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Relazione introduttiva del Segretario Generale, Franco Martini

 

 

Care compagne e compagni, gentili ospiti,

 

vorrei rivolgere innanzitutto il saluto caloroso e fraterno della segreteria nazionale uscente a tutti voi delegati, invitati ed agli ospiti, che rappresentano qui le Istituzioni, il Sindaco della Citta di Pesaro, le Organizzazioni Sindacali e le Associazioni Imprenditoriali, la cui presenza contribuirà a rafforzare il carattere “aperto” di questo nostro Congresso.

 

Un ringraziamento, inoltre, particolarmente cordiale ed affettuoso ai rappresentanti dei sindacati stranieri. La loro presenza qui conferma e rafforza la convinzione che il futuro del nostro sindacato non può che guardare all’Europa. Sono trascorse poche settimane dal Congresso Mondiale di Buenos Aires. Lì è nato un nuovo soggetto sindacale del nostro settore  e siamo lieti di avere tra noi oggi il Presidente Klaus Wiesenhugel, che ringraziamo e del quale ascolteremo il saluto nelle prossime ore.

 

L’Europa, per le sue tradizioni e per la sua forza sindacale può e deve svolgere un ruolo importante per caratterizzare l’iniziativa delle Federazioni Internazionali a difesa delle condizioni e degli interessi dei lavoratori che noi rappresentiamo.

Per questo vogliamo assicurare tutti voi del nostro maggiore impegno in tutte le sedi nelle quali questo ruolo dovrà essere esercitato.

 

 

Perché Diritti senza frontiere

 

Del resto la parola d’ordine che abbiamo scelto per celebrare questo nostro XVI Congresso Nazionale non lascia dubbi sulla portata delle sfide che ci attendono per il prossimo mandato congressuale. Diritti senza frontiere definisce il profilo di un sindacato che non solo non può chiudere gli occhi di fronte al mondo che avanza, ma di quel mondo vuole essere protagonista per interpretarne bisogni ed aspettative, soprattutto della parte più debole, oggetto delle profonde ingiustizie che ancora oggi negano libertà, dignità, progresso, democrazia in tanta parte del mondo.

 

Diritti senza frontiere significa per noi anche rimuovere gli ostacoli che ne negano l’accesso a tante lavoratrici e lavoratori del nostro settore.

La prima frontiera, ovviamente, è quella etnica, quella che porta a misurarci con la più grande novità di questi anni, l’ingresso massiccio dei lavoratori stranieri nel settore. Tra un congresso e l’altro il lavoro straniero ufficiale è più che quadruplicato e tra qualche anno esso costituirà sicuramente la componente prevalente in una parte consistente delle nostre attività.

 

Ma sappiamo anche che non esiste sincronia tra l’ingresso nel mercato del lavoro e rispetto dei diritti sul lavoro e se questo vale per i nativi, ancor di più vale per gli stranieri, soprattutto quando reclutati attraverso i meccanismi della clandestinità e della illegalità tipiche del vecchio e del nuovo caporalato.

 

Le frontiere di cui parliamo però non sono solo quelle etniche, ma anche tutte quelle che impediscono il rispetto dei diritti nel settore delle costruzioni.

 

Al nostro XV Congresso di Chianciano avevamo denunciato il rischio che la crescita in atto potesse rivelarsi una occasione sprecata, se non fosse stata orientata con decisione verso obiettivi di forte innovazione. Oggi, a quattro anni di distanza nonostante le iniziative prodotte in questo periodo dal sindacato, dalle parti sociali di comune accordo, nelle sedi istituzionali, con l’avviso comune siglato con importanti novità per noi tra i quali il Durc, nonostante le dichiarazioni di buona volontà, gli impegni assunti, le convergenze ascoltate sui vari tavoli e convegni questo rischio sembra ancora più concreto.

Il nostro motore del cambiamento va piano, gira con affanno e la misura di questa difficoltà ce la danno proprio le cose più importanti realizzate nei tempi più recenti e salutate da tutti come vere e proprie novità per il settore, ma che –guarda caso- hanno una lentezza tale nell’andare a regime da far pensare non sempre a qualcosa di semplicemente fisiologico.

 

Questo Congresso deve interrogarsi a fondo sulle cause che generano queste difficoltà, anche perché la crescita non dura all’infinito e quando finisce non ritorna subito.

 

 

Il fallimento del Governo Berlusconi-Lunardi nel settore

 

Una delle cause non può non essere ricondotta all’azione di Governo di questi anni, caratterizzata da una politica che non ha voluto molto bene al nostro settore.

 

L’aspetto più rilevante è il fallimento della Legge Obiettivo. Doveva essere strumento per garantire la realizzazione delle opere in tempi certi e invece ha accentuato gli elementi di deregolamentazione del sistema senza peraltro raggiungere gli obiettivi di accelerazione delle procedure di inizio cantiere. Le stesse gare per l’affidamento del General Contractor –figura dai poteri taumaturgici, secondo le intenzioni- avvengono in assenza di progetti esecutivi, ragion per cui non passano mediamente meno di 24 mesi prima della apertura dei cantieri.

 

Il Contraente Generale poi si è rivelato una “mostruosità” dal punto di vista “industriale”, un soggetto che di massima non svolge direttamente la parte rilevante dell’opera, affidata in gran parte al subappalto. Basti pensare che il primo maxi lotto della SA-RC, un fronte di 30 Km, vede la presenza di poco più di 850 dipendenti a fronte di una presenza nei cantieri a vario titolo di oltre 800 imprese.

 

Ma la Legge Obiettivo è fallita anche quale strumento di programmazione e di selezione, riempiendola di un numero di opere prive di ogni criterio ispirato alla priorità delle scelte, senza peraltro metterle in relazione alle risorse e alla loro tempistica, mettendo così le imprese nella impossibilità pratica di programmare il proprio sviluppo. Le leggi finanziarie di questi anni -come hanno denunciato le stesse associazioni dell’impresa- hanno sistematicamente sottratto risorse al settore, sia al mercato ordinario che quello delle grandi opere, rasentando il grottesco nel 2006.

 

Infatti, per gli appalti pubblici, ad esclusione della Tav, sono previsti solo 200 milioni di euro, che potranno essere attivati solo nel 2007 per ricorrere ad un mutuo di 1.200 miliardi di euro. Per avere la dimensione del ridicolo bisogna sapere che lo stesso Ministro per le Infrastrutture Lunardi sta chiedendo ripetutamente da tre esercizi finanziari, ma inutilmente, lo stanziamento di 7,5 miliardi di euro per mantenere aperti i cantieri attivi. A fronte di 3.900 miliardi di euro da trasferire all’Anas, secondo quanto previsto dall’Accordo di Programma, ne sono stati trasferiti 1.200, che non sono sufficienti nemmeno a coprire i lavori già eseguiti nel 2005 e reclamati dalle imprese, lavori che si aggirano sui 1.400 miliardi. In questi giorni, su quella grande opera fondamentale, si stanno fermando i cantieri, circa il 60% di quelli attivi per manutenzione ordinaria e straordinaria, mentre con sistemi a dir poco grotteschi si invitano le imprese a non iniziare i lavori assegnati con promesse di futuri risarcimenti.

 

Nei giorni scorsi ci è pervenuta la lettera di un imprenditore che credo da sola fotografi meglio di ogni ulteriore analisi lo stato in cui ci troviamo:

 

“Mi trovo sull'orlo del fallimento con banche, creditori e personale che non posso pagare. Vanto un credito nei confronti dell'Anas di circa  480.000,00 euro e la ragioneria dell'Anas dice che il governo non gli ha mandato i fondi, mi domando se è giusto che  lo stato metta sul lastrico decine di imprese che a stento riesce ad andare avanti. Berlusconi dice che va tutto bene mentre la situazione è questa. Vi chiedo di intervenire e se è possibile organizzare una manifestazione coinvolgendo le imprese e idipendenti.

 Distintamente ringrazio e saluto. “

 

Non occorreva molta fantasia per capire che la famosa lavagna di Berlusconi oltre a contenere l’inganno avrebbe contenuto la beffa.

Sulle risorse il nostro Paese non poteva certo scialare data la crisi degli anni passati, ma quelle poche sono state utilizzate per finanziare leggi inique e “ad personam”.

 

Le grandi opere non si sono fatte, ma si è ugualmente messo mano al sistema normativo con l’obiettivo di “fare presto”, ottenendo quale unico risultato l’accentuazione dei conflitti con le popolazioni, con i territori, con le comunità locali.

Le grandi opere sono inevitabilmente invasive e lo scopo della scienza e della tecnica è ridurre al minimo l’impatto con l’ambiente ove queste vanno realizzate. Ma la scienza e la tecnica senza la risorsa della politica, che in questo caso si chiama concertazione, non può da sola vincere. Il “peronismo” mal si addice a questo scopo.

 

Anche qui, come in altri campi, il Governo ammazzando la concertazione si è negato la risorsa principale per lo sviluppo, che è un moderno sistema di relazioni sociali e sindacali. Ed anche in questi ultimi saldi di fine legislatura ha deciso di perseverare nella gestione unilaterale, come ha dimostrato il recente colpo di mano sulle regole degli appalti pubblici (recepimento del “Codice De Lise”). Con esso si produce ancora:

-                            un eccesso di delega a danno delle Regioni;

-                            un aumento della discrezionalità a favore della burocrazia delle stazioni appaltanti pubbliche;

-                            un aumento della possibilità del ricorso alla trattativa privata.

-                            la possibilità di affittare da altre imprese i requisiti per partecipare alla gara di appalto;

-                            il finanziamento dell’Autorità di Vigilanza direttamente dalle imprese.

 

Anche se attenuato dal ciclo espansivo in corso il nostro settore è stato ugualmente un punto di osservazione della più totale assenza di una vera politica industriale, assolutamente abbandonata in questi ultimi anni.

 

Si è gridato al pericolo giallo, soprattutto nei settori del Made in Italy, senza mettere in campo politiche in grado di sostenere la competizione alta con i paesi emergenti. I nostri settori industriali che producono materiali da costruzione vivono in parte questo dramma. Ma è soprattutto il settore del legno-arredo a risentire in pieno l’effetto della concorrenza asiatica. La crisi del distretto del salotto imbottito dell’area murgiana sulla quale siamo impegnati ancora in questi giorni per trovare soluzioni stabili all’uscita dalla crisi è quella che più di ogni altra racchiude in sé tutti gli elementi di questa crisi.

 

Anche qui, parlando qualche giorno fa con una imprenditrice di una azienda leader nel settore delle cucine, per fortuna più illuminata di altri suoi colleghi, emergeva chiaramente il disagio profondo di una parte consistente dell’imprenditoria locale nel sentirsi sola, quasi abbandonata da chi dovrebbe in qualche modo offrire gli strumenti di politica finanziaria, industriale, commerciale per difendere e affermare i prodotti italiani sui mercati esteri.

