RICERCA DI: ORTOLANI CRISTINA
UFFICIO VERTENZE E LEGALE
CGIL PESARO
IL
FENOMENO DEL MOBBING
1.
Definizione
La
parola mobbing deriva dal verbo inglese “To mob” (assalire con
violenza) preso in prestito dall’etologia, dove venne introdotto da
Konrad Lorenz, che lo utilizzò per indicare il comportamento aggressivo
di alcune specie di uccelli nei confronti dei loro contendenti che
tentano di assalirne il nido.
La
prima persona che cominciò a studiare il mobbing, come violenza
psicologica nel luogo di lavoro ed in quanto tale responsabile di
patologie
per chi lo subisce, è stata lo psicologo tedesco Heinz Leymann che nel
1986 illustrò in un libro le conseguenze, soprattutto sulla sfera
neuro-psichica, di chi è esposto ad un comportamento ostile, protratto
nel tempo, da parte di superiori o dei colleghi di lavoro.
In realtà non esiste una
definizione univoca di mobbing dal momento che, trattandosi di un
fenomeno dalle molteplici sfaccettature, le definizioni in uso risentono
dei particolari punti di vista di chi le esprime.
Ci
si può richiamare alla definizione lasciataci da Leymann il quale
sostiene che “il terrore psicologico o mobbing lavorativo
consiste in una comunicazione ostile e non etica diretta in maniera
sistematica da parte di uno o più individui generalmente contro un
singolo che, a causa del mobbing, è spinto in una posizione in cui è
privo di appoggio e di difesa e lì costretto per mezzo di continue
attività mobbizzanti.
Queste azioni si verificano con una frequenza piuttosto alta, almeno
una volta la settimana, e su un lungo periodo di tempo, con una durata
di almeno sei mesi”.
Dalla definizione del
fondatore della disciplina emerge con chiarezza che si può correttamente
parlare di mobbing quando siamo alla presenza di un requisito
spaziale; il luogo di lavoro, e di un requisito temporale; le
violenze psicologiche devono cioè essere regolari, sistematiche e durare
nel tempo.
Il
mobbing è così una forma di terrore psicologico che viene esercitato sul
posto di lavoro attraverso attacchi ripetuti da parte dei colleghi o dei
datori di lavoro.
Le
forme che esso può assumere sono molteplici: dalla semplice
emarginazione alla diffusione di maldicenze, dalle continue critiche
alla sistematica persecuzione, dall'assegnazione di compiti
dequalificanti alla compromissione dell'immagine sociale nei confronti
di clienti e superiori.
Nei casi più gravi si può
arrivare anche al sabotaggio del lavoro e ad azioni illegali.
Lo scopo del mobbing è quello di eliminare una persona che è, o è
divenuta, in qualche modo "scomoda", distruggendola psicologicamente e
socialmente in modo da provocarne il licenziamento o da indurla alle
dimissioni. Si tratta di una delle più diffuse e meno conosciute
sindromi del nostro tempo.
L'Italia
è il Paese con il più basso numero di denunce, mentre il fenomeno è in
pericoloso aumento tanto da essere considerato, in Svezia, un vero e
proprio reato. Si stima che nel nostro Paese siano almeno un milione le
persone sottoposte a questo tipo di vessazione.
Si può
individuare un mobbing orizzontale, dove la persona-bersaglio
viene colpita dai colleghi di lavoro da feroci attacchi, continui e
sistematici, tesi a screditare, denigrare, isolare, estromettere dal
gruppo, colpire anche la dignità personale, la reputazione privata oltre
che professionale. Le vittime, vinte dallo stress, dalla depressione,
dall’ansia, dall’aggressività, da disturbi psicosomatici, sono costrette
ad abbandonare il campo di battaglia, il posto di lavoro, soccombendo
alla violenza psicologica degli assalitori, i cosiddetti mobbers.
Quando
invece il mobbing viene esercitato da un dirigente nei confronti di un
dipendente, questa diversa situazione viene definita bossing o
mobbing verticale: si tratta di una subdola strategia gestionale
tesa ad ottenere le dimissioni, l’allontanamento del lavoratore divenuto
scomodo o la contrazione del personale per motivi organizzativi
aziendali.
Il
motivo principale della scarsa incidenza di mobbing è la mancanza di
sufficienti strumenti per conoscerlo ed individuarlo. In Italia mancano
purtroppo leggi in materia: una serie di proposte di legge sono state
depositate alla Camera dei Deputati per portare alla luce, prevenire e
combattere il mobbing.
Solo
oggi compaiono i primi studi. Le ricerche, svolte negli ultimi tempi,
hanno evidenziato che le cause scatenanti dell’abuso psicologico
perpetuato sul posto di lavoro vanno ben oltre le antipatie, le gelosie
e le frustrazioni; infatti si è dimostrato che le cause del terrore
psicologico sul posto di lavoro non riguardano esclusivamente i fattori
caratteriali: si fa mobbing su una persona perché ci si sente
surclassati ingiustamente o per gelosia, ma anche per costringerla a
licenziarsi senza che si crei un caso sindacale. Esistono vere e proprie
strategie aziendali messe in atto a questo scopo.
Guardando il fenomeno più in profondità si è evidenziato un legame
causale con i problemi legati all'occupazione e
al ridimensionamento dell'organico.
In
particolare le ristrutturazioni delle aziende private e pubbliche, le
fusioni tra società dello stesso settore generano forti conflittualità e
competitività nell'ambiente di lavoro. Coloro che si trovano a svolgere
le stesse mansioni entrano in conflitto fra loro fino all'eliminazione
del più debole.
La
stessa evoluzione delle competenze professionali è fattore scatenante di
atteggiamenti vessatori, i lavoratori più anziani e meno aggiornati
vengono indotti ad andarsene ed a lasciare il posto alle nuove giovani
professionalità, spesso ciò può avvenire proprio attraverso il mobbing.
1.1
Le conseguenze del mobbing sull’individuo
Il
mobbing ha conseguenze di portata enorme sulla persona direttamente
soggetta agli abusi.
Gli effetti provocati si
sviluppano secondo una gamma varia e sempre più grave man mano che le
aggressioni proseguono nel tempo.
Per
schematizzare ed analizzare più dettagliatamente il tutto, sono state
individuate quattro fasi
attraverso cui si sviluppano i danni.
In
una prima fase, all’inizio del conflitto e degli attacchi, la vittima
inizia a manifestare un certo malessere. Nei primi sei mesi appaiono i
primi sintomi psicosomatici: incubi, insonnia, inappetenza, nausea,
solitudine con ripiegamento su di sé.
Nella
seconda fase si ha il
passaggio dal mobbing al terrore psicologico. Dai 15 ai 18 mesi si crea
uno stato cronico di ansietà. Dai 2 ai 4 anni dall’inizio del conflitto
appaiono disturbi della personalità: depressione, fobie, pensieri
ossessivi, che generano dipendenza da tranquillanti, che a loro volta
provocano assenza dal lavoro per malattia. E’ nella terza fase
che del caso inizia ad occuparsi l’ufficio del personale, il quale si
inserisce attivamente nella strategia di abusi sulla vittima,
ritenendola responsabile di tale situazione. Così, in questa atmosfera
di prepotenze tollerate o sostenute dalla stessa azienda, il lavoratore
si trova sempre più isolato: gli viene negato qualsiasi colloquio col
personale delle risorse umane, viene calunniato, criticato fino alla
distruzione di ogni fiducia in se stesso e delle sue referenze per
impedirgli di trovare nuovi impieghi. Nell’ultima fase,
consolidate le manie ossessive, la vittima può sviluppare malattie di
vario genere, sia nervose sia fisiche, di lunga durata. A livello
psicologico può esplodere aggressività o contro di sé, fino al suicidio,
sia verso la famiglia, compromettendo le basilari relazioni
interpersonali.
Dal lato economico la vittima, lavorando meno e male, assentandosi
continuamente per malattie, subisce perdite. Il lavoratore viene poi,
come estreme conseguenze, licenziato, messo in mobilità o in
prepensionamento.
Le ricerche condotte
all'estero hanno dimostrato che il mobbing può portare fino
all'invalidità psicologica, e che quindi si può parlare anche di
malattie professionali o di infortuni sul lavoro.
In
Svezia ed in Germania centinaia di migliaia di vittime di mobbing sono
finite in prepensionamento o addirittura in clinica psichiatrica. In
casi di questo tipo, i costi non hanno investito solo l'azienda datrice
di lavoro - che ha dovuto pagare i periodi di malattie delle vittime -
ma anche la società stessa.
Fra
tutti i soggetti che soffrono per mobbing, non bisogna computare solo il
gran numero dei lavoratori, quanto la molteplicità di persone in qualche
modo coinvolte nel fenomeno, legate da rapporti parentali e non solo,
come amici e famigliari delle vittime, che risentono senza meno della
situazione.
1.2 Il danno all’azienda
E’ bene evidenziare come il
mobbing danneggia sensibilmente non solo il lavoratore, ma anche
l'azienda stessa, che nota un calo significativo della produttività nei
reparti in cui qualcuno è mobbizzato dai colleghi.
Infatti nel lungo periodo il
mobbing è in grado di provocare danni permanenti alle aziende che lo
tollerano o che lo praticano abitualmente ed attivamente. Il terrorismo
psicologico forse non danneggia il prodotto finale, ma peggiora la
qualità di vita dei dipendenti, risultando quindi un indizio di cattiva
gestione delle risorse umane che crea comunque dei costi.
I costi per le aziende si
concretizzano nei costi delle procedure irregolari nei confronti dei
mobbizzati, quali trasferimenti, sospensioni e provvedimenti ingiusti;
nei costi legali per denunce o vertenze promosse dai lavoratori-vittime
contro l’azienda. Ancora nei costi dovuti al calo della motivazione
lavorativa in azienda; i costi provocati dal mobber, il quale impiega
parte del suo tempo che dovrebbe dedicare al lavoro a molestare i
colleghi; i costi che conseguono alle dimissioni di elementi produttivi
e competenti; infine i costi connessi alla riassunzione di altro
personale in sostituzione.
Benché per le aziende tutti
questi conti sembrino di poco conto, in realtà essi incidono sui conti
di fine anno.
Di solito le aziende che
praticano il mobbing prevedono di riuscire a rovesciare sul corpo
sociale questi costi: sulla sanità pubblica e sulle famiglie dei
mobbizzati. In termini economici questa operazione viene definita
esternalizzazione dei costi; ma in realtà non tutti i costi possono
essere esternalizzati.
1.3 Costi per i
contribuenti
Il fenomeno del mobbing è
ritenuto molto preoccupante per la sua ricaduta sui contribuenti; le
cifre spese in Europa sono allarmanti. Il mobbing mette così a
repentaglio lo stato sociale. Forse facendo più attenzione ai costi
sociali della violenza psicologica sul posto di lavoro, i conti pubblici
negli ultimi anni sarebbero stati più in regola e i tagli al welfare
operati in molti paesi sarebbero stati meno drastici.
Il mobbing rappresenta un
pericolo per le casse dello stato dal momento che provoca malattie
professionali, traducendosi in un costo per la sanità pubblica, che a
sua volta diviene sempre meno efficiente non soddisfacendo più la
domanda sociale. Per venire incontro alla domanda sociale bisogna
aumentare ancor di più la spesa pubblica e quindi il carico fiscale per
tutti.
2.
Il quadro
normativo
In
Italia manca una legge specifica che tuteli il lavoratore dal terrore
psicologico.
