfida che può essere vinta attraverso un impegno comune e coerente dei Ministeri con i quali abbiamo voluto  confrontarci. Per questo la definiamo una sfida interministeriale.

 

Innanzitutto vi è il problema della trasparenza e della qualità della concorrenza e conseguentemente il tema della qualificazione delle imprese. Il mercato risulta allo stato diviso in due dalla soglia della procedura negoziata, innalzata a 500.000 euro, a nostro avviso eccessivamente alta. Inutile dire che sotto quella soglia i criteri prevalenti sono quelli della discrezionalità, che, seppur ispirata all’obiettivo di garantire la maggior qualità dell’intervento, finisce con avere effetti in ordine alle possibilità di accesso delle imprese, esulando dagli effettivi requisiti di qualificazione, con conseguenze inevitabili sulle mancate tutele di chi lavora. Si tratta, questo, di un mondo dove non esistono regole esigibili per quanto riguarda i diritti sul lavoro e le opportunità  per le imprese.

 

Sopra quella soglia permangono problemi che il Codice, pur evidenziando un certo miglioramento e una maggiore armonizzazione delle norme sugli appalti di lavori sui beni culturali rispetto alla disciplina generale, lascia ancora irrisolti, con conseguenze non molto dissimili su lavoro e impresa. Si tratta dei criteri di qualificazione delle imprese che operano sui beni culturali, rimandati a futuri dispositivi, senza che vi sia stata una adeguata riflessione su cosa si intende per “imprese che operano nel circuito dei Beni Culturali”. E’ del tutto evidente che, dato il carattere non riproducibile del bene oggetto di attività dell’impresa, parlare dell’impresa in un settore come quello dei beni culturali significa parlare di alta qualità, di sana visione speculativa del bene culturale, significa quindi guardare oltre la regola dei costi-ricavi, del tutto inconciliabile con la tutela e la conservazione del bene.

Da questo punto di vista, le norme esistenti non garantiscono questo obiettivo. Esse individuano la garanzia del livello qualitativo richiesto unicamente nelle figure apicali, sottovalutando, di fatto, l’importanza dell’apporto professionale offerto dagli operatori. Questa è una prima ragione che porta alla diffusione di imprese la cui attività è svolta attraverso un massiccio ricorso a forme precarie di lavoro, con negazione di diritti e rischi oggettivi sulla qualità del risultato finale.

 

Questa situazione risulta a sua volta aggravata dalla mancanza di una valutazione precisa delle competenze professionali che servono al settore ed una conseguente articolazione dei percorsi formativi.

 

Occorre qui fare un ragionamento assolutamente chiaro sul ruolo della formazione nel settore. Se la qualità è il vincolo attraverso il quale orientare le attività di restauro, dobbiamo affermare che la qualità può essere garantita innanzitutto dalla presenza nell’impresa di figure professionali altamente qualificate. Queste alte professioni debbono essere prodotte da un sistema formativo del quale siano chiari bisogni e standard.

In questi anni si è assistito ad un proliferare di attività formative, che hanno visto coinvolte l’Università, le Regioni, gli istituti professionali, le stesse nostre scuole edili. A ciò va aggiunta la platea di coloro che si sono formati sul campo, direttamente in cantiere.

 Tutto ciò ha allargato l’offerta, sommando a quanto già prodotto dalle scuole di alta formazione, un bacino ampio di operatori del settore. Tutto ciò è avvenuto senza che, di pari passo, il sistema si dotasse di criteri e standard formativi ed un sistema omogeneo di riconoscimento delle professionalità

 

Ma la qualità deve entrare nei cantieri di restauro, anzi, deve essere la condizione prima per garantire qualità dell’intervento. Per questo riteniamo che la presenza di tecnici qualificati e l’apporto professionale offerto dagli operatori  negli interventi di restauro ed anche per lo scavo archeologico deve essere condizione strutturale nella composizione degli organici di impresa, non condividendo l’orientamento di affidare solo alle figure apicali il compito di garantire la qualità degli interventi.

 

La condizione in cui ci troviamo dopo l’abrogazione del D.M. n.294/2000 e successive modificazioni dal D.M. n.42/2004 è l’assenza di indicazioni sul tipo di professionalità che l’impresa deve dimostrare di possedere per poter svolgere gli interventi di restauro conservativi. Le conseguenze sono evidenti: in primo luogo, la difficoltà dei lavoratori del settore ad entrare in un mercato del lavoro qualificato e a veder riconosciuti i percorsi formativi intrapresi, gli anni di lavoro e le competenze acquisite, rendendo sempre più consistente l’esercito di precariato; la seconda conseguenza è il ricorso sempre più diffuso da parte di numerose imprese a questo esercito di precariato, per aprire cantieri sulla base di una competizione esclusivamente ricercata nell’abbattimento dei costi, in un settore dove la competizione sui costi non solo alimenta la catena dello sfruttamento e del mancato rispetto dei diritti contrattuali, ma mette a serio rischio la tutela dello stesso patrimonio culturale.