 

Non c’era faziosità, dunque, quando denunciavamo alcune scelte del Governo e le abbiamo combattute con una forte mobilitazione. Con cosa difendiamo le nostre cucine, i nostri salotti imbottiti, il nostro marmo, ma anche i nostri prodotti dell’abbigliamento o del cuoio e di tutti i settori aggrediti, con la legge sul falso in bilancio, con l’abolizione della tassa di successione sulle grandi ricchezze, con la legge che blocca le rogatorie internazionali, con la controriforma della giustizia o con la riforma della Costituzione, o con quella sui diritti pubblicitari in televisione, …….?

 

 

Qualche giorno fa una autorevole rivista internazionale ha pubblicato una inchiesta che da sola parla meglio di ogni analisi sullo stato del Paese e che dovrebbe far riflettere su una affermazione del Presidente del Consiglio: “L’Italia, in Europa, non siede più in panchina”.

 

Ecco la classifica dell’Italia nell’Europa a 15 (e in alcuni casi a 25).

Aumento della produttività: ultima; crescita della spesa per la ricerca: ultima; prodotto interno lordo: ultima; competitività globale: ultima; aiuti cooperazione ultima; esportazioni HI-TECH: terzultima; creatività economica (qui si risente dell’operato di Tremonti): terzultima; laureati: terzultima; collegamenti ad internet: quartultima.

 

In effetti ha ragione Berlusconi, non siamo più in panchina, ma forse perché siamo rimasti direttamente negli spogliatoi…!

E non c’è neanche da sperare nei tempi supplementari, vista l’altra classifica, quella dei record negativi:

 

inquinamento: primi (25); casi portati davanti all’UE: prima; tasso di motorizzazione:

seconda(25); costo dell’energia: prima; debito pubblico: seconda(25); disoccupazione giovanile: seconda(15), terza(25); disoccupazione di lunga durata: terza; rischio povertà: prima.

 

E per finire, se ancora qualcuno sperasse di evitare la retrocessione si tolga l’illusione perché sulla competitività globale, cioè quel dato che dà la misura della capacità di crescita del nostro Paese, della sua efficienza e credibilità, tutta la nostra supponente pretesa di essere la sesta economia del mondo, il settimo Paese industriale cade rovinosamente: siamo ultimi tra i 44 Paesi che formano la classifica del World Economic Forum! Non solo dopo la Grecia, il Portogallo, la Spagna, ma anche dopo Cile, Estonia, Malesia, Corea del Sud, Giordania, Colombia e Brasile.

 

(C’è un settore però dove l’Italia è prima nel mondo,provate a indovinare: i telefoni cellulari)

 

Vorrei tuttavia assicurare i nostri ospiti stranieri che non hanno sbagliato Paese, che sono veramente atterrati in Italia, ma questa non è la nostra Italia, certo, è l’Italia dove oggi siamo costretti a vivere, ma questa è l’Italia di Berlusconi, quella che noi vogliamo cambiare e riprogettare, perché c’è un Paese che non accetta più di mortificare le grandi potenzialità presenti al suo interno, le ricchezze professionali, generazionali, quelle naturali e ambientali, quelle culturali.

C’è un’Italia che non ne può più e che non vede l’ora, speriamo tra poco, di rimandare a casa i responsabili di questo disastro!

 

 

Riprogettare il Paese: il congresso della Cgil

 

Un disastro che spiega il significato dell’obiettivo alla base del Congresso della Cgil: Riprogettare il Paese. Quando si decide di riprogettare vuol dire che la crisi è seria, che il declino non è solo nelle dimensioni economiche, ma anche in tutto ciò che rappresenta il tessuto connettivo della società civile.

 

La consapevolezza di questa sfida e della sua portata è la ragione fondamentale che ha portato tutta la Cgil a fare la scelta di un Congresso unitario. L’unità della Cgil è maturata giorno dopo giorno lungo il percorso delle battaglie condotte in questi anni, ma vuole essere soprattutto un investimento su quello che dovremo fare nella fase che ci attende.

 

L’unità si difende e si consolida con l’autonomia sindacale.L’autonomia sindacale è l’ingrediente principale che dobbiamo usare per mettere in campo una proposta che abbia l’ambizione di intervenire sui grandi nodi della crisi italiana, perchè non basta auspicare il successo della coalizione di centro-sinistra per considerare superati i problemi. Sarebbe sbagliato attribuire tutti i mali dell’Italia all’azione di questo Governo, che certo ha il torto di aver aggiunto molto del suo. Ma tanti mali vengono da lontano ed è soprattutto con le forze democratiche che sentiamo a noi più vicine che occorre mettere in campo una proposta forte di cambiamento.

 

In questo vediamo il grande contributo che il congresso della Fillea può dare a quello della Confederazione. Il nostro è il congresso di una categoria che ha vissuto l’altra faccia del declino ed è dunque in grado di parlare meglio delle contraddizioni che la stessa crescita può generare.

 

Il Congresso della Fillea è stato un buon congresso, caratterizzato da grande spirito unitario e da un livello di analisi, di discussione e di proposta molto elevato. E’ una Fillea molto rinnovata.

 

E’ la Fillea del Cantiere Qualità, una categoria che avrebbe potuto “sedersi” sulla crescita in atto, che avrebbe potuto nutrirsi della sola “quantità” e invece ha fatto una scelta strategica forte, quella di assumere la Qualità quale paradigma di un nuovo sviluppo del nostro settore. perché non c’è nuovo progetto vincente che non faccia leva sulla qualità, come asse strategico in tutte le scelte di politica economica e sociale.

 

Ma in che cosa consiste l’importanza del nostro contributo? In quello che andiamo ripetendo in tutti questi anni: nell’inesistenza di un rapporto automatico tra crescita e qualità senza una azione regolatrice della politica. Noi siamo il settore che può dimostrare quanto si possa rischiare il declino pur in presenza di una crescita, se la scelta della qualità non viene assunta come vincolo nei comportamenti, nelle azioni, nelle decisioni di tutti gli attori sociali ed istituzionali che operano nella nostra economia settoriale.

Il nostro settore sta dentro un ciclo espansivo duraturo eppure vive le stesse contraddizioni di anni fa. La crescita è necessaria, ma occorre saperla e volerla indirizzare, affinché si traduca in leva per l’innovazione e lo sviluppo.

 

Questo tema, che è quello della competizione alta per uscire dal declino, è tema per il quale ci siamo battuti in questi anni, ma è tema sul quale dobbiamo essere molto chiari con lo stesso eventuale ed auspicabile Governo di Centro-Sinistra. La qualità non è un optional per tempi migliori, non è un lusso che la crisi non consente. Al contrario, la qualità, le politiche per la competizione alta sono l’unica via per uscire da questa crisi e riguadagnare posizioni in quelle classifiche che ci vedono agli ultimi posti.

In questo senso, nessuno può pensare che al tanto vituperato “Patto per L’Italia”, domani potrà sostituirsene uno “uguale e contrario”, solo perché cambia il Governo. L’autonomia sindacale si realizza sul merito delle questioni, che per noi resta il discrimine principale. Il nuovo patto fiscale per salvare il Paese di cui ha parlato qualche giorno fa Epifani, se qualcuno non l’avesse capito, parla di lotta al lavoro nero, all’evasione e elusione fiscale, dice di andare a reperire le risorse là dove ci sono e dove si sono accumulate in questi anni, dice basta ai condoni e alle sanatorie, altro che emergenza!

 

 

Da Chianciano a Pesaro:  tra risultati positivi e perduranti contraddizioni

 

E lo vogliamo dire noi con molta forza proprio perché l’inesistenza del rapporto automatico tra crescita e qualità lo si vede nel bilancio di questi quattro anni nei quali, nonostante il buon andamento del settore, non c’è un sostanziale cambiamento nelle condizioni materiali di lavoro delle persone che rappresentiamo.

 

Questa affermazione non contiene una sottovalutazione o peggio ancora un giudizio negativo su tutto quello che abbiamo fatto in questi anni, ma non dobbiamo ingannarci a vicenda su come materialmente stanno le cose nei cantieri edili e nei luoghi di lavoro anche di altri settori.

 

Parliamo della sicurezza. Ora non siamo più i soli a dirlo e addirittura dalle fonti ufficiali sentiamo richiami a non creare troppa euforia attorno ai dati, perché è vero che gli infortuni sono in calo, ma cresce il lavoro nero, contrariamente a quanto si afferma da qualche parte e gli infortuni aumentano invece tra gli immigrati, guarda caso quella fetta di lavoro che è in crescita esponenziale e le malattie professionali sono in aumento ed il 65% delle stesse non viene riconosciuto. Ma soprattutto costano più di prima e il loro maggior costo dimostra l’incremento della gravità degli stessi e se gli infortuni aumentano di gravità vuol dire che le condizioni di lavoro sono peggiorate!

Non siamo solo noi a dirlo ma anche la Commissione Parlamentare Pizzinato ha concluso i suoi lavori che proprio in questi giorni ha concluso i suoi lavori.

 

 

Fine dell’impresa?

 

Del resto c’è un nesso logico tra la qualità del lavoro e le dinamiche che hanno investito la struttura produttiva in questi anni. Le statistiche parlano ancora di un aumento record degli occupati nel settore dell’edilizia, ma le stesse statistiche parlano di un incremento notevole anche del numero delle imprese e il rapporto tra questi due dati ci dà inesorabilmente la misura di quanto sia proseguito il processo di destrutturazione dell’impresa.  

 

Il ricorso esasperato al subappalto è malattia che ha preso anche i cantieri più strutturati. Le nostre denunce non hanno riguardato solo i cantieri della Salerno-Reggio Calabria ma anche i grandi cantieri di Torino e quelli di Milano, dimostrando che la piaga va dilatandosi anche nelle zone più ricche del Paese e ci hanno visti impegnati sul fronte anche là dove la contrattazione d’anticipo è riuscita a porre dei paletti, come nel caso dell’Alta Velocità tra Firenze e Bologna o Torino-Milano.

E questo effetto contagio ci ha portati a denunciare il rischio che anche le imprese legate al mondo della Cooperazione, forse le ultime rimaste con caratteristiche produttive strutturate, si avviino verso il sentiero di un ricorso al subappalto che segnerebbe un cedimento alle logiche che siamo qui a voler combattere.

 

E voi sapete quanto in questo nostro ambiente la vicenda Unipol abbia prodotto sofferenza, perché questo è un ambiente che crede ancora ai valori della cooperazione intesa come impresa sociale, che non confonde la capacità e la necessità di stare sul mercato con la logica del profitto o dei guadagni personali, che non appartengono alla tradizione cooperativa, non solo di quella d’ispirazione di sinistra, ma anche di quella cattolica.