L’assenza di una specifica previsione legislativa non impedisce di
difendersi dal mobbing dal momento che nel nostro ordinamento già
esistono norme costituzionali, civilistiche, penali e specialistiche le
quali, grazie ad una paziente opera di interpretazione, costituiscono un
buon argine a protezione delle vittime di violenze psicologiche in
ambito lavorativo. Si può assicurare in tal modo la tutela del
lavoratore ed il risarcimento dei danni subiti in conseguenza dei
comportamenti mobbizzanti, oltre che la sanzione di tali comportamenti.
2.1
La tutela nella Costituzione
Numerose
sono le norme della Costituzione poste a tutela della persona, in quanto
tale, e del lavoratore inserito nella realtà lavorativa (artt. 2,
3, 4, 32, 35, 36, 41) e tra
queste, in particolare, vanno segnalati:
art.32 Cost.:
“ La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto
dell’individuo e interesse della collettività…”;
art.35
Cost.: “ La
Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”;
art.41
Cost.: “ L’iniziativa economica privata è libera. Non può
svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno
alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana.”
2.2
La tutela civilistica
Sotto il
profilo civilistico, occorre prima di tutto distinguere le ipotesi
in cui l’autore del mobbing è il datore di lavoro da quelle in cui è un
superiore gerarchico od un collega della vittima.
In
questa seconda ipotesi, l’autore delle violenze psicologiche potrà
essere chiamato a rispondere ai sensi dell’art. 2043 c.c., quindi
per responsabilità extra contrattuale.
La norma
di carattere generale contenuta nell’art. 2043 stabilisce,
infatti, che:
“
Qualunque fatto doloso o colposo che causa ad altri un danno ingiusto,
obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.”
Ciò è,
quindi, perfettamente applicabile alle varie configurazioni del mobbing,
poiché contiene il principio generale di responsabilità e sancisce il
divieto di cagionare danni ad altri. L’importanza dell’articolo 2043,
quale efficace strumento di lotta al mobbing, è messa in particolare
risalto dalla sentenza n° 411 del 24 gennaio 1990 della Corte di
Cassazione nella quale la stessa Corte “ha stabilito che il bene
della salute costituisce oggetto di un autonomo diritto primario e
quindi il risarcimento per la sua lesione non può essere limitato alle
conseguenze che incidono soltanto sulla idoneità del soggetto a produrre
reddito e cioè al danno patrimoniale inteso come diminuzione del reddito
per esborsi di denaro (cure e/o trattamenti medici o acquisto di
prodotti farmaceutici) cosiddetti danno emergente, o come possibilità di
perdita di guadagno a causa della condotta del molestatore (lucro
cessante), ma deve essere esteso al danno biologico inteso come lesione
inferta al bene dell’integrità psichica in sé e per sé”.
Qualora
invece l’autore delle violenze psicologiche sia il datore di lavoro, la
responsabilità derivante dall’art. 2043 potrà concorrere con quella
contrattuale da inadempimento di cui all’articolo 2087 del codice
civile che dispone, integrando ex lege le obbligazioni nascenti dal
contratto di lavoro, che:
“L’imprenditore è tenuto
ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la
particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a
tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di
lavoro”.
E’ evidente che
dall’articolo 2087 ne discende non solo il divieto per il datore di
lavoro di porre in essere direttamente comportamenti riconducibili al
mobbing, ma anche l’obbligo di attivarsi per impedire che tali
comportamenti siano tenuti dai propri dipendenti. In giurisprudenza,
infatti, è stata riconosciuta la legittimità del licenziamento in tronco
di lavoratori che abbiano posto in essere delle gravi condotte nei
confronti di altri dipendenti. Nel merito, il lavoratore dovrà provare
la condotta illegittima ed il nesso di causalità tra l’inadempimento
delle misure ex art. 2087 ed il danno subito, mentre a carico del datore
di lavoro rimane la prova di aver operato secondo le disposizioni di
legge.
Analogamente, trovano sanzione anche i comportamenti riconducibili
all’abuso del diritto da parte del datore di lavoro. Quindi la tutela
del lavoratore vittima di vessazioni psicologiche può essere esercitata
ai sensi degli articoli 2043 e 2087 c.c. e la
scelta del meccanismo di tutela più idonea spetterà al lavoratore.
Sempre
in tema di mobbing, un importante principio è stato recentemente
affermato dalla Corte di Cassazione con l’innovativa sentenza del 5
ottobre 2001 depositata in Cancelleria il 2 gennaio 2002.
L’Alta
Corte, chiamata a pronunciarsi sul caso di un lavoratore, che dopo aver
svolto per tre anni le mansioni per le quali era stato assunto, nei
successivi sedici anni - pur continuando a ricevere lo stipendio - non
era stato impiegato in nessuna attività, riconoscendogli il diritto ad
essere risarcito per il danno subito ha sancito il principio secondo il
quale la negazione o l’impedimento allo svolgimento delle mansioni lede
“il diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità
del lavoratore”.
Ancora
sotto il profilo civilistico è anche possibile esperire la tutela in via
d’urgenza ex art. 700 c.p.c., in presenza di comportamenti
vessatori o discriminatori che pongono in grave pericolo i diritti del
lavoratore.
2.3
La tutela penalistica
Per
quanto riguarda il profilo penalistico, non pochi operatori del
diritto sostengono a ragione che il mobbing, potendo causare anche
malattie professionali, potrebbe costituire reato configurandosi come
delitto di lesione personale colposa previsto dall’articolo 590
del codice penale.
L’applicazione delle regole generali del diritto penale al mobbing
comporta, in ogni caso, l’esigenza di valutare in concreto se la
compromissione della integrità psicofisica del lavoratore sia
riconducibile ad una condotta del datore di lavoro colposa o dolosa.
2.4
Lo Statuto dei lavoratori
La
legge 20 maggio 1970, n° 300, lo Statuto dei lavoratori, è uno degli
strumenti più importanti che la legislazione mette a disposizione per la
tutela del lavoratore.
Tra le
varie norme dello Statuto un particolare rilievo assumono l’art. 7
con l’obbligo di specifica procedura disciplinare contro gli abusi del
datore di lavoro; l’art. 13 a
tutela delle mansioni del lavoratore dai comportamenti di
dequalificazione professionale e l’art. 15 per la tutela
della nullità degli atti che abbiano finalità discriminatorie ai
danni del lavoratore.
2.5 Il
D.lgs 626/94 e il danno biologico
Ruolo fondamentale può essere esercitato anche dal
Decreto legislativo 626/94.
Tale
normativa ha affermato il diritto alla salute inteso non solo come
assenza di malattia, ma anche come assenza di disagio e segnato il
passaggio dall’idea della tutela della integrità fisica del lavoratore
all’idea della tutela della sua integrità psico-fisica. Da qui
deriva l’ammissione del risarcimento del danno biologico, inteso
appunto come menomazione dell’integrità psicofisica del soggetto, che
andrebbe totalmente addebitato in maniera personale e diretta agli
autori delle violenze psicologiche e dovrebbe avvenire ogni volta che
ricorrano le condizioni previste dall’art. 2043 c.c., indipendentemente
dalle obbligazioni che gravano sul datore di lavoro ai sensi degli artt.
2049 e 2087 del codice civile.
La nozione del danno
biologico è proprio nel rapporto di lavoro subordinato che trova
importanti applicazioni: infatti, l'art. 2087 c.c., come sopra
sostenuto, impone al datore di lavoro l'obbligo di tutelare l'integrità
fisica e psichica del lavoratore, altrimenti il datore sarà tenuto al
risarcimento del danno biologico derivante da una menomazione fisica o
psichica subita nell'espletamento della attività lavorativa.
Più
precisamente, il datore di lavoro è tenuto al risarcimento qualora il
lavoratore possa dimostrare non solo di aver subito una lesione fisica o
psichica, ma anche che la lesione è dovuta al lavoro e non ad una causa
diversa. Se il lavoratore ha fornito le prove di cui si è parlato, il
datore di lavoro potrà esimersi dal risarcimento dimostrando di aver
rispettato non solo le norme antinfortunistiche, ma anche l'art. 2087
c.c., quindi di aver utilizzato tutti i rimedi preventivi consentiti
dall'attuale stato della scienza e della tecnica.
Se il
datore di lavoro fallisce questa prova, il lavoratore potrà ottenere il
risarcimento del danno, normalmente commisurato al grado di invalidità
corrispondente alla lesione subita. Di regola, questo accertamento viene
effettuato mediante consulenza tecnica, affidata ad un medico legale,
che provvede alla quantificazione della invalidità; sulla scorta di
questa quantificazione, il giudice liquiderà in via equitativa il danno.
Normalmente il risarcimento
di ogni danno, compreso quello biologico, presuppone la natura illecita
del comportamento che l'ha cagionato. Tuttavia, la Cassazione, con la
sentenza n. 475, pronunciata il 19/1/99, ha riconosciuto che, a
determinate condizioni, anche un comportamento astrattamente lecito può
essere fonte di risarcimento del danno.
Secondo
la Corte è risarcibile il danno, derivato al dipendente da un
comportamento persecutorio del datore di lavoro, consistito nella
richiesta a più riprese all’INPS dell'effettuazione di visite mediche
domiciliari di controllo dello stato di malattia del lavoratore,
attestato dal certificato del medico curante, nonostante la malattia
fosse stata già accertata dai controlli precedenti. Nella specie è stata
confermata la sentenza d'appello secondo la quale il comportamento del
datore di lavoro aveva causato un aggravamento della malattia del
lavoratore, tale da portare ad una invalidità permanente con riduzione
della capacità di lavoro. Più precisamente, la Corte ha affermato che le
reiterate visite di controllo sul lavoratore assente per malattia,
richieste dal datore di lavoro, possono configurare un comportamento
persecutorio, con conseguente diritto del lavoratore al risarcimento dei
danni subiti a causa di tale comportamento.
Come è facile intuire, l'importanza della segnalata sentenza sta nel
fatto che è stato riconosciuto il diritto al risarcimento in un caso in
cui il danno era stato causato da un fatto in sé lecito.
La sentenza della Corte di
Cassazione ha riconoscendo dunque che anche l'esercizio di un diritto,
se avviene con modalità vessatorie, può cagionare un danno risarcibile.
La pronuncia è tanto più
importante se si pensa che nel nostro ordinamento, come si diceva, il
presupposto per il risarcimento del danno è la natura illecita del fatto
che lo ha cagionato. Nel caso esaminato dalla sentenza in questione, il
comportamento del datore di lavoro non costituiva in sé, astrattamente
considerato, un illecito; dal momento che egli ha sempre la facoltà di
controllare, mediante gli organismi del sistema sanitario pubblico,
l'effettivo stato di malattia del lavoratore.
Tuttavia, talvolta un diritto può essere esercitato in maniera del tutto
irragionevole e con finalità meramente vessatorie. Caso esaminato dalla
pronuncia citata della suprema Corte non è l'unico in cui l'esercizio di
un diritto può costituire fonte di responsabilità per danni. Si pensi,
per fare un altro esempio, al datore di lavoro che perseguita il proprio
dipendente sommergendolo di sanzioni disciplinari che, benché rientranti
nell'astratto potere disciplinare del datore di lavoro, per la loro
sistematicità e per la loro pretestuosità potrebbero configurarsi
appunto come persecutorie e vessatorie. Anche in un caso come questo,
dunque, il dipendente che abbia subito un danno potrà rivolgersi al
Giudice del lavoro per ottenere il risarcimento.
In
materia di legislazione speciale, infine, non va poi trascurato il
Decreto Legislativo 23 febbraio 2000, n. 38 che ha introdotto,
seppure con alcune eccezioni, la tutela assicurativa INAIL del danno
biologico.
Il
quadro normativo si era arricchito a livello regionale dalla Legge della
Regione Lazio varata nel giugno 2002 e contenente "Disposizioni per
prevenire e contrastare il fenomeno del 'mobbing' nei luoghi di lavoro"
cancellata recentemente dalla Corte Costituzionale per interferenza
regionale con la competenza esclusiva dello Stato.
