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  • RICERCA DI: ORTOLANI CRISTINA

    UFFICIO VERTENZE E LEGALE CGIL PESARO

     

     

    IL FENOMENO DEL MOBBING

     

    1. Definizione

    La parola mobbing deriva dal verbo inglese “To mob” (assalire con violenza) preso in prestito dall’etologia, dove venne introdotto da Konrad Lorenz, che lo utilizzò per indicare il comportamento aggressivo di alcune specie di uccelli nei confronti dei loro contendenti che tentano di assalirne il nido.

    La prima persona che cominciò a studiare il mobbing, come violenza psicologica nel luogo di lavoro ed in quanto tale responsabile di patologie per chi lo subisce, è stata lo psicologo tedesco Heinz Leymann che nel 1986 illustrò in un libro le conseguenze, soprattutto sulla sfera neuro-psichica, di chi è esposto ad un comportamento ostile, protratto nel tempo, da parte di superiori o dei colleghi di lavoro.

    In realtà non esiste una definizione univoca di mobbing dal momento che, trattandosi di un fenomeno dalle molteplici sfaccettature, le definizioni in uso risentono dei particolari punti di vista di chi le esprime.

    Ci si può richiamare alla definizione lasciataci da Leymann il quale sostiene che “il terrore psicologico o mobbing lavorativo consiste in una comunicazione ostile e non etica diretta in maniera sistematica da parte di uno o più individui generalmente contro un singolo che, a causa del mobbing, è spinto in una posizione in cui è privo di appoggio e di difesa e lì costretto per mezzo di continue attività mobbizzanti. Queste azioni si verificano con una frequenza piuttosto alta, almeno una volta la settimana, e su un lungo periodo di tempo, con una durata di almeno sei mesi”.

    Dalla definizione del fondatore della disciplina emerge con chiarezza che si può correttamente parlare di mobbing quando siamo alla presenza di un requisito spaziale; il luogo di lavoro, e di un requisito temporale; le violenze psicologiche devono cioè essere regolari, sistematiche e durare nel tempo. 

    Il mobbing è così una forma di terrore psicologico che viene esercitato sul posto di lavoro attraverso attacchi ripetuti da parte dei colleghi o dei datori di lavoro.

    Le forme che esso può assumere sono molteplici: dalla semplice emarginazione alla diffusione di maldicenze, dalle continue critiche alla sistematica persecuzione, dall'assegnazione di compiti dequalificanti alla compromissione dell'immagine sociale nei confronti di clienti e superiori.

    Nei casi più gravi si può arrivare anche al sabotaggio del lavoro e ad azioni illegali.
    Lo scopo del mobbing è quello di eliminare una persona che è, o è divenuta, in qualche modo "scomoda", distruggendola psicologicamente e socialmente in modo da provocarne il licenziamento o da indurla alle dimissioni. Si tratta di una delle più diffuse e meno conosciute sindromi del nostro tempo.

    L'Italia è il Paese con il più basso numero di denunce, mentre il fenomeno è in pericoloso aumento tanto da essere considerato, in Svezia, un vero e proprio reato. Si stima che nel nostro Paese siano almeno un milione le persone sottoposte a questo tipo di vessazione.

    Si può individuare un mobbing orizzontale, dove la persona-bersaglio viene colpita dai colleghi di lavoro da feroci attacchi, continui e sistematici, tesi a screditare, denigrare, isolare, estromettere dal gruppo, colpire anche la dignità personale, la reputazione privata oltre che professionale. Le vittime, vinte dallo stress, dalla depressione, dall’ansia, dall’aggressività, da disturbi psicosomatici, sono costrette ad abbandonare il campo di battaglia, il posto di lavoro, soccombendo alla violenza psicologica degli assalitori, i cosiddetti mobbers.

    Quando invece il mobbing viene esercitato da un dirigente nei confronti di un dipendente, questa diversa situazione viene definita bossing o mobbing verticale: si tratta di una subdola strategia gestionale tesa ad ottenere le dimissioni, l’allontanamento del lavoratore divenuto scomodo o la contrazione del personale per motivi organizzativi aziendali.

    Il motivo principale della scarsa incidenza di mobbing è la mancanza di sufficienti strumenti per conoscerlo ed individuarlo. In Italia mancano purtroppo leggi in materia: una serie di proposte di legge sono state depositate alla Camera dei Deputati per portare alla luce, prevenire e combattere il mobbing.