 

La nostra non è una critica indistinta e generalizzata. Riconosciamo che ci sono settori dell’impresa che provano a stare su un terreno qualificato. Ma al tempo stesso esiste una parte di questo sistema e noi pensiamo, purtroppo, sia quella prevalente, che cerca di fare fortune lasciando le cose come stanno.

Con la Facoltà di Valle Giulia abbiamo presentato mesi fa una indagine sulle prime 50 imprese italiane. Lì emerge con chiarezza che l’impresa di costruzione, così come esiste in Francia, in Belgio, in Germania, nel nostro Paese è in via di estinzione.

 

Questo è il Paese dove per diventare operai nel nostro settore un giovane deve fare l’apprendista per molti anni, in alcuni casi fino a quando il proprio figlio comincia ad andare in prima elementare. Ma per diventare imprenditori è sufficiente passare dalla Camera di Commercio senza dimostrare grandi capacità tecniche ed organizzative.

Questa non è solo una grave ingiustizia sociale, ma è un grave danno per l’economia, per il sistema produttivo, perché mina alla radice il processo di costruzione di una nuova e moderna classe imprenditoriale, di cui il Paese ha bisogno.

 

Per non parlare di quanti sono stati imprenditori fino a ieri e che oggi si sono allontanati dal luogo di produzione, dal cantiere perchè pensano sia più remunerativo fare gli immobiliaristi che interessarsi alla vita del cantiere, dove il lavoro può essere svolto da una miriade di imprese in subappalto, che “reggono l’anima con i denti”.

 

Sappiamo che chi è qui presente in rappresentanza di questo mondo ritiene di non appartenere a questo “partito” e non abbiamo mai rinunciato a darne atto quando abbiamo positivamente valutato le iniziative, le proposte, le prese di posizioni a favore della qualificazione del settore. Ma bisognerà pur interrogarsi su cosa divide così profondamente il dire dal fare? Sicuramente la complessità dei problemi, che sappiamo bene. Ma dovete anche sapere che in quell’oceano che divide il dire dal fare vi è anche questa grande disarticolazione degli interessi, che non a caso si riversa sullo stato della Rappresentanza Associativa del settore imprenditoriale, non priva di problemi che spesso vengono scaricati nelle difficoltà a rendere fluide e produttive le relazioni sindacali.

 

Occorre che la discussione sul futuro dell’impresa vada oltre i luoghi comuni. Non si può sempre ridurre le difficoltà che spesso ci vengono rappresentate solo al problema costo del lavoro, come se il costo del lavoro fosse la prima e unica palla al piede dell’impresa, che ne impedisce lo sviluppo. Il costo del lavoro ha struttura diversa nel nostro settore perché i costi  contributivi a carico delle imprese sono stati determinati nel corso degli anni in funzione delle peculiarità di questo settore. Altri non hanno la pioggia, il gelo, infortuni alti come i nostri, malattia il cui costo paradossalmente è amplificato dalla scarsa lungimiranza di chi si oppone al superamento della carenza malattia, poi una alta mobilità lavorativa da un’impresa all’altra.

 

Tra l’altro l’indagine da noi condotta sul bilancio delle prime 45 imprese italiane ha certificato che la percentuale di incidenza del costo del lavoro degli operai passa dal 13,03% del 2000 al 7,51 del 2004, gli impiegati e i tecnici dal 9,26%  al 5,31% sempre nello stesso arco di tempo. Il totale degli addetti incideva sul portafoglio lavori per il 22,70%, mentre nel 2004 per il 12,98%. Il rapporto operai impiegati si è quasi dimezzato. Parliamo tanto del costo del lavoro, ma questa è sempre più una impresa senza operai!

 

E tuttavia non abbiamo mai negato l’esigenza di sostenere provvedimenti fiscali incentivanti per le imprese del settore in regola.

Altra cosa sono le decontribuzioni. Decontribuire significa non pagare o pagare meno contributi. I contributi per quali prestazioni? Noi conosciamo contributi per la previdenza, per l’assicurazione malattie e infortuni, per le prestazioni di cassa in edilizia. Se si chiede di pagare meno contributi, anche su una parte del salario sapendo che questo genera un danno ai lavoratori bisogna anche dire chi si fa carico di sopperire a quel danno. La fiscalità generale? Altri? Bisogna dirlo, perché altrimenti è troppo comodo e chi paga è sempre pantalone! E poi non bisogna mai dimenticare che stiamo parlando di un lavoro gravoso, usurante che attende ancora riconoscimenti, anche di natura previdenziale, in un mondo del lavoro che non può usare due pesi e due misure.

 

Bisogna con la stessa foga mettere il dito su ben altre piaghe. Il sistema è condizionato pesantemente dal nanismo delle imprese e come mai allora non si registrano iniziative significative contro questo fenomeno, come mai anche sul versante della certificazione non ci si è mossi per frenare la deriva di questa sorta di “autocertificazione” che sono diventate le SOA per cui anche tra le associazioni di impresa si va diffondendo la preoccupazione per questa sorta di conflitto di interesse tra chi certifica e chi è certificato!

 

E come mai di tutti questi costi che soffocano le imprese non si parla mai del convitato di pietra, del forte condizionamento esercitato dalla rendita fondiaria in un settore dove il costo prevalente di costruzione della casa non è più quello dei materiali o del lavoro? Come mai non scatta mai una ribellione degli operatori contro quello che sempre più appare un interesse contrapposto a quello dei sani produttori?

 

La rendita e la speculazione costano all’economia sana molto più di quanto costi il lavoro di chi la mattina si alza all’alba e spesso torna al tramonto, avendo prestato umilmente e onestamente la sua opera manuale e vorrebbe avere la legittima certezza di percepire un salario adeguato, una pensione equa e magari delle indennità nel caso in cui malauguratamente quel lavoro dovesse procurargli qualche danno.

 

E poi non diamo sempre la colpa ai cinesi! Non si può dire “loro sono più competitivi perché non hanno diritti sindacali perché i casi sono due: o si pensa che anche qui si debba fare così, oppure, bisogna dire che anche lì occorre battersi per affermare i diritti sindacali.

Non fatelo dire solo a noi, ditelo anche voi con forza, non vi farà male dirlo, anche se ad una parte del vostro mondo non viene facile dire che i diritti sul lavoro sono fondamentali!

 

Tutte queste considerazioni sul ruolo dell’impresa nel nostro settore ci hanno portati unitariamente ad avanzare contemporaneamente una proposta di articolato normativo che incentivi le imprese che investono in capitale umano e che hanno quindi una incidenza significativa del costo del lavoro per la manodopera operaia e una proposta di legge per una politica industriale a favore del settore per dare soluzione ai processi di frantumazione della struttura produttiva, allo svuotamento della grande impresa, con l’obiettivo di innescare meccanismi virtuosi attraverso stimoli, incentivi e sostegni rivolti agli operatori del settore.

 

Nel primo caso chiedevamo misure nella Finanziaria 2006, che ovviamente non sono arrivate. Nel secondo caso la conclusione prossima della legislatura non ha consentito di avviare un percorso, che noi riproporremo in apertura della prossima legislatura.

 

Ma quello che ci chiediamo è se un sindacato che avanza proposte per un’impresa sana è una cosa che incontra il favore degli operatori oppure disturba? A noi non interessano operazioni di immagine, guardiamo alla sostanza, la sostanza è che puntiamo diritti alla necessità di ricostruire e irrobustire il tessuto di imprese anche attraverso la presenza degli operai. Ci rendiamo conto che è altra cosa dalla precarietà, ma con la precarietà del lavoro non si va da nessuna parte. Su questo terreno, per usare una definizione europea, siamo disposti a fare le necessarie azioni di lobby. Vorremmo capire nel prossimo futuro se sull’obiettivo siamo d’accordo oppure no!

 

 

Una nuova idea, sostenibile, di sviluppo del settore

 

Ma combattere la destrutturazione non è solo questione di normative e leggi, occorre combattere e vincere una battaglia che è innanzitutto culturale. In questo processo di sbriciolamento dell’impresa si riflette una idea sbagliata del settore, idea che ha radici lontane e che nel corso degli anni si è incrociata con dinamiche che hanno contribuito a rendere negativi alcuni valori dei quali le nostre attività lavorative sono espressioni.

 

Per molti anni il settore è stato associato quasi esclusivamente al mattone, il mattone come simbolo della speculazione edilizia. La speculazione edilizia evoca mostri urbanistici, lottizzazioni che hanno cambiato il volto delle città e che richiamano il “sacco” delle nostre metropoli. Per non parlare dell’intreccio tra affari, politica e mafia, fino al capitolo tristemente noto di Tangentopoli. E’ ovvio che il tratto speculativo e illegale  della attività del costruire difficilmente è associabile con i valori positivi del lavoro, ragion per cui fenomeni come lavoro nero e illegale, morti nei cantieri ed altro nel luogo comune della gente identificano in modo fisiologico, direi in modo quasi normale la nostra attività lavorativa, come pure l’idea che questo settore sia per definizione e irrimediabilmente un settore sporco, pericoloso, a basso valore aggiunto, una attività quasi “primitiva”, dato che il modo di costruire appare a prima vista sostanzialmente immutabile nel tempo, a partire dagli arnesi del mestiere.

 

Con la scelta del Cantiere Qualità, invece, nel batterci per migliori condizioni di lavoro abbiamo voluto affermare l’idea che questo settore può produrre valore aggiunto ed essere luogo di profonda innovazione. Abbiamo ricondotto questi concetti all’idea  dello sviluppo sostenibile, cioè, di un mercato delle costruzioni che valorizzi le risorse del Paese, rendendo compatibili sviluppo e ambiente e dia attraverso questa via risposte ai suoi  bisogni.

 

 

C’è un nesso tra sostenibilità dello sviluppo e diritti, per la semplice ragione che uno sviluppo che sprechi o distrugga le risorse materiali non è affatto preoccupato, non è interessato a valorizzare la prima delle risorse naturali, cioè, il capitale umano.

Questa non è poesia e neanche roba da movimenti ambientalisti o da ecologisti appassionati, per quanto vorrei chiarire che l’ecologia non è affatto una jattura!

 

Lo sviluppo sostenibile offre risposte positive all’occupazione, alla domanda di lavoro, perché la difesa e la manutenzione dell’ambiente e la valorizzazione del patrimonio culturale offrono più opportunità di lavoro del loro saccheggio o della loro distruzione.

Inoltre, lo sviluppo sostenibile sfata l’idea che il settore delle costruzioni non sia luogo dell’innovazione. Al contrario impone una forte alleanza con la scienza e la tecnica e ciò non solo nell’edilizia ma anche in quelli a maggiore vocazione industriale, come il legno, il cemento e il settore estrattivo.