3. Il
Panorama europeo
Nel settembre 2001, il Parlamento europeo, attraverso una specifica
Risoluzione,
ha evidenziato la necessità per gli Stati membri di approfondire lo
studio del fenomeno delle violenze psicologiche in ambito lavorativo per
pervenire ad una comune definizione della fattispecie del mobbing e
creare una più solida base statistica sulla sua diffusione.
In questo senso è
sicuramente utile individuare le esperienze maturate negli altri paesi
europei, in particolare dell’Europa del nord, da più anni sensibile alla
problematica.
In Belgio
troviamo nel 11 giugno 2002 la
legge per regolamentare il fenomeno.
La legge
si qualifica per la previsione dell’obbligo per il datore di lavoro di
designare, in accordo con i rappresentanti dei lavoratori, un
Consigliere per la prevenzione, interno od esterno a seconda delle
dimensioni dell’impresa, con specifiche competenze psico-sociali in
particolare riferite all’ambiente lavorativo.
Le
imprese al di sopra di 20 dipendenti, qualunque sia il settore di
attività, dovranno disporre del servizio interno di prevenzione, mentre
quelle con meno di 20 dipendenti, che ne sono prive, saranno affiliate
ad un servizio esterno di prevenzione interaziendale che raggruppa
specialisti di cinque discipline, quali medicina del lavoro, sicurezza,
igiene industriale, ergonomia e psicologia.
Inoltre da alcuni anni,
grazie all’azione svolta dal sindacato, si è costituita, presso i
servizi pubblici per la prevenzione e protezione sul lavoro, una
commissione “d’avviso” composta da rappresentanti dei lavoratori e dei
datori di lavoro, con lo scopo di offrire ai lavoratori vittime del
mobbing un’assistenza al di fuori della realtà lavorativa.
In
Francia, nel 2000, è stata varata la prima legge specifica sul
mobbing in cui il fenomeno viene definito come un “insieme di azioni
ripetute di violenza morale che hanno per oggetto e per effetto la
degradazione delle condizioni di lavoro suscettibile di recare offesa ai
diritti e alla dignità del salariato, di alterare la sua salute
psicologica o mentale e compromettere il suo avvenire professionale”.
La
legge si qualifica per l’introduzione dell’istituto dell’inversione
dell’onere della prova. Infatti è il soggetto accusato di aver posto
in essere azioni dirette o indirette di violenza morale in ambito
lavorativo a dover dimostrare l’estraneità da qualsiasi forma di
responsabilità. E’ stato anche istituito un osservatorio sullo stress,
presso un istituto di credito, dove si svolgono corsi di formazione
obbligatori, condotti da medici e specialisti, per vertici e dirigenti
aziendali, sulle relazioni interpersonali sul luogo di lavoro e nella
vita sociale. Inoltre è stata prevista l’astensione dal lavoro
“anti-mobbing” di tutti i dipendenti di un’azienda per circa una
settimana per protestare contro i soprusi ed i metodi di pressione
psicologica attuati sul posto di lavoro. Per non nuocere eccessivamente
all’immagine dell’azienda, la direzione sigla un accordo di buon clima e
di rispetto dei dipendenti sul luogo di lavoro.
In
Germania, alla Volkswagen, nel 1996 è stato firmato un accordo tra
azienda e sindacato con l’obiettivo di prevenire molestie sessuali,
mobbing ed ogni forma di discriminazione al fine di creare un clima di
lavoro positivo basato sulla reciproca collaborazione.
Nel 1998
è stato istituito dal sindacato un “telefono verde” per i lavoratori
vittime di mobbing e sempre nel 1998 è stato sottoscritto un accordo sul
mobbing nell’area del pubblico impiego.
In
Gran Bretagna è in discussione una proposta di legge che, pur non
tenendo conto della dimensione collettiva o dell'organizzazione del
lavoro come fattori alla base del mobbing, dispone l'adozione da parte
del datore di lavoro di una politica mirata a prevenire il fenomeno da
sottoporre alla consultazione dei rappresentanti sindacali e dei
rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza
Il
primo paese europeo a dotarsi di una legge nazionale sul mobbing è stata
la Svezia, nel 1993, con una normativa di fondamentale
riferimento per qualsiasi intervento legislativo successivo in materia,
anche negli altri paesi.
3.1
Le disposizioni svedesi
In
Svezia sono state emanate nel 1993, dall’Ente nazionale per la Salute e
la Sicurezza, disposizioni relative alle misure da adottare contro forme
di persecuzione psicologica negli ambienti di lavoro. Per
persecuzione vengono considerandosi ricorrenti azioni riprovevoli o
chiaramente ostili intraprese nei confronti di singoli lavoratori, in
modo offensivo, tali da determinare l’allontanamento di questi
lavoratori dalla collettività che opera nei luoghi di lavoro. Si prevede
che il datore di lavoro organizzi e pianifichi il lavoro stesso, in modo
da prevenire tali violenze psicologiche, comunicando tra l’altro, in
modo inequivocabile, che queste forme di violenza non potranno essere
tollerate nel corso dell’attività lavorativa. Esempi di misure di ordine
generale che il datore può adottare sono:
§
Elaborare
una politica ad hoc per l’ambiente di lavoro che, tra l’altro, illustri
le intenzioni, gli obiettivi e l’atteggiamento di ordine generale nei
confronti dei propri dipendenti;
§
Elaborare
delle procedure che garantiscono condizioni psicologiche e sociali, nei
luoghi di lavoro, che siano le migliori possibili, anche per quanto
concerne la situazione lavorativa e l’organizzazione del lavoro;
§
Adottare
misure per impedire che si manifestino reazioni negative sul lavoro, ad
esempio elaborando delle regole che incoraggino un clima di rispetto e
di amicizia nel luogo di lavoro. Ed è soprattutto il datore di lavoro e
i suoi rappresentanti che per primi devono dare il buon esempio in tal
senso;
§
I quadri e
i dirigenti devono ricevere una formazione tale da consentire loro di
gestire le materie che rientrano nelle leggi di diritto del lavoro, gli
effetti delle varie condizioni di lavoro sulle persone, i rischi di
conflitto all’intero dei gruppi di lavoratori, in modo che siano in
grado di rispondere con prontezza, con un sostegno qualificato, a quei
lavoratori che si trovassero in situazioni di stress e di crisi.
Sarà
inoltre indispensabile prevedere procedure che consentano di individuare
i sintomi di condizioni di lavoro persecutorie, l’esistenza di problemi
inerenti all’organizzazione del lavoro o eventuali carenze per quanto
riguarda la cooperazione, che possono costituire il terreno adatto
all’insorgere di qualche forma di terrore psicologico durante l’attività
lavorativa. In presenza di questo tipo di sintomi dovranno essere
immediatamente adottate e applicate delle efficaci contromisure. I
lavoratori sottoposti a queste forme di persecuzione sul lavoro dovranno
ricevere aiuto e sostegno immediati, per cui il datore dovrà prevedere
procedure speciali.
La
normativa svedese individua, come possibili cause del mobbing,
carenze relative all’organizzazione del lavoro; del sistema informativo
interno; una gestione inadeguata del modo di lavorare; un carico di
lavoro eccessivo o, al contrario insufficiente; il tipo di prestazione
richiesta; il tipo di atteggiamento tenuto dal datore nei confronti dei
propri dipendenti e le sue eventuali reazioni; problemi organizzativi
persistenti ed insoluti che possono causare forti tensioni. Naturalmente
a volte le cause o i tentativi di esclusione vanno ricercati nel
comportamento o nel modo di agire dei singoli individui, ma si potrebbe
riscontrare che, anche in questi casi, alla radice del problema vi sono
situazioni lavorative insoddisfacenti per cui i singoli lavoratori, non
trovando altra soluzione al loro profondo disagio se non quella di agire
in modo tale di danneggiare o provocare i propri colleghi.
4. Le forme del mobbing
Comportamenti che esplicano forme di persecuzione psicologica sono:
§
Calunniare
o diffamare un lavoratore, oppure la sua famiglia;
§
Negare
deliberatamente o bloccare il flusso di informazioni relative ed
indispensabili al lavoro oppure fornire informazioni non corrette al
riguardo; isolare il lavoratore privandolo dei mezzi di comunicazione,
come telefono e computer; estrometterlo dalle decisioni.
§
Sabotare o
impedire in maniera deliberata l’esecuzione del lavoro;
§
Escludere
in modo offensivo il lavoratore, oppure boicottarlo o di disprezzarlo;
impedire che gli
altri lavoratori gli rivolgano la parola, negare la sua presenza,
comportarsi come se il mobbizzato non ci fosse;
§
Esercitare
minacce, intimorire o avvilire la persona, come nel caso di molestie
sessuali,
§
Insultare,
fare critiche esagerate o assumere atteggiamenti o reazioni ostili in
modo deliberato; umiliarlo, screditare il lavoratore attraverso attacchi
contro la sua reputazione, ridicolizzarlo, umiliarlo, attaccare le sue
convinzioni religiose, sessuali, morali, calunniare membri della sua
famiglia;
§
Controllare l’operato del lavoratore senza che lo sappia e con l’intento
di danneggiarlo;
§
Applicare
sanzioni ad un singolo lavoratore senza motivo apparente, senza dare
spiegazioni, senza tentare di risolvere insieme a lui i problemi. Queste
sanzioni possono consistere in un allontanamento immotivato dal posto di
lavoro o dai suoi doveri; in un trasferimento altrettanto immotivato; in
richieste di ore di lavoro straordinario; in un evidente ostruzionismo
nei suoi confronti per quanto riguarda le richieste di formazione o di
permessi.
§
Ridurre la
considerazione di sé del lavoratore, privarlo degli status symbol; non
attribuirgli incarichi; attribuirgli incarichi inferiori o superiori
alle sue competenze; simulare errori professionali; avanzare continue
critiche alle prestazioni o alle sue capacità professionali, anche di
fronte a soggetti esterni, ma anche critiche soggettive; affidare
compiti volutamente confusi, contraddittori e/o lacunosi;
§
compromettere il suo stato di salute, come il diniego di periodi di
ferie o di congedo, attribuzione di mansioni a rischio o con turni
massacranti ;
Molte delle azioni sopra elencate, se isolate e non ripetute, possono
avere luogo anche in condizioni normali, ed essere dettate da cause
contingenti. Si parla, però, di mobbing quando
una o più di queste azioni diviene sistematica ed a lungo termine.
Una
delle modalità tipiche attraverso cui si possono realizzare
comportamenti persecutori inquadrabili nel mobbing sono certamente le
molestie sessuali commesse dal datore di lavoro, dal
superiore gerarchico o da colleghi. E’ opportuno ricordare che per
molestie sessuali si devono intendere, oltre che i veri propri tentativi
di molestia e gli atti di libidine violenta, anche i corteggiamenti
indesiderati e le c.d. "proposte indecenti". Interessante a questo
proposito è ricordare la definizione di molestia sessuale contenuta nel
codice di condotta, allegato alla raccomandazione della Commissione
Europea, che definisce la molestia sessuale ogni comportamento
indesiderato a connotazione sessuale o qualsiasi altro comportamento
basato sul sesso che offende la dignità degli uomini o delle donne nel
mondo del lavoro
4.1
Le forme del mobbing in Italia e all’estero
Si può evidenziare, dalle
ricerche effettuate in Europa, che il mobbing in Italia ha
caratteristiche leggermente diverse rispetto agli altri Paesi. Queste
differenze sono in parte legate al nostro modo di gestire le situazioni
personali e professionali e in parte legate al momento socioeconomico
che stiamo vivendo.