 

Viene logico domandarsi a questo punto su quali basi possa essere dichiarata regolare un’impresa di restauro e se possa avere efficacia un Durc rilasciato senza che siano state ancora definite le norme che regolino i criteri di qualificazione delle imprese o che definiscano esattamente le figure professionali che operano nell’impresa, dall’archeologo agli altri operatori del restauro.

In base a quali elementi di congruità, in estrema sintesi, un Durc può definire regolare un’impresa di restauro? Allo stato, il caos normativo non può che rendere vana la stessa funzione che il Ministero ha voluto giustamente attribuire al Durc.

 

Sono considerazioni che, se valide in presenza di un mercato pubblico, dove quasi sempre vi è coincidenza fra stazione appaltante ed istituzioni pubbliche, dove non sempre le Sovrintendenze fanno della qualità e della regolarità il discrimine per selezionare le imprese, ancor di più lo sono a fronte di una significativa apertura al privato, dove ben sappiamo essere ancora più complessa l’esigibilità delle regole.

 

Se poi aggiungiamo la larga diffusione delle imprese artigiane nel settore, le quali sembrano esenti dall’obbligo del Durc, è facile immaginare quanto diffusa e ampia sia la “zona franca” nella quale il lavoro nel settore avviene senza nessun riferimento a norme e contratti.

 

E’ utile a questo punto porsi un’altra domanda: il settore è condannato a vivere in questa condizione di irregolarità e di precarietà? A chi interessa, a chi fa comodo?

C’è chi sostiene che il “male oscuro” del settore sta negli alti costi d’impresa, o nelle scarse risorse destinate alle attività di restauro, che poi è la risposta speculare.

 

A questo proposito vogliamo siano chiari due punti che orientano le nostre posizioni, che non possono in alcun modo essere equivocate. Il primo, riguarda il rapporto pubblico-privato, che abbiamo salutato come una opportunità per lo sviluppo del settore, come di altri che richiedono ingenti risorse; il secondo, è relativo al fatto che questo settore, per la particolarità del bene oggetto di attività, per l’assoluta qualità richiesta a imprese e operatori, non può assolutamente trovare il proprio equilibrio sui tagli dei costi della professionalità richiesta e necessaria.

 

Quindi, il tema dei maggiori investimenti richiesti resta una priorità e su questo punto la prossima manovra del Governo deve dare una risposta convincente.

 

Ma occorre essere altrettanto chiari su un altro punto assolutamente dirimente della questione, che a ben ragione può essere considerato uno dei bandoli della matassa: è compatibile con la “missione”  di tutela e valorizzazione del bene culturale, la pratica del massimo ribasso, che supera abbondantemente la soglia del 30%, con punte che sfiorano il 50%?  E’ possibile che la pubblica Amministrazione, che dei beni culturali, della loro conservazione e tutela è la titolare per eccellenza, possa essa stessa fare ricorso al massimo ribasso, in alcuni casi fino a raggiungere livelli totalmente incompatibili con il rispetto dei diritti di chi lavora, con gli interessi delle imprese che scelgono la competizione alta e con la tutela del bene?

 

Non ci sfugge il carattere retorico delle domande, tanto ovvia e scontata è la risposta. Conosciamo, anche qui, le difficoltà e le particolarità del settore, ma non possiamo accettare come un destino inesorabile la situazione in essere, non si può dire che il settore è così e bisogna prenderne atto. Noi il settore vogliamo cambiarlo, dove esso non garantisce qualità e tutela dei diritti di chi lavora e se questo vale per tutto il mondo del lavoro, lo ripetiamo ancora una volta, vale ancor più in presenza di un capitale inestimabile come il nostro patrimonio culturale.

 

Purtroppo, dobbiamo dirlo, l’impressione che si ricava è che ciò che non funziona qui non ha cause legate solamente alla carenza di risorse. Il settore troppo spesso appare come una nicchia dove si concentrano interessi diversi, di varia natura, che spingono al mantenimento dello stato in essere. Anche il rapporto con i vari Ministeri interessati non sembra seguire il filo rosso di una volontà comune, che assuma obiettivi condivisi.

 

Il nostro è un contributo per costruire attorno ad un obiettivo che riteniamo non possa non essere condiviso, lo sviluppo e la qualificazione di un settore strategico per il Paese, una stessa piattaforma, per risultati concreti e possibilmente a breve termine.

 

 Roma 16 maggio 2007

 

 

 

 

Via G.B. Morgagni 27 - 00161 Roma - Tel: ++39 06 44.11.41  fax: ++39 06 44.23.58.49  Home page

©Grafica web michele Di lucchio