 

Lo sviluppo sostenibile non è da noi concepito come un conflitto tra le diverse tipologie di opere che il settore realizza. La grande infrastrutturazione, per fare un esempio, non è per definizione in conflitto con la manutenzione ordinaria.

 

La nostra posizione sulle grandi opere è stata chiara e lineare fin dal primo momento in cui si è delineato il programma annunciato dal Governo e colgo l’occasione per respingere l’idea che la grande opera in quanto tale sia una cosa di destra. Il Paese ha effettivamente bisogno di rendere moderne le sue infrastrutture principali, per superare un deficit che si trascina da anni e noi rivendichiamo al futuro Governo che speriamo essere di centro-sinistra di rilanciare un vero programma di grandi opere da realizzare veramente.

 

Abbiamo detto che le grandi opere debbono essere vissute come condizione di sviluppo dell’intero Paese, soprattutto del Mezzogiorno, come abbiamo bene spiegato a Bari nella Prima Conferenza del Mezzogiorno sulla cui piattaforma dovremo impegnare la Fillea in una nuova prossima verifica nazionale. Ma anche per questo non possono essere realizzate con l’esercito! Aprire un cantiere per realizzare una di queste opere non può diventare questione di ordine pubblico, quando è principalmente una questione di partecipazione delle popolazioni interessate.

 

Questa idea autoritativa che ha ispirato la Legge Obiettivo si è rivelata impraticabile quando ha deciso di tagliare fuori le popolazioni nel processo decisionale. La vicenda della ValSusa, un’opera che per noi va realizzata per la necessità di un completamento del sistema Alta Velocità/Alta Capacità, ha reso ancor più deflagranti le diverse opinioni sulla opportunità di realizzare quella opera, proprio perché si è pensato di imporla senza il minimo rispetto del punto di vista dei territori interessati.

 

Con altrettanta linearità abbiamo affrontato la questione del Ponte sullo Stretto, con l’unica differenza in questo caso che mentre il Paese si divideva tra Ponte SI – Ponte NO a noi, che pure siamo organizzazione caratterizzata da opinioni non tutte coincidenti sulla materia, ma che sono state bene rappresentate nell’ultimo congresso della Fillea Siciliana, toccava l’onere di preoccuparsi di un piccolo particolare: che, indipendentemente da quella discussione, il processo autorizzativo andava avanti e per noi scattava il momento della concertazione d’anticipo, perché la tutela dei lavoratori nei cantieri si esercita con più efficacia affrontando prima della sua apertura le condizioni legate alla sicurezza, alla regolarità, al controllo del subappalto.

 

Aver siglato un accordo con la Società Stretto di Messina non ha voluto significare venir meno alla democrazia di mandato, poiché in questo caso il mandato non può che essere costruito sulla base delle esperienze realizzate nelle opere precedenti, che hanno dato vita a questa pratica della contrattazione d’anticipo.

Ma è questa la particolarità di un settore che se non conosciuto nelle sue peculiarità rischia di trarre in inganno chi dovesse ragionare con gli schemi tradizionali dell’industria manifatturiera.

 

Qui sta il cuore del nostro approccio alla questione infrastrutturale: per noi non è la grande opera in quanto tale che rende moderna l’Italia, ma è anche il modo come la si realizza. Non c’è modernità in una opera di grande ingegneria o di avveniristica architettura se a realizzarla è il terzo mondo dei cantieri. L’Italia è moderna se moderno è innanzitutto il lavoro che produce le testimonianze di una civiltà che cerca la sua nuova dimensione nell’opera del costruire.

 

L’inesistenza di una contrapposizione tra grande infrastrutturazione e sostenibilità dello sviluppo è  dimostrato in modo clamoroso dal fatto che questi anni che ci hanno accompagnati dal XV al XVI Congresso hanno visto una crescita significativa del nostro lavoro nel settore del Restauro, attività forse la più lontana dal tradizionale stereotipo che simboleggia la nostra categoria.

In questi anni abbiamo imparato a conoscere un settore popolato da alcune decine di migliaia di giovani lavoratori ma soprattutto di giovani lavoratrici, che opera su uno dei beni più preziosi di cui dispone il nostro Paese, l’ingente patrimonio culturale, quello che giustamente definiamo il petrolio italiano.

Anche in questo caso abbiamo imparato a conoscere storie di un lavoro mal retribuito, con alte professionalità non riconosciute, con rischi di infortunio e malattie professionali elevati, con diritti  spesso inesistenti, anche qui per una struttura dell’impresa altrettanto frammentata.

 

Abbiamo capito che vi era in questo ambito un investimento da fare, un investimento sindacale ed anche organizzativo ed abbiamo creato FilleaRestauro con la preziosa collaborazione di alcune restauratrici e restauratori che già avevano incontrato la Fillea al tempo del Giubileo.

 

Oggi possiamo dire che grazie al lavoro del Coordinamento Nazionale di FilleaRestauro e della sensibilità delle strutture Fillea interessate alla problematica questo settore rappresenta ben più che una semplice intuizione, sono stati costituiti coordinamenti in numerose province, sono state prodotte iniziative non solo della Fillea, ma unitariamente con Filca e Feneal per affrontare i problemi del riconoscimento della figura del restauratore, a partire dalla mobilitazione con le 20.000 cartoline inviate al Ministero dei Beni Culturali e soprattutto sono stati realizzati risultati importanti con il Ccnl, a partire dal riconoscimento di un nuovo assetto dell’inquadramento per le figure del restauratore e dell’archeologo.

 

L’esperienza di FilleaRestauro testimonia della consapevolezza presente nella nostra organizzazione di quanto il saper individuare nuovi orizzonti dello sviluppo possibile comporti anche una crescita innanzitutto culturale del sindacato.

 

Con lo stesso sforzo culturale stiamo cercando di capire che cos’è la bio-edilizia, dove può portare, quali opportunità offre per rendere compatibili l’occupazione, che vogliamo far crescere, in particolare quello qualificato e lo sviluppo sostenibile dei nostri settori. Vogliamo capire quali nuove frontiere possono essere aperte dall’uso dei materiali rinnovabili, per favorire un nuovo modo di costruire, che faccia bene all’ambiente e che faccia bene a chi costruisce, perché costruire pulito sicuramente rende più facile lavorare pulito, guardandoci dalla sufficienza e dall’ironia che spesso accompagna questi approcci in chi pensa che il costruire è così da secoli o millenni e tutto il resto è materia da sagra della poetica.

 

E con la stessa convinzione dobbiamo rilanciare il tema delle nostre Città, della qualità del vivere e dell’abitare, che non è molto alta, come ha dimostrato la ricerca che abbiamo condotto ancora con la facoltà di Valle Giulia. Sicuramente il tema della casa, del rinnovamento del patrimonio edilizio è tema all’ordine del giorno, come la stessa Ance ricorda frequentemente. Il fatto è che quel problema deve essere parte di un rilancio della programmazione nell’uso del territorio, dobbiamo chiederci che fine ha fatto l’urbanistica in Italia, perché se le case in buona parte vanno rifatte è anche vero che le stesse reti cittadine vanno ricondotte a piani regolatori del sottosuolo che non esistono più, così come i servizi e la mobilità.

 

Sono tutti esempi che rendono forse più chiaro il nesso di cui parlavo precedentemente tra sostenibilità e diritti. Uno sviluppo che sceglie di valorizzare le risorse è uno sviluppo che cerca di pulire la faccia sporca del settore e non può che fondarsi sulla valorizzazione della risorsa principale, che è il capitale umano.

 

 

Il lavoro sostenibile: una battaglia per la dignità delle persone

 

Ecco perché la Qualità del lavoro resterà ancora e lo sarà ancor di più la nostra bussola per i prossimi anni. Questo proprio in ragione del fatto che migliorare le condizioni di vita dei nostri lavoratori nei cantieri e nelle fabbriche sembra essere la cosa più difficile da realizzare.

 

A volte, quando ci troviamo di fronte a certe situazioni, certi episodi nei quali i lavoratori si trovano costretti a subire condizioni di lavoro, di ricatto, in alcuni casi di intimidazione abbiamo proprio la sensazione che in questo nostro settore, soprattutto in edilizia, esista una scarsa considerazione per la persona, prima ancora che per l’operaio.

 

Per questo vogliamo affermare con forza che la nostra battaglia per la qualità del lavoro in questo settore è innanzitutto una battaglia per la dignità delle persone, una dignità spesso negata.

 

-                            non c’è dignità quando la vita non ha prezzo, quando si arriva all’estremo di considerare un lavoratore caduto da una impalcatura un sacco da scaricare accanto ad un cassonetto della spazzatura;

-                            non c’è dignità quando le mafie impongono il ricatto non solo dentro il cantiere ma anche fuori;

-                            non c’è dignità quando una persona è costretta a cambiarsi gli abiti o a mangiare in quello che spesso assomiglia più a un discarica che ad un ambiente civile;

-                            non c’è dignità quando si nega il riconoscimento e la valorizzazione della professione, che noi sappiamo essere ricca in questo mestiere.

 

Attenzione, non vogliamo dire che questa è la fotografia di tutto il settore, ma è la verità in tanti posti di lavoro, in tanti cantieri. La vita dei cantieri l’abbiamo descritta, denunciata, da Nord a Sud nelle decine di iniziative svolte in questi anni, tra le quali quella che ci ha visti partecipi della carovana antimafie promossa dalla Associazione Libera.

 

Per riguadagnare una maggiore dignità nel nostro settore è necessaria un po’ più di radicalità nei cambiamenti da introdurre. Guardate che la storia non aspetta noi. Oggi stiamo vivendo un fenomeno inedito, quello dell’ingresso massiccio degli stranieri, sui quali, guarda caso, si scaricano le principali contraddizioni che abbiamo descritto.

Chi pensasse di gestire questi effetti con il “tran tran” quotidiano, con un atteggiamento da ordinaria amministrazione, con i tempi biblici che segnano la scansione del dire e del fare rischierebbe di non capire che le contraddizioni ancora presenti nel settore non potrebbero che accentuarsi, vanificando parte del lavoro fatto in questi anni.

 

Quello che noi vorremmo provocare è un sussulto culturale che sappia guardare oltre gli interessi più immediati ed egoistici, che faccia della nostra iniziativa sindacale e di partenariato innanzitutto una battaglia di civiltà per restituire dignità ad un settore e ad una grande maggioranza di persone che lo vivono, quella dignità che ancora oggi spesso è negata.

 

Da questa scelta faremo derivare gli assi del nostro lavoro per i prossimi mesi, che in gran parte ho già indicato, a partire dalla rinnovata centralità del tema legato alla sicurezza nei luoghi di lavoro, al quale dedicheremo ancor più attenzione, soprattutto alla questione delle malattie professionali, anch’esse ai vertici delle graduatorie nei nostri settori. In questo caso ci avvarremo della collaborazione con l’Inca in un progetto congiunto che sarà coordinato dal compagno Giorgio Civiero, che lascerà la nostra categoria per passare al patronato. Anche per questo colgo l’occasione per salutare anche a nome di tutti voi Giorgio, ringraziarlo per ciò che ha fatto con onestà e passione in questi anni nella categoria, per augurargli buon lavoro, un lavoro che del resto ci vedrà ancora vicini e per questo speriamo il più produttivo possibile.