All’estero è molto più tipico e diffuso il mobbing orizzontale, che
riflette un problema di rapporti interpersonali o di ambiente di lavoro
malato tra individui. In Italia c’è sicuramente ed è ugualmente diffuso
questo tipo di molestia morale, ma emerge con maggior evidenza il
secondo tipo che appare più specificamente italiano.
In Italia, infatti, è
presente una regolamentazione dei rapporti di lavoro più rigidi: per
esempio la possibilità di licenziare o di spostare le persone lontano
dalle zone di residenza ha regole diverse rispetto a realtà estere. Nel
nostro Paese esiste tutta una serie di protezioni e tutele per il
lavoratore che rendono difficile licenziare e/o spostare i lavoratori
dalla sera alla mattina. Questa situazione fa sì che l’insorgenza del
secondo tipo di mobbing, il mobbing verticale, sia molto frequente.
Questo secondo tipo di mobbing è in un certo senso predeterminato: “Io
ti voglio eliminare, ma per tutta una serie di vincoli non posso farlo,
allora io ti dequalifico, mi accanisco sempre più fino al punto in cui
non riesci più a sostenere la situazione e ti dimetti”.
Per quanto riguarda il
confronto con altri Paesi è possibile sottolineare una caratteristica
italiana che riguarda il ruolo della famiglia. Rispetto alle altre
realtà estere la famiglia ha per noi connotazioni particolari: è una
realtà molto più presente, molto più interferente nella vita, molto più
giudicante e protettiva, ma paradossalmente proprio per tutti questi
aspetti a volte molto più condizionante e penalizzante. Al punto che
spesso la famiglia non capisce che cosa sta succedendo e legge quello
che il mobbizzato racconta come in realtà suoi problemi, sue difficoltà
ad interagire.
Un altro
aspetto rilevante è che spesso i nostri non parlano in famiglia di
quello che succede al lavoro, sono frequenti casi di persone che,
licenziate in tronco, non dicono nulla alla famiglia e per mesi escono
regolarmente la mattina e tornano la sera fingendo di essere andati al
lavoro.
Per
trovare alternative nel mondo del lavoro queste persone dovrebbero
presentarsi come figure vincenti, ma ciò è impossibile perché anche se
in precedenza lo erano state in seguito al mobbing si percepiscono come
vinte.
4.2
Le percentuali del mobbing
Secondo un'indagine
dell’Eurispes, l’Istituto di studi economici, politici, sociali la
categoria più' colpita dal mobbing sarebbe quella degli impiegati, che
rappresenterebbero il 79% dei vessati.
Ciò emerge da un'indagine ad
hoc su un campione di 250 persone, svolta da un gruppo di ricerca
dell'ospedale Sant’Andrea di Roma, costituito da medici del lavoro e
psichiatri dell'ambulatorio di Medicina del lavoro della seconda
facoltà' di medicina dell’università' La Sapienza.
I dati hanno messo in
luce aspetti di un fenomeno in continua evoluzione, che solo in Italia
coinvolge un milione di lavoratori, su oltre 21 milioni di occupati,
maggiormente nelle regioni del Nord, con una percentuale del 65%. Nel
corso di 14 mesi, da giugno 2001 a settembre 2002, i pazienti analizzati
dall’équipe di medici sono risultati essere per il 62,5% dipendenti di
aziende private e il resto appartenenti a quelle pubbliche; per il 52%
diplomati, mentre i laureati e possessori di licenza media si attestano
invece ex equo al 24%.
Circa lo stato civile, il
48% dei soggetti sottoposti a indagine sono coniugati, il 14% divorziati
o separati e il 38% celibi o nubili. Le azioni mobbizzanti subite dai
pazienti per il 3% hanno avuto una durata inferiore ai sei mesi, per il
27% tra sei mesi e un anno, per il 40% tra uno e due anni e per il 30%
oltre i due anni.
Secondo la grandezza
dell’azienda individuiamo percentuali del 2% per imprese fino ad 11
dipendenti; 9% da 11 a 50 dipendenti; 13% da 51 a 100 dipendenti; 28% da
101 ai 500 dipendenti; 39% oltre i 500 dipendenti. Ciò pare dimostrare
che il fenomeno cresce con l’aumentare del numero dei lavoratori.
Secondo
un sondaggio, eseguito per conto dell'Unione europea, l'8% dei
lavoratori della Comunità', corrispondente a 12 milioni di casi, e'
stato vittima del mobbing sul posto di lavoro. Le percentuali più'
elevate si registrano nel Regno Unito (16,3%), Svezia (10,2%), Francia
(9,9%), Irlanda (9,4%), Germania (7,3%); l'Italia guida la parte bassa
della classifica con il 6% e precede Spagna (5,5%), Belgio (4,8%) e
Grecia (4,7%).
4.3
Il mobbing e le donne
Sempre secondo la relazione
dell’Eurispes sono le donne, con una percentuale pari al 52% del
campione statistico analizzato, le vittime privilegiate delle
persecuzioni in ambito lavorativo.
Va
rilevato, in premessa, che la molestia morale è cosa propria di ogni
contesto organizzato verticisticamente e che, quindi, prende corpo
ovunque vi sia chi, per vocazione naturale o per organizzazione
logistica, sia posto in posizione di supremazia rispetto ad un altro.
Per le donne, denuncia il già “rapporto Italia 2003” formulato
dall’Eurispes, le molestie morali e le pressioni psicologiche assumono
aspetti peculiari, spesso molto più gravi rispetto a quelli denunciati
dagli uomini poiché le violenze sul lavoro mirano, in questo caso, a
contrastare la crescita
professionale e a emarginare le donne dai processi che
favoriscono la progressione di carriera per impedire loro di sfondare il
soffitto di cristallo delle direzioni maschili. Dalla lettura
approfondita del rapporto Italia 2003 formulato dall'Eurispes si evince
inoltre che le donne che subiscono mobbing tendono più degli uomini ad
interiorizzare, percependosi
inferiori, inadeguate e colpevoli.
Le donne
più giovani e le single subiscono anche il mobbing
sessuale messo in atto dai colleghi per danneggiare immagine e
carriera; hanno più difficoltà a trovare
sostegno in famiglia e
solidarietà in ufficio.
5.
La contrattazione
La prevenzione è l’unica
vera arma contro il mobbing e la prevenzione si fa, innanzitutto,
accettando di riconoscere il fenomeno.
In
questo senso, è necessario rilanciare l’azione del sindacato per
pervenire alla stipula di accordi aziendali sul mobbing, sulla
falsariga di quanto è avvenuto alla
Volkswagen
nel 1996 in Germania ed alla
ATM/SATTI
di Torino nel 2001.
Senza nulla togliere alla
importanza che avrebbe il varo di una legge nazionale, sviluppare
l’attività di contrattazione aziendale sul mobbing è importante per
tutta una serie di ragioni.
Intanto
si fornirebbero i lavoratori di strumenti concreti di tutela ovviando ad
uno degli aspetti più avvilenti in cui vengono a trovarsi spesso le
vittime: la sensazione di essere abbandonati a se stessi.
Sapere
che in azienda vi è un organismo, qualcuno cui potersi rivolgere in caso
di necessità è senza dubbio importante soprattutto se quell’organismo o
quel qualcuno venga percepito come qualcosa al di sopra delle parti.
Inoltre si eviterebbe il rischio di un approccio spesso formale e
burocratico al fenomeno del mobbing, così come emerge dalla lettura dei
vari
Codici etici
o dalla esperienza delle norme specifiche inserite, anche da tempo, in
alcuni contratti collettivi nazionali e che troppo spesso vengono
disattese.
Avere una fitta rete di
accordi aziendali in tema di mobbing sarebbe anche propedeutico al varo
di una buona legge sul mobbing. Ma dove l’importanza della
contrattazione assume particolare rilievo è sul versante culturale.
Da
un lato, essa potrebbe contribuire non poco a far emergere un sentimento
di condanna sociale nei confronti degli autori delle azioni mobbizzanti.
Dall’altro, consentirebbe di
affermare il concetto che un clima di reciproco rispetto e di corrette
relazioni interpersonali siano uno dei presupposti su cui fondare lo
sviluppo stesso delle aziende.
6. Il mobbing nel pubblico impiego
Il mobbing è fenomeno
ubiquitario piuttosto diffuso in tutte le realtà lavorative non solo
private ma anche pubbliche e, tuttavia, è con riferimento alle prime che
esso si è primariamente palesato ed è stato oggetto di studi
approfonditi sotto il profilo sia medico che legale. Il problema
tuttavia si è presentato, di recente, anche nel pubblico impiego in
seguito all’innesto massiccio di logiche privatistiche
nell’organizzazione e nell’operato dell’Amministrazione, consacrato nel
D.lgs.29/1993 e successive modifiche, D.lgs.30.3.2001 n°165.
In alcuni settori poi esso
ha avuto maggiore presa come nel mondo della Sanità, ove ha trovato un
terreno particolarmente fertile nei delicati rapporti esistenti tra
personale medico e paramedico, fra struttura apicale sanitaria e
dirigenza generale alla quale ultima sono stati attribuiti, dalle più
recenti leggi di riforma, poteri decisionali caratterizzati dalla più
ampia discrezionalità tali da poter sfociare in forme di vero e proprio
arbitrio, non facilmente sindacabili dall’Autorità Giudiziaria.
Anche in
seno alle autonomie locali si sono registrati comportamenti mobbizzanti
ad esempio nei confronti dei segretari comunali, dopo le recenti leggi
di riforma della categoria.
Il
fenomeno delle privatizzazioni di interi settori dell’Amministrazione,
nonché l’emanazione di leggi che tendono ad estendere i moduli
privatistici della scelta fiduciaria dei dipendenti nella P.A., con
frequente ricorso ad assunzioni esterne effettuate senza alcun previo
concorso, contribuiscono certamente all’espandersi del fenomeno e non
sembrano diminuire nonostante la constatazione delle obiettive
controindicazioni: così di recente vi è stata la legge n. 145 del 2002
che ha ampliato tali possibilità inserendo anche un elemento di
valutazione politica nelle nomine di vertice, nonostante l’art. 98 della
Costituzione parli di pubblici dipendenti al servizio esclusivo della
Nazione.
Tali normative costituiscono
certamente terreno fertile per l’accrescersi del mobbing nel pubblico
impiego, ove si caratterizza per condotte in parte diverse da quelle
usualmente studiate nel lavoro privato, quali quelle che si
concretizzano in immotivati scavalcamenti di carriera.
Così si può rilevare come
nel pubblico impiego privatizzato la principale causa di possibili
atteggiamenti "mobbistici" è da ricercare nella tendenza legislativa in
atto che ha affievolito il ruolo dei canoni della legittimità e della
legalità dell’agire amministrativo e che comunque è rimesso nelle mani
di organi politici ovvero di una dirigenza che certo non rispondono del
proprio operato e che, comunque, utilizzano danaro pubblico
nell’esercizio delle funzioni loro rispettivamente conferite dalla
legge. Ecco allora come l’incarico di una funzione dirigenziale a
persona esterna all’Amministrazione da parte dell’organo politico (ex
art.19 D.lgs.165/2001), in dispregio del curriculum e dell’anzianità di
servizio di altri aspiranti a quella carica provenienti dai ruoli
dell’Amministrazione interessata, può divenire un fatto "mobbistico".
Se
in passato la rigidità strutturale ed organizzativa delle
amministrazioni comportava la conseguenza che il lavoratore venisse
preposto all’esercizio di specifiche mansioni difficilmente
modificabili, almeno nei loro aspetti qualitativi, l’attuale sistema di
gestione della cosa pubblica e delle risorse umane, trasmigrando verso
moduli e modelli di funzionamento "aziendalistici" mutuati dal settore
privato, ha provocato l’attenuarsi di tale garanzia al fine di
perseguire obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione
amministrativa.