 

Così come continueremo a tenere al centro il tema della legalità, per continuare a combattere un fenomeno che si oppone alla qualità del settore, come lo è quello del caporalato controllato dalle centrali malavitose.

Il delitto Fortugno dimostra che non può essere abbassata la guardia nella lotta contro tutte le mafie, ma dimostra anche che vi sono tante energie nella società che la vogliono combattere, a partire dai giovani e noi dobbiamo dare speranze a questi giovani continuando a stare in prima fila in questa battaglia, come lo sono tutti i giorni i nostri sindacalisti (e non solo i nostri) anche al prezzo di intimidazioni, provocazioni, minacce, come quelle che qualche settimana fa hanno coinvolto, ultimo in ordine di tempo, il nostro compagno Pezzimenti Giuseppe della Segreteria di Reggio Calabria-Locri, al quale va tutta la nostra solidarietà, così come a tutti gli altri dirigenti della Fillea, della Filca e Feneal anch’essi fatti oggetto delle stesse minacce.

 

 

La contrattazione

 

La battaglia per la dignità del lavoro passa per tanti tavoli. Nonostante le incertezze, le contraddizioni, le ambiguià che abbiamo registrato in questi anni continueremo a sollecitare l’iniziativa dei tavoli che hanno prodotto l’avviso comune perché di quel lavoro c’è bisogno, è positivo e obbliga dei soggetti abituati a fare da soli a stare insieme, a coltivare una cultura del partenariato ancora più ampia rispetto a quella che la stessa bilateralità ha contribuito a diffondere, anche se –non a caso- ancora dentro un sistema caratterizzato da separatezza.  

 

Ma il tavolo della contrattazione è sicuramente quello principale, anche perché dipende da noi, dalle parti sociali e solo per un maldestro gioco del rimpallo potremmo dare la colpa ad altri, ad esempio al Governo.

 

Lo abbiamo già detto in altre occasioni, il bilancio della stagione contrattuale che abbiamo alle spalle è molto positivo, per i suoi risultati economici e normativi. Abbiamo rinnovato buoni contratti nazionali in tutti i settori e abbiamo dato vita ad una contrattazione di secondo livello che ha conseguito, almeno sul piano economico, risultati apprezzabili.

 

Adesso dobbiamo cercare di non smentire questo lavoro positivo fatto nelle nuove scadenze che riguardano il secondo biennio ed il secondo livello.

 

Per tutti i settori interessati vogliamo ribadire che le piattaforme presentate sono state costruite con gli stessi criteri di rigore, di equilibrio, di coerenza che ci hanno ispirati nella elaborazione delle piattaforme per i rinnovi contrattuali.

Le nostre sono richieste giuste, a partire da quelle economiche che si propongono il recupero del potere d’acquisto con gli stessi parametri adottati due anni fa nei contratti nazionali.

 

Per questo ci auguriamo che negli incontri previsti nei prossimi giorni per ognuno dei settori rappresentati, si possa rapidamente chiudere questo aspetto del negoziato e dedicarsi con più attenzione agli aspetti legati all’organizzazione del lavoro e alla condizione di lavoro, ambito che dovrebbe esaltare la funzione del secondo livello di contrattazione, con particolare riferimento agli immigrati e alle donne presenti nel settore.

 

Dopo la firma del contratto dei meccanici è ripartita con forza la sollecitazione a realizzare la tanto attesa riforma della contrattazione.

In questa discussione non servono rappresentazioni grottesche, che non corrispondono alla realtà, come quella che descrive una Cgil per il Ccnl e non per il secondo livello di contrattazione: la Cgil è per il Ccnl e per il secondo livello e ritiene che l’uno abbia delle funzioni, l’altro delle altre; mi resterebbe complicato immaginare che la Cisl e la Uil non siano per il Ccnl, forse è più serio immaginare che vi siano sensibilità diverse circa la funzione da attribuire ai due livelli. Così come vi sono posizioni differenti, queste si di un certo rilievo, sulla democrazia sindacale, benché non si capisce perché esperienze prodotte tra i meccanici e tra i pubblici dipendenti non possano rappresentare esperienze da estendere al resto del mondo del lavoro.

 

Se dovessi guardare a noi, ai nostri settori direi che la stagione contrattuale delle costruzioni dimostra che non c’è un modello unisex o a misura unica. I settori sono molto diversi fra loro. Da noi il bilancio positivo della stagione contrattuale, che nel caso dell’edilizia, ad esempio, ci colloca secondi solo ai bancari come risultati economici, è l’effetto combinato dei due livelli a nessuno dei quali potrebbe essere tolto peso specifico. In questo caso la riforma della contrattazione non potrebbe che confermare l’attuale modello!

 

Negli impianti fissi non c’è molta differenza. Esiste il vero problema, che esisterebbe in ogni caso e solo parzialmente potrebbe essere risolto dallo spostamento del baricentro tra i due livelli: la diffusione della contrattazione integrativa.

C’è chi fra noi pensa, legittimamente, che affidare al secondo livello maggiori compiti di recupero salariale potrebbe favorire la diffusione della contrattazione. E’ una opinione legittima, credo eccessivamente ottimistica, perché la diffusione del secondo livello di contrattazione attiene secondo me ad una caduta reale di potere contrattuale del sindacato, problema che difficilmente potrebbe essere aggirato con qualche escamotage. Se il secondo livello di contrattazione non viene esercitato pienamente temo che la nostra riflessione debba incentrarsi sul modo come stiamo interpretando la nostra volontà o capacità di intervenire seriamente sui processi organizzativi del lavoro, terreno forse un po’ troppo abbandonato negli anni che abbiamo alle spalle.

 

Intanto torniamo ai nostri tavoli, alle nostre piattaforme che parlano di condizioni di lavoro, di ambienti, di orario, di professionalità, che devono tentare di attuare le prime conquiste fatte nel Ccnl. Di questo dobbiamo occuparci nelle prossime settimane.

 

Per fare questo occorre dunque sbloccare i tavoli nazionali a partire  dall’edilizia per la funzione che questo tavolo ha anche in relazione all’istituto salariale provinciale, cioè l’elemento economico territoriale.

Noi auspichiamo che l’incontro del 16 possa chiudere le partite aperte e liberare la contrattazione provinciale, avendo al tempo stesso rinnovato il biennio economico.

Per fare questo occorre abbandonare completamente le pregiudiziali poste dalla controparte che riguardano come si sa le questioni della trasferta e della responsabilità in solido.

 

La posizione espressa unitariamente dal sindacato è chiarissima: noi siamo interessati ad una operazione di semplificazione, che renda meno complicata la vita alle imprese, che per ragioni note si spostano frequentemente da una provincia all’altra e dunque devono analogamente spostare la propria iscrizione da una cassa edile all’altra. Ma questa è cosa molto precisa, si chiama appunto semplificazione procedurale e per questa si tratta di trovare i sistemi in uso oggi, nel terzo millennio.

 

Siamo decisamente contrari e mai saremo disponibili a fare una operazione che abbia come risultato il fatto che le imprese, da una eventuale modifica della normativa contrattuale, possano trarne il beneficio di un minor costo a carico loro che alla fine si scaricherebbe sui lavoratori sotto forma di minori prestazioni. Questa si chiamerebbe Bolkestein in salsa italiana!

 

E siccome non siamo nati ieri ed inoltre siamo profondi conoscitori di ciò che avviene realmente nei cantieri, non ci accontentiamo di sentirci dire che il lavoratore non ci perde niente. C’è un solo modo attraverso il quale il lavoratore non perde niente: riconfermare che si applica l’accordo provinciale della provincia ove ha sede il cantiere e che il controllo e le competenze sindacali sono della provincia ove ha sede il cantiere.

 

Se si ritiene impraticabile la proposta avanzata dai sindacati che rispetta oltretutto il principio della iscrizione alla cassa edile di origine vuol dire che non si persegue l’obiettivo della semplificazione ma l’altro che noi non solo non potremmo mai condividere ma contro il quale continueremo a batterci. Tant’è che tutta la Fillea è impegnata e mobilitata per partecipare alla manifestazione di Strasburgo in programma il 14 febbraio contro la Direttiva Bolkestein!

 

Questa è la stessa ragione per la quale non riusciamo a capire come si possa in tutta onestà chiedere ad un sindacato che tutti i giorni si sbuccia la pelle con le conseguenze del ricorso esasperato al subappalto di modificare la norma sulla responsabilità in solido. Si afferma che con la congruità e ancor più con il Durc la norma diventa superflua. Intanto la congruità, senza la quale lo stesso Durc diventa meno efficace, è tutta da sperimentare, per poi verificarne l’efficacia. E poi possiamo dire di aver fatto il Durc? È domanda provocatoria, so bene. Ma cosa dovremmo pensare guardando alle innumerevoli difficoltà che rendono ogni volta complicato il decollo effettivo di questa esperienza? Il Durc per molto tempo è rimasto al palo delle difficoltà tecniche organizzative, che ancora oggi si trascinano e noi dovremmo accettare l’idea che dentro un contesto di tali difficoltà potremmo tranquillamente abbandonare i caposaldi della normativa che fino ad oggi ci hanno consentito di combattere in qualche modo contro le conseguenze negative del subappalto?

 

Non ci fidiamo? Come potremmo, avendo appreso che proprio in queste ore il Governo tenterà un nuovo colpo di mano con il decreto “mille proroghe”, che contiene un emendamento che sposta a tre mesi la validità del Durc, confermando il sospetto che una parte di questo mondo è ostico se non ostile alle nuove regole!

 

Tuttavia, intendiamo cogliere i segnali positivi giunti dall’ultimo incontro. Per questo vogliamo sperare che il 16 febbraio prevalga in tutti il buon senso, anche perché una incomprensione su questi capitoli ha la conseguenza di rendere scarsamente credibile tutta l’iniziativa sul versante della regolarità. Questo è un settore che per vincere la sua battaglia per la qualità, per la regolarità ha bisogno di unire le forze, non di dividerle. Noi la nostra parte crediamo di averla fatta e continueremo a farla. Le imprese sono chiamate ugualmente a dimostrare di saper far prevalere gli interessi generali su quelli particolari.