Il
Ministro per la Funzione Pubblica, con un decreto del 19 settembre 2002,
ha istituito una Commissione di analisi e studio sulle politiche di
gestione delle risorse umane e per lo studio delle cause e delle
conseguenze dei comportamenti vessatori nei confronti dei lavoratori.
La
Commissione ha tra i suoi compiti quello di individuare i provvedimenti
da predisporre ed elabora le proposte, anche di carattere normativo, per
migliorare l'ambiente di lavoro e le condizioni generali del lavoratore
e per garantire la valorizzazione delle professionalità.
7. Le sentenze della Corte di Cassazione
La sentenza, che per prima
ha accolto il termine mobbing nel lessico giurisprudenziale, è la
pronuncia emessa dal Tribunale di Torino, Sez. Lav. I grado, datata
16/I/99.Il caso esaminato dalla Corte Torinese riguardava una
lavoratrice dipendente che aveva richiesto il risarcimento del danno
biologico, conseguente ad una crisi depressiva, subito a causa delle
condizioni di lavoro gravose e dalle continue e mirate vessazioni e
umiliazioni da parte del capo reparto. Infatti, l'attrice era stata
costretta a lavorare ad una macchina entro uno spazio angusto e chiuso
tra cassoni e macchinari, e isolata dai colleghi.
Per
quanto concerne le sentenze pronunciate dalla Corte di Cassazione, è
bene evidenziare le più significative.
§
Una
sentenza del 16 dicembre 1999, n.12903, ha affermato che il
dipendente insultato ha diritto a dimettersi. Costituiscono infatti
giusta causa di recesso, dal rapporto di lavoro, le dimissioni a causa
delle espressioni poco rispettose ricevute da un proprio superiore. La
Sezione Lavoro della Corte di Cassazione nella fattispecie ha accolto il
ricorso di un dipendente, con qualifica di dirigente, di una società di
elettronica che si era dimesso dopo essere stato offeso dal capo del
personale, suo superiore - con espressioni del tipo "faccia di bronzo" e
"verme" – per aver rifiutato un incarico propostogli. Il Tribunale di
Torino aveva negato al lavoratore il diritto all’indennità sostitutiva
del preavviso ed al TFR, ritenendo che il linguaggio del dirigente
superiore fosse "forse eccessivamente colorito ma non insultante". La
Suprema Corte rileva invece il carattere "ingiurioso" delle espressioni
dirette al subordinato, rese ancora più "cocenti" e "sgradevoli" dalle
offese personali. Secondo i Supremi Giudici non è corretto valutare il
tenore offensivo di una espressione ricorrendo semplicemente ad un
dizionario, ma occorre invece "verificare il significato e soprattutto
l’effetto negativo che l’espressione veniva ad assumere nel contesto di
una reprimenda da parte di un dirigente al massimo livello nei riguardi
di un dirigente a livello inferiore, quando non risulta che tra i due vi
fosse una speciale confidenza o comunanza atta a giustificare un
linguaggio meno formale".
§
Nella
sentenza n.5491 del 15 giugno 2000 si è pronunciato che il
lavoratore vittima di comportamenti persecutori da parte del datore di
lavoro ha diritto al risarcimento del danno biologico, ma deve
dimostrare l’esistenza di un "nesso causale" tra il comportamento del
datore di lavoro ed il pregiudizio alla propria salute. Questo il
principio stabilito dalla Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, che
ha affrontato il caso di un lavoratore, impegnato nell’attività
sindacale, che lamentava di aver subito un comportamento persecutorio da
parte del datore di lavoro, che gli aveva spesso inflitto sanzioni
risultate poi illegittime, ostacolando in ogni modo e quotidianamente la
sua attività. Questo aveva determinato l’insorgenza di disturbi nervosi
con somatizzazioni, come nausea, vomito, dolori epigastrici, per cui il
dipendente aveva chiesto il risarcimento del danno biologico. Il Pretore
gli aveva dato ragione, ma la decisione era stata riformata in secondo
grado, e per questo motivo l’uomo era ricorso in Cassazione. La Suprema
Corte ha però rigettato la domanda, ritenendo che il lavoratore non
avesse provato l’esistenza di un rapporto di causalità tra la condotta
del datore di lavoro ed il danno alla salute. In particolare, il
lavoratore non lamentava un danno biologico subito a causa di un unico
comportamento eclatante, come, ad esempio, un infortunio sul lavoro, ma
un danno derivante da una "attività persecutoria" fatta di piccoli
dispetti quotidiani: in tali casi, la prova del nesso causale tra il
"mobbing" e il pregiudizio alla salute è piuttosto difficile da fornire.
§
Secondo la sentenza n.10090
del 20 aprile 2001 il datore di lavoro che maltratta un dipendente
con minacce, insulti e violenze fisiche e morali, sottoponendolo a
massacranti turni lavorativi, è responsabile del reato di maltrattamenti
in famiglia, perché il dipendente è assimilabile ad un membro della
famiglia. Il principio è stato affermato dalla Sesta Sezione Penale
della Corte di Cassazione, che ha confermato le condanne per
maltrattamenti e violenza privata inflitte dai responsabili di una ditta
di vendite porta a porta che avevano sottoposto i giovani addetti alle
vendite ad ogni serie di vessazioni e maltrattamenti. Invano i due si
erano difesi sostenendo che il rapporto di lavoro non è assimilabile al
rapporto familiare: la Cassazione ricorda che la legge estende
l'applicabilità del reato di maltrattamenti in famiglia anche alle
persone conviventi o sottoposte all'altrui autorità. Nel caso in esame,
rileva la Suprema Corte, non vi è dubbio che il rapporto intersoggettivo
che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, essendo
caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge
attribuisce al datore nei confronti del lavoratore dipendente, pone
quest’ultimo nella condizione, specificamente prevista dalla norma
penale, di persona sottoposta alla sua autorità; il che, sussistendo gli
altri elementi previsti dalla legge, permette di configurare a carico
del datore di lavoro il reato di maltrattamenti in danno dal lavoratore
dipendente. Inoltre, nel caso di specie, il rapporto interpersonale che
legava l'autore del reato alle vittime era particolarmente intenso,
poiché, a parte il contatto quotidiano dovuto a ragioni di lavoro, nel
corso delle lunghe trasferte, viaggiando su un unico pulmino, consumando
insieme i pasti e alloggiando nello stesso albergo, si realizzava tra le
parti un’assidua comunanza di vita.
§
In base alla sentenza del
23 ottobre 2001 n.13033, il danno da dequalificazione professionale
non necessita di prove di pregiudizio economico è in re ipsa immanente
alla lesione del bene della professionalità e dell’immagine, con
conseguente obbligo risarcitorio. Il demansionamento professionale di un
lavoratore non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 cod.
civ., ma da luogo ad una pluralità di pregiudizi solo in parte incidenti
sulla potenzialità economica del dipendente, e costituisce anche lesione
del diritto fondamentale alla libera esplicazione della propria
personalità nel luogo di lavoro, con la conseguenza che al pregiudizio
correlato a tale lesione, che incide sulla vita professionale e di
relazione dell’interessato, va riconosciuta un’indubbia dimensione
patrimoniale, che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione
anche equitativa, pure nell’ipotesi in cui venga a mancare la
dimostrazione di un effettivo pregiudizio patrimoniale, secondo quanto
previsto dall’art. 1226 cod. civ. Va pertanto condivisa la decisione del
Tribunale, in riforma di quella pretorile che mentre aveva ordinato la
reintegrazione nelle mansioni originarie aveva negato il risarcimento
del danno da dequalificazione per supposta mancanza di prove di
pregiudizio economico al riguardo, il quale ha stabilito a favore del
ricorrente una somma specifica, a risarcimento del danno alla
professionalità. Infatti il Tribunale ha sostenuto non solo la
sussistenza della lamentata dequalificazione, ma anche la
configurabilità di una lesione per effetto della stessa; atteso che
detta lesione al patrimonio professionale e di immagine per effetto del
demansionamento è da ritenere in re ipsa, sicché sussistendo
automaticamente il presupposto dell’an debeatur, la liquidazione
equitativa del conseguente danno cagionato al lavoratore ben poteva
essere effettuata dal giudice di merito.
§
Così nella
sentenza del 2 gennaio 2002, n. 10, il comportamento del datore
di lavoro che lascia un lavoratore in condizioni di inattività per
lunghissimo tempo, non solo viola la norma di cui all’art. 2103 c.c., ma
lede il fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di
estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché
dell’immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente
mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della
qualifica di appartenenza. La dignità professionale del lavoratore,
intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le
proprie capacità nel contesto lavorativo, è un bene immateriale per
eccellenza e la sua lesione produce automaticamente un danno, non
economico, ma comunque rilevante sul piano patrimoniale, per la sua
attinenza agli interessi personali del lavoratore, determinabile
necessariamente solo in via equitativa.
§
Con la
sentenza del 15 gennaio 2004, n.515, la Corte di Cassazione ha
rinviato alla Corte di Appello la sentenza che rigettava il ricorso di
una dattilografa, demansionata e sottoposta a pressione psicologica, che
in un momento transitorio di grave turbamento aveva rimesso le proprie
dimissioni dal posto di lavoro. La Corte ha ribadito che dovevano essere
valutate più attentamente le condizioni della lavoratrice per rilevare
la sussistenza di una incapacità ex 428 cc., anche se temporanea e
desumibile da indizi e circostanze: difatti, perché sia ravvisabile una
situazione di incapacità di intendere e di volere non è necessaria la
totale esclusione della capacità psichica e volitiva del soggetto
agente, essendo sufficiente invece che questi, al compimento dell’atto,
si trovi in uno stato di turbamento psichico tale da impedirgli di
apprezzare l’importanza dell’atto medesimo e di liberamente determinarsi
al suo compimento. Infine la Cassazione sottolinea che lo stato di
incapacità di intendere e di volere può essere provato in modo indiretto
in base ad indizi e presunzioni, che anche da soli possono essere
decisivi ai fini della sua configurabilità.
8. Le
sentenze della Corte Costituzionale
In materia di mobbing, la
Corte Costituzionale ha pronunciato tre sentenze: sentenza del 2000 n.
459; la n. 359 del 2003; infine la sentenza n.113 del 2004. Con
quest’ultima importante decisione, il credito da mobbing è ora
considerato un credito privilegiato. Infatti, il lavoratore
dipendente, al quale sia stato riconosciuto, con una decisione
giudiziale, un credito per demansionamento, può ora farlo valere nel
giudizio di esecuzione nei confronti del datore di lavoro come
credito privilegiato e non più come credito chirografario.
Nel caso in esame, il
giudice delegato del fallimento di una azienda in crisi irreversibile
aveva ammesso il credito al passivo in via chirografaria, negando il
privilegio, perché non previsto dall’art. 2571 bis c.c., per il
risarcimento del danno da demansionamento. Il lavoratore aveva impugnato
la decisione proponendo opposizione allo stato passivo. Nel giudizio che
ne è seguito il Tribunale di Ferrara, con ordinanza del gennaio 2003 ha
sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, cioè al
principio di eguaglianza, la questione di legittimità costituzionale
parziale dell’art. 2751 bis n.1 cod. civ.; il quale prevede il
privilegio generale sui mobili per i crediti riguardanti:
”le retribuzioni dovute,
sotto qualsiasi forma, ai prestatori di lavoro subordinato e tutte le
indennità dovute per effetto della cessazione del rapporto di lavoro,
nonché il credito del lavoratore per i danni conseguenti alla danni
conseguenti alla mancata corresponsione, da parte del datore di lavoro,
dei contributi previdenziali ed assicurativi obbligatori ed il credito
per il risarcimento del danno subito per effetto di un licenziamento
inefficace, nullo o annullabile.”