 

Agli impianti fissi ho già fatto cenno. Si tratta in questo caso, soprattutto nei settori dove scontiamo maggiori difficoltà, di fare della contrattazione integrativa una palestra dove far crescere la nostra capacità di intervenire sui processi organizzativi del lavoro, a partire dagli orari e dal mercato del lavoro, che come ricorderete hanno rappresentato i punti di maggiore difficoltà ai tavoli nazionali in occasione dei rinnovi contrattuali, dove abbiamo avvertito la necessità di far crescere il potere negoziale del sindacato per vincere una visione riduttiva che spesso viene dalle controparti e che appare sempre più come un ripiegamento di fronte ai problemi posti dalla competizione in questi settori.

 

Una cosa è certa, questa categoria intende affermare le proprie ragioni davanti al Paese, all’opinione pubblica, perché sono ragioni di buon senso e sacrosante. Questa è una categoria che preferisce le intese, gli accordi sindacali alle rotture, ma sarebbe un errore immaginarla come rinunciataria al combattimento.

Qui non si combatte solo per la tasca, ma anche in molti casi per la pelle e per la dignità e questa è una causa che merita attenzione e rispetto da parte di tutti!

 

 

Riprogettare il sindacato

 

Per riprogettare il Paese occorre anche riprogettare il sindacato.

In questo caso il concetto non contiene un giudizio negativo sullo stato di salute del sindacato, ma al contrario punta a investire ciò che di positivo abbiamo fatto in questi anni nella nuova fase dove saremo chiamati a misurarci con prove altrettanto impegnative e forse ancora più complesse.

 

Della fase sindacale che abbiamo alle spalle, delle nostre divisioni, si è detto tutto e non serve riproporre valutazioni note, probabilmente inconciliabili fra loro, soprattutto là dove chiamano in causa visioni diverse, culture e sensibilità diverse su questioni importanti della problematica sociale e sindacale del Paese. Lo dico soprattutto a noi stessi, non servirebbe a molto quell’ “l’avevamo detto”, finalizzato ad abiure o pentimenti tanto improbabili quanto non richiesti.

 

Oggi il problema è un altro. C’è un Paese da riprogettare, c’è un sindacato che deve svolgere un ruolo importantissimo per questo. La nostra opinione è che su questa sfida dobbiamo provare a portare tutto il sindacato confederale, senza ipocrisie circa l’idea diversa di sindacato che può esserci tra noi, ma anche senza rinunce a priori, dettate da risentimenti o ferite.

 

Come si sa questa è una categoria a prevalente vocazione unitaria. La Fillea è una categoria con grande vocazione unitaria, certo non acriticamente unitaria, ma questo fa bene alla salute. Anche per questo non disdegnamo assieme alla critica anche l’autocritica. Anche per questo, con questo congresso, abbiamo voluto dare seguito ad una riflessione già avviata nei mesi scorsi.

 

La categoria è cresciuta in questi anni, è cresciuta la Fillea, ma anche la Filca e la Feneal e questo è un fatto estremamente positivo per tutti e innanzitutto per i lavoratori. Ma abbiamo visto che la nostra crescita è stata inferiore alla crescita dell’occupazione e nel caso degli edili, inferiore alla crescita degli iscritti presso le casse edili. Questo significa una cosa sola: il sindacato ha aumentato i propri iscritti ma la sindacalizzazione è diminuita e questo invece è un dato negativo per tutti noi, oltrechè per i lavoratori.

 

Ci stiamo interrogando sulle cause e abbiamo deciso di farlo insieme, ma tra queste ve ne sono alcune che riguardano alcune distorsioni nel nostro modo di essere e di operare. In particolare noi riteniamo che su questo dato pesi una idea sbagliata di competizione fra noi, una competizione che viene giocata più nel togliere agli altri ciò che già rappresenta la dote sindacalizzata che nell’avanzare verso nuovi livelli di sindacalizzazione. Ciò determina l’assillo quotidiano di ogni nostro dirigente, la disdetta,  da impedire o da restituire con tanto di interessi ed è così che la delega ai nuovi iscritti diventa secondaria e i dispetti sul territorio arricchiscono la nostra letteratura.

 

Noi non intendiamo affermare che la colpa è più di una o dell’altra organizzazione, non è questo ora il problema. Però dobbiamo riconoscere che c’è uno scarto tra quello che ci diciamo a Roma e quello che accade sul territorio. Mentre tra noi affermiamo il principio della correttezza, della trasparenza, del rispetto, dai territori ci giungono segnalazioni sempre più frequenti di una deriva fatta di trucchi, trucchetti, furbizie, cose poco trasparenti che muovono sempre nell’unica direzione “fregare quello accanto”.

Se affermiamo, come abbiamo affermato in più sedi, di non riconoscerci in queste dinamiche, anzi di volerle combattere allora dobbiamo assumere degli orientamenti e delle decisioni che diano chiaramente il segno che tutto ciò si colloca decisamente fuori dalla politica che unitariamente intendiamo perseguire sul terreno del reinsediamento.

 

Per noi l’organizzazione sindacale è un mezzo non un fine, uno strumento per emancipare e per tutelare gli interessi dei lavoratori. Se divenisse il fine è chiaro che rischieremmo di parlare di cose diverse.

 

In questo senso vi proponiamo nuovamente e lo facciamo con la solennità del congresso, di aprire tra noi un confronto per rivisitare e rinnovare anche anticipatamente l’accordo di Grottaferrata.

Non voglio entrare nei dettagli, ma di quel confronto noi  riteniamo debbano far parte alcune questioni fondamentali:

 

-                            il primato della delega sulla quota di servizio, per avviare un processo di riequilibrio, a fronte dei già denunciati segnali di snaturamento evidenziati in diverse parti del territorio nazionale; il sindacato è quello della delega, la quota di servizio è un accessorio che si aggiunge per le note peculiarità del settore;

 

-                            la bilateralità quale strumento della contrattazione, come sistema da qualificare non da rendere autoreferenziale. Noi non abbiamo firmato il protocollo sulla bilateralità sotto ricatto, ma perché convinti che l’autonomia contrattuale provinciale non solo può, ma deve risultare compatibile con una politica nazionale unitaria di qualificazione del ruolo degli enti. Per questo sarebbe utile un “governo etico” della nostra vita negli enti che non annulli le titolarità provinciali ma neanche le immagini come delle piccole repubbliche dove ognuno fa quel che vuole. Ed in questo senso sarebbe altrettanto eticamente utile ripristinare il principio del voto unanime della delegazione sindacale contro quello a maggioranza, usato oggi contro quella, domani contro quell’altra sigla;

 

 

-                            la rappresentanza e la partecipazione dei lavoratori, attraverso la qualificazione del ruolo delle rappresentanze sindacali unitarie e quelle alla sicurezza e il coinvolgimento nelle fasi della vita sindacale e contrattuale;

 

-                            un progetto sindacale unitario per la sindacalizzazione dei lavoratori stranieri, per presentarsi unitariamente a questo nuovo mondo che cerca il sindacato.

 

E del tema della democrazia evitiamo di farne una questione ideologica o di stretta appartenenza. Al di là del fatto che per qualcuno di noi, per noi sicuramente, è ciò che legittima il mandato, il punto qui è un altro: è la difficoltà a far partecipare i lavoratori per le caratteristiche penalizzanti del settore, la difficoltà a tirarli dentro la discussione sindacale.

 

Se non li coinvolgiamo come potremmo pensare di fare crescere questa nostra battaglia per la dignità del lavoro, attraverso le lotte contrattuali e non solo!

 

E se non lavoriamo per ricostruire una identità sociale di questo mondo del lavoro vittima della profonda frantumazione, per renderla protagonista, difficilmente potremmo ambire a cambiare granchè di questo stesso mondo. Per questo occorre uno sforzo affinché i lavoratori siano più presenti, più coinvolti e non c’entra in questo caso la modellistica sindacale.

 

Per noi il tema della partecipazione e della democrazia sindacale è tema importante, che non coincide con il dilemma “referendum si-referendum no” come si è visto dai risultati del dibattito sulle tesi alternative! Qui occorre uno sforzo superiore, originale per coinvolgere i lavoratori e noi siamo impegnati a farlo, dal coinvolgimento delle commissioni di settore e delle delegazioni trattanti fino alle assemblee dei lavoratori, nelle fasi di predisposizione, di negoziato e di verifica degli accordi.

 

Su queste questioni e su altre siamo pronti a questo confronto al quale intendiamo partecipare con il massimo di disponibilità e chiediamo di poterlo avviare subito dopo la conclusione dei nostri congressi, quello della Fillea e ovviamente quello della Feneal.

 

 

Il rinnovamento della Fillea

 

A questo Congresso, che ha visto lo svolgimento di 7650 assemblee rispetto alle 5824 di quello precedente, arriva una Fillea che in questi anni ha imboccato decisamente la via del suo rinnovamento.

Per tutto quanto detto finora appare evidente che per noi il rinnovamento è innanzitutto un progetto culturale, la ricerca di un profilo alto dell’elaborazione e dell’iniziativa della categoria che ci consenta di stare dentro i processi in atto nel settore senza subirli, ma al contrario provando ad orientarli verso sbocchi più avanzati ed innovativi.

 

Ma il nostro rinnovamento è anche nelle politiche organizzative che abbiamo sviluppato in questi anni e che questo congresso intende riaffermare con grande coerenza e rinnovata convinzione.

 

Innanzitutto la radicata convinzione che il baricentro della nostra organizzazione deve essere decisamente spostato sul territorio, perché quella è la nostra frontiera, lì si combattono le battaglie più dure ed è lì che debbono arrivare i maggiori rifornimenti con una politica delle risorse che privilegi chiaramente le strutture decentrate.

 

Abbiamo poi praticato con convinzione, attraverso il progetto Under 30, un deciso rinnovamento dei gruppi dirigenti che fosse in primo luogo generazionale per colmare il grande vuoto generazionale esistente nel nostro sindacato.

Per noi questa è una scelta irreversibile, che non riguarda solo i quadri di apparato ma che deve nascere nei luoghi di produzione, favorendo il ricambio all’interno delle rappresentanze sindacali unitarie.

 

E’ una scelta che si impone come necessaria anche per recuperare un rapporto tra giovani e sindacato che appare decisamente critico, come ha dimostrato una recente ricerca dell’Ires-Cgil secondo la quale il 50% dei giovani fra i 17 e i 32 anni ritiene che la Confederazione rappresenti di più gli anziani, tanto che solo il 24% è iscritto al sindacato.

Rappresentare i giovani significa anche aprire le porte del sindacato a nuove mentalità, a nuove aspirazioni, a nuove idee e opinioni anche per  guardare il mondo con occhi diversi, altrimenti corriamo il rischio che noi, dirigenti di più lunga durata il mondo piano piano non lo vediamo più per quello che è effettivamente ma per come ce lo siamo immaginati nella nostra mente, per come lo vorremmo e questo è il pericolo dell’autoreferenzialità, che dobbiamo assolutamente combattere.