Con
l’ordinanza, il Tribunale di Ferrara ha ritenuto dovesse riconoscersi la
possibilità di ampliare le ragioni di garanzia a favore del
creditore-prestatore di lavoro, in presenza di talune circostanze
oggettive e in deroga al principio della par condicio creditorum.
Il
tribunale di Ferrara prima, e la Corte Costituzionale poi, hanno dunque
ritenuto che questo fosse in contrasto con il principio della parità di
trattamento e di eguaglianza di fronte alla legge di cui all'art.3 della
Costituzione.
La Consulta ha ritenuto che
anche per la questione del lavoratore "demansionato" si deve fare
riferimento analogico alle altre fattispecie già ritenute tutelabili in
via "privilegiata".
Il danno da
demansionamento-mobbng è stato dunque considerato alla pari di
quelli derivanti da infortunio, o da licenziamento inefficace, o da
mancata corresponsione dei contributi. L'incostituzionalità dell'art.
2751-bis, numero 1, del codice civile, riguarda dunque anche la mancata
previsione del danno di cui sopra, rendendo necessaria una modifica del
testo di legge con la sua inclusione tra i motivi di privilegio
generale.
9. I
reati ipotizzabili
I reati
che possono concretizzarsi in seguito ad azioni che integrano il mobbing
sono:
§
art. 582 C.P. – Lesioni personali
Chiunque
cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia
nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre mesi a tre
anni.
Se la
malattia ha una durata non superiore ai venti giorni e non concorre
alcuna delle circostanze aggravanti previste negli artt. 583 e 585, ad
eccezione di quelle indicate nel n. 1 e nell'ultima parte dell'articolo
577, il delitto è punibile a querela della persona offesa.
Circostanze aggravanti –
La
lesione personale è grave, e si applica la reclusione da tre a sette
anni:
1) se
dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della
persona offesa, ovvero una malattia o un'incapacità di attendere alle
ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni;
2) se il
fatto produce l'indebolimento permanente di un senso o di un organo;
3) se la
persona offesa è una donna incinta e dal fatto deriva l'acceleramento
del parto.
La
lesione personale è gravissima, e si applica la reclusione da sei a
dodici anni, se dal fatto deriva:
1) una
malattia certamente o probabilmente insanabile;
2) la
perdita di un senso;
3) la perdita di un arto, o
una mutilazione che renda l'arto inservibile, ovvero la perdita dell'uso
di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e
grave difficoltà della favella;
4) la
deformazione, ovvero lo sfregio permanente del viso;
5) l'aborto della persona
offesa.
§
art. 590 C.P. – Lesioni personali colpose
Chiunque
cagiona ad altri, per colpa, una lesione personale è punito con la
reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a € 309,87.
Se la
lesione è grave la pena è della reclusione da uno a sei mesi o della
multa da € 129,11 a 619,75; se è gravissima, della reclusione da tre
mesi a due anni o della multa da € 309,87 a 1239,5.
Se i
fatti di cui al precedente capoverso sono commessi con violazione delle
norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la
prevenzione degli infortuni sul lavoro, la pena per le lesioni gravi è
della reclusione da due a sei mesi o della multa da € 248 a € 619,74; e
la pena per lesioni gravissime è della reclusione da sei mesi a due anni
o della multa da € 619,74 a € 1239,50.
Nel caso
di lesioni di più persone si applica la pena che dovrebbe infliggersi
per la più grave delle violazioni commesse, aumentata fino al triplo; ma
la pena della reclusione non può superare gli anni cinque.
Il
delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo nei casi
previsti nel primo e secondo capoverso, limitatamente ai fatti commessi
con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro
o relative all'igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia
professionale.
§
art 594. C.P. – Ingiurie
Chiunque
offende l'onore o il decoro di una persona presente è punito con la
reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a € 516,46.
Alla
stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione
telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona
offesa.
La pena
è della reclusione fino a un anno o della multa fino a € 1032,91, se
l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato.
Le pene
sono aumentate qualora l'offesa sia commessa in presenza di più persone.
§
art.595 C.P. – Diffamazione
Chiunque, fuori dei casi
indicati nell'articolo precedente, comunicando con più persone, offende
l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la
multa fino a € 1032,91.
Se
l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è
della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a € 2065,83.
Se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo
di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da
sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a € 516,46.
Se
l'offesa è recata ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o
ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le
pene sono aumentate.
§
art. 599 C.P. – Ritorsione o provocazione
Nei casi
preveduti dall'articolo 594, se le offese sono reciproche, il giudice
può dichiarare non punibili uno o entrambi gli offensori.
Non è
punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 594 e
595 nello stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito
dopo di esso.
La
disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche
all'offensore che non abbia proposto querela per le offese ricevute.
§
art. 610 C.P. – Violenza privata
Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od
omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni.
La pena
è aumentata se concorrono le condizioni prevedute dall'articolo 339.
Art. 339
Circostanze aggravanti -
Le pene
stabilite nei tre articoli precedenti sono aumentate se la violenza o la
minaccia è commessa con armi, o da persona travisata, o da più persone
riunite, o con scritto anonimo, o in modo simbolico, o valendosi della
forza intimidatrice derivante da segrete associazioni, esistenti o
supposte.
Se la
violenza o la minaccia è commessa da più di cinque persone riunite,
mediante uso di armi anche soltanto da parte di una di esse, ovvero da
più di dieci persone, pur senza uso di armi, la pena è, nei casi
preveduti dalla prima parte dell'articolo 336 e dagli articoli 337 e
338, della reclusione da tre a quindici anni, e, nel caso preveduto dal
capoverso dell'articolo 336, della reclusione da due a otto anni.
§
art. 611 C.P. – Violenza o minaccia per costringere a commettere un
reato
Chiunque
usa violenza o minaccia per costringere o determinare altri a commettere
un fatto costituente reato è punito con la reclusione fino a cinque
anni.
La pena
è aumentata se concorrono le condizioni prevedute dall'articolo 339.
§
art. 612 C.P. – Minaccia
Chiunque
minaccia ad altri un ingiusto danno è punito, a querela della persona
offesa, con la multa fino a € 51,64.
Se la
minaccia è grave, o è fatta in uno dei modi indicati nell'articolo 339,
la pena è della reclusione fino a un anno e si procede d'ufficio.
§
art. 613 C.P. – Stato di incapacità provocata mediante violenza
Chiunque, mediante suggestione ipnotica o in veglia o mediante
somministrazione di sostanze alcooliche o stupefacenti, o con qualsiasi
altro mezzo, pone una persona, senza il consenso di lei, in stato
d'incapacità d'intendere o di volere, è punito con la reclusione fino a
un anno.
Il
consenso dato dalle persone indicate nell'ultimo capoverso dell'articolo
579 non esclude la punibilità.
La pena
è della reclusione fino a cinque anni:
1) se il
colpevole ha agito col fine di far commettere un reato;
2) se la
persona resa incapace commette, in tale stato, un fatto preveduto dalla
legge come delitto.
§
art. 616 C.P. - Violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza
Chiunque
prende cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa, a lui non
diretta, ovvero sottrae o distrae, al fine di prendere o di farne da
altri prendere cognizione, una corrispondenza chiusa o aperta, a lui non
diretta, ovvero, in tutto o in parte, la distrugge o sopprime, è punito,
se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge,
con la reclusione fino a un anno o con la multa da € 30,98 a € 516,46.
Se il
colpevole, senza giusta causa, rivela, in tutto o in parte, il contenuto
della corrispondenza, è punito, se dal fatto deriva nocumento ed il
fatto medesimo non costituisce un più grave reato, con la reclusione
fino a tre anni.
Il
delitto è punibile a querela della persona offesa.
Agli
effetti delle disposizioni di questa sezione, per "corrispondenza" si
intende quella epistolare, telegrafica, telefonica, informatica o
telematica ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a
distanza.
§
art. 618 C.P. - Rivelazione del contenuto di corrispondenza
Chiunque, fuori dei casi preveduti dall'articolo 616, essendo venuto
abusivamente a cognizione del contenuto di una corrispondenza a lui non
diretta, che doveva rimanere segreta, senza giusta causa lo rivela, in
tutto o in parte, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la
reclusione fino a sei mesi o con la multa da € 103,29 a € 516,46.
Il
delitto è punibile a querela
§
art. 624 C.P. - Furto
Chiunque
si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene,
al fine di trarne profitto per sè o per altri è punito con la reclusione
fino a tre anni e con la multa da € 30,98 a un € 516,46.
Agli
effetti della legge penale, si considera "cosa mobile" anche l'energia
elettrica e ogni altra energia che abbia valore economico.
§
art. 627 C.P. - Sottrazione di cose comuni
Il comproprietario, socio o
coerede che, per procurare a sé o ad altri un profitto, s'impossessa
della cosa comune, sottraendola a chi la detiene, è punito, a querela
della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa
da € 20,66 a € 206,59.
Non è
punibile chi commette il fatto su cose fungibili, se il valore di esse
non eccede la quota a lui spettante.
§
art. 629 C P.- Estorsione
Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad
omettere qualche cosa, procura a sè o ad altri un ingiusto profitto con
altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la
multa da € 516,46 a € 2065,83.
La
pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da lire due
milioni a lire sei milioni, se concorre taluna delle circostanze
indicate nell'ultimo capoverso dell'articolo precedente.
§
art. 635 C.P. – Danneggiamento
Chiunque
distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili
cose mobili o immobili altrui è punito, a querela della persona offesa
con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a € 309,88.
La pena
è della reclusione da sei mesi a tre anni e si procede d'ufficio, se il
fatto è commesso:
1) con
violenza alla persona o con minaccia;
2) da
datori di lavoro in occasione di serrate, o da lavoratori in occasione
di sciopero, ovvero in occasione di alcuno dei delitti preveduti dagli
artt. 330, 331 e 333 (1);
3) su
edifici pubblici o destinati a uso pubblico all'esercizio di un culto, o
su altre delle cose indicate nel n. 7 dell'articolo 625;
4) sopra
opere destinate all'irrigazione;
5) sopra
piante di viti, di alberi o arbusti fruttiferi, o su boschi, selve o
foreste, ovvero su vivai forestali destinati al rimboschimento.
(1) Con
sentenza n. 119 del 6 luglio 1970 la Corte Cost. ha dichiarato
l'illegittimità del secondo comma di questo articolo nella parte in cui
prevede come circostanza aggravante e come causa di procedibilità
d'ufficio il fatto che il reato sia commesso da lavoratori in occasione
di sciopero e da datori di lavoro in occasione di serrata.
Art. 635 bis
-
Danneggiamento di sistemi informatici e telematici -
Chiunque
distrugge, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili sistemi
informatici o telematici altrui, ovvero programmi, informazioni o dati
altrui, è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la
reclusione da sei mesi a tre anni.
Se ricorre una o più delle
circostanze di cui al secondo comma dell'articolo 635, ovvero se il
fatto è commesso con abuso della qualità di operatore del sistema, la
pena è della reclusione da uno a quattro anni.
§
art. 660 C.P. - Molestia o disturbo alle persone
Chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del
telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno
molestia o disturbo è punito con l'arresto fino a sei mesi o con
l'ammenda fino a € 516,46.
Se il
mobber è un pubblico dipendente ed il mobbing è diretto verso un
pubblico dipendente, ai
precedenti reati possono aggiungersi i seguenti:
§
art. 323 C.P. – Abuso d’ufficio
Salvo
che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o
l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni
o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero
omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un
prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente
procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca
ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei mesi a tre
anni.
La
pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un
carattere di rilevante gravità.
§
art.
328 C.P. – Omissione d’atti d’ufficio
Il
pubblico ufficiale o l'incaricato del pubblico servizio, che
indebitamente rifiuta un atto dell'ufficio che, per ragioni di giustizia
o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve
essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a
due anni. Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale
o l'incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla
richiesta di chi vi abbia interesse non compie l'atto del suo ufficio e
non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la
reclusione fino ad un anno o con la multa fino a € 1032,91. Tale
richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta
giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa
§
art.
331 C.P. – Interruzione di pubblico servizio o di pubblica necessità
Chi,
esercitando imprese di servizi pubblici o di pubblica necessità,
interrompe il servizio, ovvero sospende il lavoro nei suoi stabilimenti,
uffici o aziende, in modo da turbare la regolarità del servizio, è
punito con la reclusione da sei mesi a un anno e con la multa non
inferiore a € 516,45.
I capi,
promotori od organizzatori sono puniti con la reclusione da tre a sette
anni e con la multa non inferiore a € 3098,74.
Si
applica la disposizione dell'ultimo capoverso dell'articolo precedente.
§
art.
336 C.P. – Violenza o minaccia a pubblico ufficiale o incaricato di
pubblico servizio
Chiunque
usa violenza a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico
servizio, per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri, o
ad omettere un atto dell'ufficio o del servizio, è punito con la
reclusione da sei mesi a cinque anni.
La pena
è della reclusione fino a tre anni, se il fatto è commesso per
costringere alcuna delle persone anzidette a compiere un atto del
proprio ufficio o servizio, o per influire, comunque, su di essa.
§
art.
340 C.P. – Interruzione di ufficio o servizio pubblico o servizio di
pubblica necessità
Chiunque, fuori dei casi preveduti da particolari disposizioni di legge,
cagiona una interruzione o turba la regolarità di un ufficio o servizio
pubblico o di un servizio di pubblica necessità, è punito con la
reclusione fino a un anno.
I capi, o promotori od
organizzatori sono puniti con la reclusione da uno a cinque anni.
§
art.
344 C.P. – Oltraggio a pubblico impiegato
Le
disposizioni dell'articolo 341 si applicano anche nel caso in cui
l'offesa è recata a un pubblico impiegato che presti un pubblico
servizio; ma la pene sono ridotte di un terzo.
§
art.
374 bis C.P. – False dichiarazioni o attestazioni in atti destinati
all’A.G.
Salvo
che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da
uno a cinque anni chiunque dichiara o attesta falsamente in certificati
o atti destinati a essere prodotti all'autorità giudiziaria condizioni,
qualità personali, trattamenti terapeutici, rapporti di lavoro in essere
o da instaurare, relativi all'imputato, al condannato o alla persona
sottoposta a procedimento di prevenzione.
Si
applica la pena della reclusione da due a sei anni se il fatto è
commesso da un pubblico ufficiale, da un incaricato di un pubblico
servizio o da un esercente la professione sanitaria.
9.1
Il mobbing: una nuova figura di reato
Se si
volesse ipotizzare il mobbing come una nuova figura di reato, la sua
possibile qualificazione dovrebbe vedere in questa fattispecie un reato
di evento, nel senso che può parlarsi di una concreta praticabilità
della tutela penalistica solo se ed in quanto si sia verificato l’evento
del soggetto passivo che si ammali di mobbing.
L’opera
di ricostruzione degli elementi costitutivi della nuova
fattispecie criminosa si rivela però quanto mai ardua, vista l’assenza
di specifiche parallele figure di reato nella attuale legislazione
vigente, sia pure di carattere contravvenzionale a carico del datore di
lavoro, per le condotte di vessazione morale e di dequalificazione
professionale da lui poste in essere nell’ambiente di lavoro in danno
del lavoratore.
A quanto
sin qui rilevato vanno poi aggiunte le enormi difficoltà di accertamento
probatorio degli effetti sul soggetto passivo. Quest'ultimo perde
gradatamente la stima professionale di sé e la motivazione al lavoro nel
contesto socio-ambientale di riferimento e, se non traduce l’aggressione
alla sfera psichica in una menomazione della propria integrità
psico-fisica, vede in ogni caso compromessa la sua capacità di
autoprotezione personale, che è una delle componenti essenziali per dare
vita ad un efficace sistema di sicurezza del lavoro.
C'è dunque il serio rischio
di arrivare al paradosso di imputare sul piano giuridico al lavoratore
mobbizzato le conseguenze di ciò che lui stesso subisce sul piano
materiale per effetto della condotta di vessazione morale e psichica cui
è assoggettato da parte delle gerarchie aziendali.
10. La circolare INAIL
Una
importante novità è rappresentata dal fatto che anche l' INAIL
ha cominciato a considerare il mobbing come malattia
professionale. Infatti è stato inserito nella categoria delle
malattie professionali non tabellari, cioè non comprese nelle
tabelle. Quindi il lavoratore potrà chiedere il risarcimento del danno
anche al suddetto Istituto. L’INAIL, con una circolare in cui formula i
principi e le istruzioni per garantire omogeneità nella trattazione
delle pratiche, dà infatti il via libera al risarcimento danni da
mobbing sul lavoro. Rientrano nel rischio tutelato dall'Ente, il cd.
danno biologico, tutte le situazioni di cd.
"costrittività organizzativa"; come lo svuotamento delle mansioni; il
prolungato, sistematico e
strutturale diniego all'accesso di informazioni inerenti
all'ordinaria attività lavorativa; l'esercizio esasperato di forme di
controllo; la prolungata attribuzione di compiti e mansioni
dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto ecc.; nonché
il cd. mobbing strategico.
Con
lettera del 12 settembre 2001
della Direzione Centrale Prestazioni e della Sovrintendenza Medica
Generale: “Malattie psichiche e psicosomatiche da stress
e disagio lavorativo, compreso il mobbing. Prime indicazioni operative”,
sono state fornite le prime
istruzioni per la trattazione delle denunce di disturbi
psichici determinati dalle condizioni organizzativo/ambientali di lavoro
ed è stato disposto che, data l’esigenza di acquisire un adeguato
patrimonio di informazioni e conoscenze sulla materia, tutte le
fattispecie con documentazione completa e probante fossero inviate
all’esame centrale.
L’esame
degli oltre 200 casi pervenuti
(denunciati all’Inail quasi sempre dopo accertamenti e trattamenti
terapeutici) ha consentito di monitorare il fenomeno e di conoscere
l’approccio diagnostico dei vari centri specialistici nazionali che
fanno capo a Cattedre Universitarie, Ospedali, Ambulatori e Centri di
Salute Mentale delle AA.SS.LL. operanti sul territorio.
L‘accertamento del rischio, effettuato sulla base della denuncia di
malattia professionale, integrata ove necessario da richieste specifiche
ai datori di lavoro e dai risultati di incarichi ispettivi mirati,
nonché le ulteriori indagini cliniche specialistiche eseguite, hanno
condotto al riconoscimento della natura professionale della patologia
diagnosticata nel 15 % circa dei casi esaminati.
La posizione assunta
dall’Istituto sul tema delle patologie psichiche determinate dalle
condizioni organizzativo/ambientali di lavoro trova il suo fondamento
giuridico nella Sentenza della Corte Costituzionale n. 179/1988 e nel
Decreto Legislativo n. 38/2000 (art. 10, comma 4), in base ai quali sono
malattie professionali, non solo quelle elencate nelle apposite Tabelle
di legge, ma anche tutte le altre di cui sia dimostrata la causa
lavorativa.
Secondo
un’interpretazione aderente all’evoluzione delle forme di organizzazione
dei processi produttivi ed alla crescente attenzione ai profili di
sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, la nozione di causa lavorativa
consente di ricomprendere
non solo la nocività delle lavorazioni in cui si sviluppa il ciclo
produttivo aziendale, siano esse tabellate o non,
ma anche quella
riconducibile all’organizzazione aziendale delle attività lavorative.
I disturbi psichici quindi
possono essere considerati di origine professionale solo se sono
causati, o concausati in modo prevalente, da specifiche e particolari
condizioni dell’attività e della organizzazione del lavoro.
Si ritiene che tali
condizioni ricorrano esclusivamente in presenza di situazioni di
incongruenza delle scelte in ambito organizzativo, situazioni definibili
con l’espressione “costrittività organizzativa”.
Le
situazioni di
“costrittività organizzativa”
più ricorrenti
sono:
§
la
marginalizzazione dell’attività lavorativa;
§
lo
svuotamento delle mansioni; la mancata assegnazione dei compiti
lavorativi, con inattività forzata;
§
la mancata
assegnazione degli strumenti di lavoro; ripetuti trasferimenti
ingiustificati;
§
prolungata
attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale
posseduto;
§
prolungata
attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione a
eventuali condizioni di handicap psicofisici;
§
impedimento sistematico e strutturale nell’accesso a notizie;
inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti
l’ordinaria attività di lavoro;
§
esclusione
reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di
riqualificazione e aggiornamento professionale;
§
esercizio
esasperato ed eccessivo di forme di controllo.
Nel
rischio tutelato può essere compreso anche il cosiddetto “mobbing
strategico” specificamente ricollegabile a finalità lavorative. Si
ribadisce tuttavia che le azioni finalizzate ad allontanare o emarginare
il lavoratore rivestono rilevanza assicurativa solo se si concretizzano
in una delle situazioni di “costrittività organizzativa” di cui
all’elenco sopra riportato o in altre ad esse assimilabili.
Le
incongruenze organizzative, inoltre, devono avere caratteristiche
strutturali, durature ed oggettive e, come tali, verificabili e
documentabili tramite riscontri altrettanto oggettivi e non suscettibili
di discrezionalità interpretativa.
Come per
tutte le altre malattie non tabellate, l’assicurato ha l’obbligo di
produrre la documentazione idonea a supportare la propria richiesta per
quanto concerne sia il rischio sia la malattia. L’Istituto, da parte
sua, ha il potere-dovere di verificare l’esistenza dei presupposti dell’
asserito diritto, anche mediante l’impegno partecipativo nella
ricostruzione degli elementi probatori del nesso eziologico.
L’esperienza fin qui maturata ha dimostrato che non sempre sono
producibili dall’assicurato, o acquisibili dall’Istituto, prove
documentali sufficienti. È perciò necessario procedere ad
indagini ispettive per
raccogliere le prove testimoniali dei colleghi di lavoro, del datore di
lavoro, del responsabile dei servizi di prevenzione e protezione delle
aziende e di ogni persona informata sui fatti allo scopo di
acquisire riscontri oggettivi
di quanto dichiarato dall’assicurato e di
integrare gli elementi probatori
prodotti dall’assicurato.
Ulteriori elementi potranno essere attinti dall’eventuale accertamento
dei fatti esperito in sede giudiziale o in sede di vigilanza ispettiva
da parte della Direzione Provinciale del Lavoro o dei competenti uffici
delle AA.SS.LL..
Come per
tutte le altre malattie professionali, l’indagine ispettiva mirata ad
acquisire i riscontri oggettivi nonché gli eventuali elementi
integrativi di quanto asserito e prodotto dall’assicurato dovrà essere
attivata su richiesta della funzione sanitaria, che provvederà anche ad
indicare gli specifici aspetti da indagare.
Diversamente invece dalle
altre malattie professionali, per le quali l’intervento ispettivo è
previsto solo se necessario, per le patologie in oggetto l’indagine
ispettiva deve essere sempre effettuata. Fanno ovviamente eccezione le
ipotesi in cui la funzione sanitaria, già al termine della prima fase
istruttoria, giunge alla definizione negativa del caso, per l’assenza
della malattia o per la certezza della esclusione della sua origine
professionale.