 

E poi, aprire il sindacato ai giovani –lo ripeto per l’ennesima volta- non significa mortificare le esperienze esistenti. Il sindacato ha bisogno di tutte le risorse e noi dobbiamo saperle valorizzare tutte, con intelligenza, con equilibrio, con rispetto reciproco, ma con altrettanto rigore e determinazione. Qui sta un pezzo importante del nostro futuro!

 

L’altra faccia del nostro rinnovamento generazionale  è stata, potremmo dire, il tentativo di sfidare la forza gravitazionale, cioè, impegnare la Fillea, categoria inequivocabilmente al maschile, a rappresentare la differenza di genere.

Del risultato di questo tentativo parla da solo il numero delle donne delegate a questo congresso: 120 su 578 una percentuale mai immaginata per la nostra categoria (era del 12,51% l’altra volta, oggi quasi il 21).

 

Molti si chiederanno, soprattutto fuori dalla Fillea, come sia stato possibile raggiungere questo risultato.

In primo luogo cercando le donne dove sono, nel nostro caso nel settore del legno e in quello più recente del restauro, sfatando l’idea che nel settore delle costruzioni le donne non esistono.

In secondo luogo orientando i progetti delle strutture verso l’ingresso negli apparati di giovani ragazze provenienti dai settori citati, ma anche da esperienze diverse tra loro.

In terzo luogo cominciando ad occuparci dei problemi della rappresentanza di genere e della tutela dei diritti delle donne nei contratti. Non possiamo dire di avere fatto chissà che, ma già negli ultimi contratti abbiamo iniziato a masticare le questioni, che dovranno essere riprese già a partire dalle prossime scadenze contrattuali.

 

Tutto ciò ha portato alla nascita in Fillea di una esperienza inedita, filleadonna, presentata alla prima assemblea nazionale delle donne la scorsa settimana, che avrà lo scopo –mettendo in rete tutte le esperienze delle compagne- di sollecitare l’organizzazione sui diritti delle donne, che non sono solo delle donne, come nel caso della mobilitazione per la difesa della L.194 e poi all’esigenza di qualificare la contrattazione sindacale di categoria sulle problematiche delle donne, là dove sono presenti e di sostenere la promozione delle donne nei gruppi dirigenti e nelle responsabilità di direzione della categoria.

 

Ripeto qui quello che ho già affermato all’assemblea nazionale: per noi il rispetto della norma antidiscriminatoria che la Cgil si è data non deve rappresentare un adempimento notarile, tanto più che sarebbe impossibile farlo nei nostri settori. Ma proprio per questo occorre la volontà e l’impegno dei nostri gruppi dirigenti di favorire e privilegiare la scelta delle compagne là dove se ne presenti la possibilità. Senza pensare che le donne per il fatto di essere donne in Fillea debbano essere sottoposte a chissà quali esami supplementari.

 

Il terzo asse è il tentativo di rappresentare le professioni più alte e i settori nuovi. Del restauro ho già detto, un settore con alti livelli di formazione, che pur nella sua peculiarità deve trovare nel sindacato un luogo di rappresentanza sintonizzato con queste caratteristiche.

Al tempo stesso dobbiamo fare uno sforzo per parlare ai tecnici, ai geometri, a tutte quelle figure il cui processo lavorativo colloca oggettivamente a fianco dei lavoratori, figure spesso senza tutela, né rappresentanza.

 

Del resto, un altro asse fondamentale della nostra politica di rinnovamento è l’aver scelto di sostenerla con gli strumenti della conoscenza. Il rapporto che in questi anni abbiamo costruito con le Università di Roma e di altre città, con centri di ricerca e associazioni professionali ha questo fine, fare della conoscenza l’ingrediente principale per offrire alla nostra organizzazione una adeguata capacità di comprendere e di interpretare i fenomeni con i quali siamo chiamati a misurarci e di avanzare proposte e iniziative adeguate.

Voglio per questo ringraziare innanzitutto la Facoltà di Valle Giulia che convenzionandosi con noi ha promosso una attività di ricerca e di monitoraggio permanente che è nostra intenzione mantenere vivo e rinnovato.

 

Ma sicuramente quello che questo gruppo dirigente considera il risultato più importante del mandato congressuale che abbiamo alle spalle è l’aver avviato il Progetto Nazionale Formazione Quadri, sotto la direzione della compagna Ada Loranti, recuperando un limite, che purtroppo non è solo della nostra categoria, che da molti anni ci trascinavamo. Un progetto che interesserà circa duemila quadri tra delegati e dirigenti sindacali e che intendiamo considerare la leva principale e vincolante per la formazione dei gruppi dirigenti.

 

Qualche settimana fa abbiamo concluso il master per giovani gruppi dirigenti organizzato con l’ISF, che di questo progetto rappresenta un segmento di alta formazione. Dobbiamo dire che è stata una esperienza semplicemente straordinaria, avendo messo in luce la presenza di un gruppo di giovani dirigenti che senza ombra di dubbio può già oggi rappresentare un pezzo importante del nostro futuro e che a noi tutti sta di valorizzare attraverso responsabilità crescenti in questa organizzazione.

 

Infine, abbiamo fatto uno sforzo per vincere la nostra atavica ritrosia e umiltà  per collocare la Fillea all’interno del sistema della informazione e della comunicazione, perché è giusto che quello che facciamo, soprattutto quando è ben fatto, venga saputo e socializzato. Oggi la Fillea è più presente nel mondo dell’informazione e della comunicazione e soprattutto su alcune questioni importanti come gli infortuni o la questione degli appalti e della legalità siamo interlocutori autorevoli e riconosciuti.

 

Nel giugno 2003, data di partenza del nuovo sito Fillea, i contatti mensili erano 2.500 e 2-3 le persone che quotidianamente lo visitavano. Oggi, grazie al lavoro di un team autodidatta che silenziosamente ha contribuito a rendere più forte la voce della Fillea e del sindacato, il sito della Fillea è visitato da 2.075.000 contatti mensili con 16 milioni e 500mila pagine aperte. A queste compagni e compagni va il ringraziamento della segreteria e di tutti voi, così come alle compagne e i compagni della struttura nazionale che anche in questi giorni, rinunciando al week end di riposo hanno lavorato –con la preziosa collaborazione della Fillea di Pesaro- alla piena riuscita di questo nostro Congresso!

 

 

Il Sindacato Multietnico

 

Diritti senza frontiere è una parola d’ordine semplice ma nasconde una sfida enorme, quella della costruzione di un sindacato multietnico. Con questo Congresso vogliamo iniziare un percorso che dovrà portare alla costruzione del primo sindacato multietnico della Cgil.

 

Le ragioni non serve spiegarle, dato che risiedono in quel fenomeno di cui già abbiamo parlato e del quale parlano tutte le statistiche: quattro anni fa, a Chianciano, i lavoratori stranieri iscritti presso le casse edili erano appena ventimila, forse meno. Oggi sono all’incirca centomila. Non occorre dire altro per capire cosa sarà il mondo del lavoro nelle costruzioni fra qualche anno.

 

Il sindacato multietnico è dunque quel sindacato in grado di rappresentare questo mondo del lavoro che non parla più una sola lingua.

Ma fosse solo questo sarebbe forse tutto più facile, sarebbe questione risolvibile con una maggiore attenzione nella composizione dei comitati direttivi, nella distribuzione degli incarichi, nella formazione delle segreterie, insomma, sarebbe questione risolvibile con “un po’ di colore in più” nei nostri organismi a tutti i livelli. Noi abbiamo già dimostrato che se si vuole si può.

 

Ma non è questo il sindacato multietnico che abbiamo in mente e che vogliamo costruire. Il nostro sindacato multietnico non nasce innanzitutto negli organismi ma nelle nostre menti. Il sindacato multietnico è la vera rivoluzione culturale delle nostre menti perché definisce un nuovo profilo culturale dell’organizzazione.

 

Il sindacato multietnico è innanzitutto un soggetto in grado di avere una propria lettura del processo di globalizzazione che dà luogo, tra le altre cose, ai grandi flussi migratori che sappiamo. Come potremmo proporci di rappresentare una porzione di questo processo, una porzione di questo mondo senza capire dove va il mondo e cosa possiamo e dobbiamo fare noi per farlo andare nella giusta direzione.

 

L’immigrato clandestino che sbarca, quando è fortunato, sulle coste della Sicilia o della Puglia è una delle facce della globalizzazione, che ne ha due: vi è il lato della ricchezza, quella rappresentata dalle innumerevoli opportunità che vengono offerte da un mondo che elimina le frontiere economiche, politiche, culturali; e poi vi è quella della povertà, quella che contiene il movente primo che genera i flussi migratori dei quali il nostro Paese e l’Europa sono destinatari.

 

Le cause sono le guerre, la povertà, la fame, le malattie, l’analfabetismo, una distribuzione della ricchezza mondiale rovesciata. Quella è la faccia della medaglia che parla di un pianeta nel quale quasi la metà dei suoi abitanti vive con meno di 2 dollari al giorno e un miliardo e 200 mila persone con meno di 1 dollaro e questo in ragione del fatto che l’83% del reddito mondiale è in mano al 18% della popolazione e che, secondo alcune indagini, le dieci persone più ricche del mondo posseggono patrimoni che superano di una volta e mezzo il reddito nazionale dei 48 Paesi più poveri del mondo.

 

E’ la faccia della medaglia dove 25 miliardi di tonnellate di suolo ogni anno vengono erose da deforestazioni e cattiva gestione e si perdono dai 5 ai 7 milioni di ettari di terra coltivata; dove il 42% della popolazione è cronicamente sottoalimentata. E’ la faccia della medaglia che non conosce la più grande rivoluzione tecnologica di tutti i tempi, emblema della modernità: il 70% della popolazione mondiale –infatti- non conosce l’esistenza della rete Internet il cui accesso riguarda solo il 7% della stessa. Tre quarti degli utenti di Internet sono concentrati nei quindici Stati più sviluppati, il 97% dei siti web, il 95% dei server e l’88% degli utenti sono solo nei 28 Stati appartenenti all’Ocse.

 

Non era casuale la campagna lanciata dalla Cgil qualche anno fa e che offre forse il fotogramma più crudele di questo processo, la campagna contro lo sfruttamento dei minorenni, in gran parte bambini: 246 milioni di essi lavorano, 73 milioni sotto i dieci anni; 22 milioni muoiono per infortuni sul lavoro; 120 milioni non sono mai andati a scuola e sono in maggior parte bambine; 300 mila ogni anno vengono reclutati nelle guerre e rappresentano la quota più alta delle vittime prodotte da tutte le guerre. Basterebbe il 4% della spesa in armamenti per offrire una alternativa a questo scenario.

 

Ma la globalizzazione è anche grande opportunità per sconfiggere queste ingiustizie, ma perché lo sia il sindacato multietnico non può non battersi contro l’egoismo della parte più forte e ricca del mondo, che rischia di sprecare questa grande opportunità.