11.Conclusioni
Relazioni interpersonali difficili a causa dell'ambiguità di ruoli e
mansioni o di un'organizzazione del lavoro non curata, mancata
valorizzazione di competenze e abilità, sovraccarico o sottocarico
lavorativo, cultura aziendale improntata sull'esasperazione gerarchica e
sulla competitività interpersonale, sulla riduzione dei costi e
l'aumento della produttività e dei profitti senza badare alla qualità
del prodotto, del servizio e del lavoro, mancanza di risorse,
fasi di pesante riorganizzazione aziendale, come fusioni,
ristrutturazioni, ecc., trascuratezza e incapacità ad affrontare e
risolvere tempestivamente i problemi;
gli
ambienti di lavoro che si dovessero caratterizzare per la presenze delle
fattispecie appena elencate saranno ambienti a forte rischio mobbing.
In questi ambienti potranno prendere
corpo atti e comportamenti aggressivi, persecutori, offesivi da parte di
qualcuno verso qualcun altro senza che nessuno intervenga.
Se questo nuovo rischio
lavorativo non sarà
tempestivamente individuato
e
riconosciuto e quindi prevenuto e
contrastato adeguatamente potrà provocare danni e conseguenze
pesanti, a volte irreversibili, alla dignità e alla salute fisica e
mentale delle persone coinvolte, danni economici e d'immagine
all'azienda che li tollera, costi umani, sociali ed economici fuori del
posto di lavoro.
E’ necessario adottare un
approccio globale al fenomeno del mobbing. Per una sua corretta
valutazione è indispensabile analizzare il contesto socioculturale e
lavorativo in cui si collocano i singoli episodi ed anche i diversi
punti di vista dei soggetti coinvolti.
Quest'approccio globale è la premessa necessaria per raggiungere un
consenso sulla portata del problema, sulla genesi dei singoli episodi e
sulle misure da adottare per porvi rimedio.
Tutto
ciò per capire le molteplici sfaccettature del fenomeno e, quindi, anche
per individuare quali soggetti devono attivarsi, a quali livelli, e
quali strumenti o servizi possono essere offerti per una efficace
prevenzione del fenomeno.
Per individuare la complessità del problema basta fare un semplice
elenco dei principali soggetti potenzialmente coinvolti: l’aggressore,
la vittima, i
colleghi, il
rappresentante per la sicurezza, il delegato sindacale, il sindacato
esterno, la famiglia, ecc..
E' quasi
banale constatare che se il fenomeno mobbing o i singoli casi vengono
osservati dal punto di vista di ciascuno di questi soggetti, con ogni
probabilità emergeranno molteplici e contrastanti definizioni dello
stesso.
Al
sindacato in questo momento dovrebbe interessare far conoscere il
proprio punto di vista e confrontarlo con quello degli altri soggetti,
in particolare con quello delle aziende, che purtroppo però sono le
grandi assenti nelle molte occasioni di dibattito pubblico.
L'arma migliore,
dopo un'opportuna azione di sensibilizzazione e formazione dei propri
dirigenti e delegati, in particolare modo dei
rappresentanti dei lavoratori per la
sicurezza,
resta infatti il confronto con le aziende finalizzato all'adozione di
sistemi o codici
per la prevenzione e gestione delle molestie morali che insorgono a
causa del lavoro.
Per chi
intende tutelare i diritti dei lavoratori, il mobbing è violenza e, in
quanto tale, illecita, sempre, anche a prescindere dalle caratteristiche
del bersaglio e dal contesto organizzativo in cui nasce. Subito dopo
però va detto che per il sindacato la sola e concreta soluzione del
problema sta proprio nell'analisi accurata dei fattori interni alle
organizzazioni che di volta in volta scatenano il mobbing.
Il
sindacato non può permettersi di attendere la legge per agire. Le basi
giuridiche per un intervento ci sono già.
Basti solo pensare all'art.
2087 del codice civile e all'impianto generale del D.lgs 626/94, quando
stabilisce che il datore di lavoro deve adattare il lavoro all'uomo e
non viceversa, deve valutare ogni rischio per la salute e sicurezza e
adottare misure di prevenzione efficaci, insieme ai lavoratori e ai loro
rappresentanti per la sicurezza e utilizzando il Servizio di prevenzione
e protezione e il medico competente.
Ciò
detto è evidente che il sindacato in azienda può fare molto a tutela dei
diritti dei lavoratori semplicemente imparando ad utilizzare spazi,
regole e poteri di consultazione, contrattuali e legislativi che già ci
sono.
Sarebbe così ideale seguire
dei passaggi obbligati quando si presenta un caso di mobbing:
1.
se nell'azienda c’è il
sindacato, l’interessato dovrebbe rivolgersi prima di tutto al
Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza o, in sua assenza, alla
Rsu o Rsa. L'obiettivo assegnato al delegato è aprire un confronto con
l'azienda che porti ad analizzare il caso con l'ausilio del Servizio di
prevenzione e di protezione e del medico competente, individuando e
rimuovendo così le cause che l'hanno provocato; ovviamente se le cause
sono interne all'organizzazione;
2.
Se i delegati aziendali non riescono ad aprire un
confronto serio con l’azienda per bloccare il mobbing, a volte perché
non si sentono preparati ad affrontare queste tematiche, a volte per
indisponibilità della controparte, allora occorre investire del problema
il sindacato esterno, di categoria in primo luogo, fino a giungere, se
necessario, al sindacato nazionale se si tratta di grandi aziende
pubbliche o private con più unità produttive distribuite sul territorio
nazionale. L'obiettivo in quest'ultimo caso potrebbe andare oltre la
soluzione del singolo caso e acquisire una più vasta portata. Si
potrebbe ad esempio valutare insieme alla controparte datoriale
l'incidenza del fenomeno nelle aziende del gruppo e in relazione a
questa decidere di adottare veri e propri codici di comportamento
anti-mobbing da allegare ai contratti nazionali o aziendali.
3.
Se il confronto sindacato-azienda non dovesse dare esiti
soddisfacenti occorrerà purtroppo prendere in considerazione la strada
della denuncia e quindi della vertenza legale, allertando gli Uffici
vertenze di categoria o confederali che il sindacato mette a
disposizione dei propri iscritti curando la loro sensibilizzazione sul
problema.
Durante tutto questo
percorso, infine, il sindacato deve coltivare e sviluppare nei propri
terminali, siano essi funzionari dirigenti e delegati, sportelli o
uffici vertenze; la capacità di ascolto, di valutazione dell'
attendibilità dei ricorrenti e di orientamento, se necessario, verso
Servizi di diagnosi e sostegno psicologico presenti nel territorio.
Sarebbe
indispensabile anche esercitare una pressione sulle istituzioni affinché
sia garantito il diritto costituzionale alla salute tramite la
promozione di un sistema di servizi sanitari, sempre più capaci di
interpretare e rispondere anche alle richieste ed esigenze che emergono
dai posti di lavoro.
Questa è per sommi capi la
linea di comportamento che il sindacato dovrebbe portare avanti. Non
tutte le categorie, i delegati e gli stessi responsabili della sicurezza
sono però oggi in grado di affrontare correttamente questa tematica così
ostica e complessa. Per contrastarla concretamente servirà del tempo.
FONTI
SENTENZE
DEI TRIBUNALI
Tribunale Torino, sezione lavoro, 16-10-1999
Tribunale Torino, sezione lavoro, 11-12-1999
Tribunale Torino, sezione lavoro, 30-12-1999.
Tribunale Milano, sezione lavoro, 26-04-2000
Tribunale Milano, sezione lavoro, 20-05-2000
Tribunale Pisa, sezione lavoro, 27-06-2000
Tribunale Lecce, sezione lavoro, 20-07-2000
Tribunale Bari, sezione lavoro, 29-09-2000
Tribunale Milano, sezione lavoro, 19-12-2000
Tribunale Forlì, sezione lavoro, 23-02-2001
Tribunale Pisa, sezione lavoro, 27-02-2001
Tribunale Milano, sezione lavoro, 15-03-2001
Tribunale Forlì, sezione lavoro, 15-03-2001, n. 1234
Tribunale Milano, sezione lavoro, I grado, 16-03-2001
Tribunale Milano, sezione lavoro, 26-04-2001
Tribunale Milano, sezione lavoro, 04-05-2001
Tribunale Como, sentenza 22-05-2001
Tribunale Milano, sezione lavoro, 14-06-2001
Tribunale di Roma, sezione lavoro, 21 giugno 2001
Tribunale Pisa, sezione lavoro, 13-07-2001
Tribunale Lecce, sezione lavoro, 20-07-2001.
Tribunale Torino, sezione lavoro, 10-08-2001
Tribunale Pisa, sezione lavoro, 23-08-2001
Tribunale Lecce, sezione lavoro, 23-08-2001.
Tribunale Bari, sezione lavoro, 29-09-2001.
Tribunale Pisa, sezione lavoro, 03-10-2001
Tribunale di Roma, sezione lavoro, 9 ottobre 2001
Tribunale Torino, sezione lavoro, 06-10-2001.
Tribunale Milano, sezione lavoro, 19-12-2001.
Tribunale Pisa, sezione lavoro, 19-12-2001.
Tribunale Taranto, sezione lavoro, sentenza 7-12-2001, n. 2948/2001.
Tribunale di Lecce, sezione lavoro, 02 maggio 2002.
Tribunale Napoli, sezione lavoro, 03-05-2002
Tribunale di Roma, sezione lavoro, 16 agosto 2002
Tribunale Lecce, sezione lavoro, 29-11-2002
Tribunale di Siena, sezione lavoro, 13 dicembre 2002
Tribunale di Torino, sezione lavoro, 18 dicembre 2002
Tribunale Venezia, sezione lavoro, 15-01-2003
Tribunale di Sulmona, sezione lavoro, 27 gennaio 2003
Tribunale di Forlì, sentenza lavoro, 30 gennaio 2003
Tribunale di Tempio Pausania, sezione lavoro, 10 luglio 2003
Tribunale Trieste, sezione lavoro, 23-09-2003
Tribunale Marsala, sezione lavoro, 13-11-2003
Tribunale Pinerolo, sezione lavoro, 02-04-2004, n. 119
SENTENZE
CORTE COSTITUZIONALE
Sentenza
2-11-2000 n. 459
Sentenza
359/2003
Sentenza
06-04-2004 n. 113
SENTENZE
CORTE DI CASSAZIONE
Sentenza
10-11-1999 n. 12492
Sentenza
19-11-1999 n. 12903
Sentenza
5491/2000
Sentenza
143/2000
Sentenza
02-01-2002 n. 10
Sentenza
15-01-2004 n. 515
Sentenza
04-05-2004 n.8438
SENTENZE
CORTE D’APPELLO
Bari,
31/01/2002
FONTI TELEMATICHE
http://www.cgil.it/saluteesicurezza
http://www.dirittolavoro.altervista.org
http://www.ecn.org
http://www.fezzi.it
http://www.fpcgil.it/ufficio_giuridico
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http://www.governo.it/governoinforma/dossier/mobbing
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http://www.xoomer.virgilio.it/abesal/reatiincasodimobbing.htm
http://www.unipd-org.iperv.it/pariopportunità/mobbing/mobbing.htm
http://www.uil.it/mobbing
http://www.unicam.it
“Mobbing
e spleen” di Silvia Bassino su
http://www.aidp.it
“La
sindrome da mobbing” di Pierguido Soprani su
http://www.promo.24oreprofessionali.ilsole24ore.com