Per questo il sindacato multietnico che noi vogliamo costruire non può essere solo un soggetto di rappresentanza di quelle braccia delle quali i Paesi sviluppati oggi hanno bisogno per far funzionare le loro fabbriche, i loro cantieri o i loro servizi sociali.

Chi lascia la propria terra, con le immani sofferenza dello sradicamento, lo fa con il sogno, un giorno, di tornarci  e noi dobbiamo essere quel soggetto che si assume l’impegno di agire per quanto possibile per contribuire a restituire loro un mondo che possa offrire questa opportunità.

 

La Fillea multietnica è dunque e prima di tutto contro tutte le guerre perché la guerra oltre a non essere strumento di risoluzione delle controversie tra i popoli, distrugge ricchezza, sottraendola alla parte più debole delle popolazioni.

Ed è anche contro tutte le guerre di religione. Vogliamo qui ribadire la nostra convinzione che le religioni diverse dalla nostra non sono il pericolo che incombe nell’occidente. Rispetto, tolleranza, unite alla conoscenza sono le condizioni per la convivenza pacifica che noi riaffermiamo.

 

La Fillea multietnica –che per questo ha combattuto contro la Bossi-Fini- è un soggetto che si batte per il diritto all’accoglienza ed è un diritto che nasce innanzitutto sulle nostre coste della Sicilia o della Puglia, nel dramma degli sbarchi clandestini, un diritto che oppone al piombo di una visione cieca del fenomeno, le braccia e le mani di una società civile e di una organizzazione di sorelle e fratelli – nel nostro caso avversa ai sentimenti razzisti perché la nostra gente è gente che ha conosciuto negli anni passati la sofferenza dello sradicamento dalle terre di origine e per questo in grado di capire la sofferenza, la disperazione, il bisogno di solidarietà. Una organizzazione che considera i disperati delle persone da tutelare e soprattutto da rispettare, non come accade in quei Centri di Permanenza Temporanea dei quali sono state denunciate le condizioni disumane,  dove il rispetto della dignità umana è bandita anche da chi dovrebbe rappresentare lo Stato dei Diritti e che per questo dovrebbero essere chiusi.

 

La Fillea multietnica è un soggetto che si batte per i diritti di cittadinanza, il diritto al lavoro, alla salute, all’assistenza, all’istruzione, all’alloggio, contro la ghettizzazione dei diversi di pelle, di razza e di religione dalla quale si sviluppano gli incendi delle periferie metropolitane. Anche questo è il tema della dignità delle persone, quella dignità tanto disprezzata dal nostro Presidente del Consiglio con  quella trovata propagandistica sul bonus ai nascituri, ma non quelli di colore, naturalmente.

 

La Fillea multietnica è un soggetto che si batte per i diritti sul lavoro a partire dall’accesso al lavoro, per combattere le nuove forme di caporalato e che poi deve riguardare la sicurezza sul lavoro, perché i morti che aumentano per effetto di un maggiore sfruttamento e di un più alto tasso di illegalità e di irregolarità, sono tra i lavoratori stranieri. Ed è una condizione che riguarda la giusta remunerazione, il giusto salario, contro le imposizioni dei caporali ma anche la giusta valorizzazione professionale. Non è vero che i lavoratori stranieri sono solo delle braccia da destinare ai lavori di maggior fatica e di scarso contenuto professionale. E’ noto a tutti che i tassi di scolarizzazione degli stranieri sono più alti di quelli nostri e questo rappresenta una risorsa che va giustamente riconosciuta, valorizzata e premiata.

 

E poi la Fillea multietnica è il sindacato che apre le sue porte ai lavoratori stranieri che vogliono portare la loro passione, la loro determinazione, la loro volontà di emancipazione e di riscatto, dentro la nostra organizzazione. Oggi abbiamo più di venti sindacalisti stranieri. Questo nucleo rappresenta una piccola comunità multietnica alla quale abbiamo affidato il compito non di parlare ai lavoratori stranieri, ma a tutti i lavoratori, perché questo devono diventare, dirigenti complessivi di tutta l’organizzazione, non gli addetti all’immigrazione.

 

Anche questa è per noi una scelta irreversibile, non solo perché imposta dalla storia ma perché vogliamo che sia così il nostro sindacato di domani, anche perché sarà un sindacato ancora più bello di quello già bello che abbiamo oggi.

Per questo vi invito, care compagne e compagni immigrati, ad occupare il nostro e il vostro sindacato e a far si che un giorno uno di voi possa stare qui, al mio posto, un vero immigrato, non un tunisino per caso!

 

 

Cento anni della Cgil: la memoria del futuro

 

Abbiamo ricevuto in eredità cento anni di storia della Cgil e questo Congresso li sta celebrando non solo come un fatto di vita interna alla nostra organizzazione ma come un pezzo importante della storia di questa democrazia e del progresso del nostro Paese.

Noi stessi siamo una categoria che di questi cento anni ha ricevuto in eredità la storia di tante lotte, forse meno conosciute di quelle condotte da categorie più “blasonate” (si sa che i lavoratori delle costruzioni è gente più umile, più timida e restia a mettersi in mostra…!), ma lotte altrettanto importanti e decisive per la conquista di questa democrazia. Questa sera un gruppo di giovani attori metterà in scena quel romanzo di Vasco Pratolini che parla di una figura di operaio edile che acquistando una propria coscienza di classe scelse di combattere per i diritti e la dignità dei lavoratori. E’ un romanzo, ma che parla di un tratto vero di questa categoria. Forse pochi sanno che numerosi di questi lavoratori edili di Roma e non solo furono deportati in Germania per essersi opposti alla tirannide nazi-fascista.

 

Anche per questo, in occasione del Centenario, abbiamo voluto investire sulla memoria, sulla nostra storia per costruire un ponte tra il passato e il futuro, dove la materia prima sia rappresentata dai quei valori universali per i quali i nostri lavoratori si sono battuti nel corso di questa storia Quei valori –tra i quali oggi si ripropone anche il carattere laico del nostro Stato- che ci hanno portati ad aderire al progetto dell’Anpi per dare continuità nel tempo agli scopi di quell’associazione, che sono quelli di tutelare e diffondere i valori della Resistenza, che ci hanno portati a contrastare i tentativi del Governo di Centro-Destra di equiparare la Resistenza ad una triste pagina della guerra civile e che oggi ci vede impegnati nella mobilitazione per il Referendum popolare contro la riforma costituzionale voluta dal centro-destrae per difendere tutte le libertà democratiche, a partire da quella fondamentale all’informazione. Anche per questo voglio esprimere la nostra solidarietà al quotidiano L’Unità per le infamanti accuse rivolte da Berlusconi, accuse destinate a tutta l’informazione che si batte per rendere vivo questo valore.

 

E’ l’eredità di tanti compagni che per questa causa hanno speso tutta la vita senza ricevere probabilmente in cambio equa gratificazione, ma si sa questo nostro lavoro è una missione non un mestiere.

Molti di questi compagni ci hanno lasciati nel corso degli anni e a loro andrà sempre la nostra gratitudine. Alcuni di essi ci hanno lasciati in tempi più recenti, anche in modo tragico. Voglio per tutti ricordare un compagno del quale ricordo ancora l’intervento appassionato e impegnato al Congresso di Chianciano, il compagno Piero Leo, che di questa causa è sempre stato degno e sfortunato protagonista, ma che anche per questo rimarrà sempre nei nostri cuori, come lo resteranno la moglie e le figlie alle quali va ancora il nostro sentimento di affetto e di solidarietà.

 

Quelli che invece ci hanno lasciati per raggiunti limiti di età sappiamo della loro sofferenza, perché di questo settore e di questa categoria non ci si può che innamorare. A loro, per quelli qui presenti e per coloro che non ci hanno potuto raggiungere, va non solo il nostro affettuoso ringraziamento, ma anche l’impegno a non dimenticare, a non dimenticarli, per far vivere loro la concreta sensazione di appartenere ancora a questa nostra grande famiglia.

 

Il lavoro nel settore delle costruzioni –si sa- è lavoro faticoso, sicuramente più pericoloso di tanti altri, ma non povero, al contrario ricco di capacità creative, in alcuni casi vera e propria arte. Per questo i nostri lavoratori sono persone semplici ma pieni di valori positivi, valori trasmessi da antiche tradizioni forgiate al rispetto delle persone e della natura, ma anche dai tanti significati che assume il prodotto della loro opera manuale e intellettuale.

 

Con alcuni compagni sto condividendo da tempo un pensiero, riflettendo proprio sui significati più profondi dell’opera che nasce dalle mani dei nostri lavoratori. Da quelle mani, se ci pensate,  escono case, scuole, ospedali, strade, opere d’arte restituite al loro antico splendore. Che cosa sono tutte queste opere se non i simboli primari della coesistenza sociale, del progresso civile. La casa è simbolo di protezione e di unione; le scuole ti danno quell’istruzione necessaria per capire il mondo ed esserne soggetto attivo; gli ospedali sono il simbolo della solidarietà, dell’aiuto che hai dagli altri nei momenti di difficoltà, in molti casi simbolo di una vita nuova o ritrovata; le strade sono quelle che mettono in collegamento le civiltà, le diverse culture del mondo ed aiutano a ridurre oltre le distanze fisiche, anche le diversità che lo popolano; le opere d’arte restituite al loro splendore ci parlano di civiltà che vengono da lontano e che sono ancora vive e parlano di valori universali, dunque di speranze e possibilità senza limiti davanti a noi.

 

Voi capite –quindi- perché un lavoratore delle costruzioni non potrà mai essere per la guerra! Perché la guerra distrugge quelle opere che lui ha contribuito a realizzare e che sono i simboli della pace, della civile coesistenza, del progresso umano. E’ un lavoratore che ha nel sangue il sentimento di pace!

E’ per questo che io immagino i lavoratori delle costruzioni come costruttori di pace ed è per questo che immagino il loro sindacato come il sindacato che fa della multietnicità un altro grande pilastro della pace nel mondo.

 

Qualche hanno fa una grande Rock-Star, che ha tra noi una nutrita schiera di fans, ha scritto una canzone che parlava di un Sos lanciato al mondo dentro una bottiglia sperando che qualcuno raccogliesse questa bottiglia e finiva con una appello alla speranza “Cento miliardi di bottiglie riversate sulla spiaggia”.

 

Ecco, io vorrei che da questo nostro XVI Congresso Nazionale molte bottiglie fossero lanciate in quel mare che abbiamo di fronte e che porta verso zone del mondo dove ancora si combattono guerre ingiuste ed inutili, molte bottiglie con dentro scritto il nostro messaggio: siamo un sindacato multietnico, siamo il sindacato dei costruttori di pace!

 

 

 

Pesaro, 6 febbraio 2006

 

 

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