    Solo oggi compaiono i primi studi. Le ricerche, svolte negli ultimi tempi, hanno evidenziato che le cause scatenanti dell’abuso psicologico perpetuato sul posto di lavoro vanno ben oltre le antipatie, le gelosie e le frustrazioni; infatti si è dimostrato che le cause del terrore psicologico sul posto di lavoro non riguardano esclusivamente i fattori caratteriali: si fa mobbing su una persona perché ci si sente surclassati ingiustamente o per gelosia, ma anche per costringerla a licenziarsi senza che si crei un caso sindacale. Esistono vere e proprie strategie aziendali messe in atto a questo scopo.

    Guardando il fenomeno più in profondità si è evidenziato un legame causale con i problemi legati all'occupazione e al ridimensionamento dell'organico.

    In particolare le ristrutturazioni delle aziende private e pubbliche, le fusioni tra società dello stesso settore generano forti conflittualità e competitività nell'ambiente di lavoro. Coloro che si trovano a svolgere le stesse mansioni entrano in conflitto fra loro fino all'eliminazione del più debole.

    La stessa evoluzione delle competenze professionali è fattore scatenante di atteggiamenti vessatori, i lavoratori più anziani e meno aggiornati vengono indotti ad andarsene ed a lasciare il posto alle nuove giovani professionalità, spesso ciò può avvenire proprio attraverso il mobbing.

     

    1.1       Le conseguenze del mobbing sull’individuo

    Il mobbing ha conseguenze di portata enorme sulla persona direttamente soggetta agli abusi. Gli effetti provocati si sviluppano secondo una gamma varia e sempre più grave man mano che le aggressioni proseguono nel tempo.

    Per schematizzare ed analizzare più dettagliatamente il tutto, sono state individuate quattro fasi attraverso cui si sviluppano i danni.

    In una prima fase, all’inizio del conflitto e degli attacchi, la vittima inizia a manifestare un certo malessere. Nei primi sei mesi appaiono i primi sintomi psicosomatici: incubi, insonnia, inappetenza, nausea, solitudine con ripiegamento su di sé.

    Nella seconda fase si ha il passaggio dal mobbing al terrore psicologico. Dai 15 ai 18 mesi si crea uno stato cronico di ansietà. Dai 2 ai 4 anni dall’inizio del conflitto appaiono disturbi della personalità: depressione, fobie, pensieri ossessivi, che generano dipendenza da tranquillanti, che a loro volta provocano assenza dal lavoro per malattia. E’ nella terza fase che del caso inizia ad occuparsi l’ufficio del personale, il quale si inserisce attivamente nella strategia di abusi sulla vittima, ritenendola responsabile di tale situazione. Così, in questa atmosfera di prepotenze tollerate o sostenute dalla stessa azienda, il lavoratore si trova sempre più isolato: gli viene negato qualsiasi colloquio col personale delle risorse umane, viene calunniato, criticato fino alla distruzione di ogni fiducia in se stesso e delle sue referenze per impedirgli di trovare nuovi impieghi. Nell’ultima fase, consolidate le manie ossessive, la vittima può sviluppare malattie di vario genere, sia nervose sia fisiche, di lunga durata. A livello psicologico può esplodere aggressività o contro di sé, fino al suicidio, sia verso la famiglia, compromettendo le basilari relazioni interpersonali.

    Dal lato economico la vittima, lavorando meno e male, assentandosi continuamente per malattie, subisce perdite. Il lavoratore viene poi, come estreme conseguenze, licenziato, messo in mobilità o in prepensionamento. Le ricerche condotte all'estero hanno dimostrato che il mobbing può portare fino all'invalidità psicologica, e che quindi si può parlare anche di malattie professionali o di infortuni sul lavoro.

    In Svezia ed in Germania centinaia di migliaia di vittime di mobbing sono finite in prepensionamento o addirittura in clinica psichiatrica. In casi di questo tipo, i costi non hanno investito solo l'azienda datrice di lavoro - che ha dovuto pagare i periodi di malattie delle vittime - ma anche la società stessa.

    Fra tutti i soggetti che soffrono per mobbing, non bisogna computare solo il gran numero dei lavoratori, quanto la molteplicità di persone in qualche modo coinvolte nel fenomeno, legate da rapporti parentali e non solo, come amici e famigliari delle vittime, che risentono senza meno della situazione.

     

    1.2 Il danno all’azienda

    E’ bene evidenziare come il mobbing danneggia sensibilmente non solo il lavoratore, ma anche l'azienda stessa, che nota un calo significativo della produttività nei reparti in cui qualcuno è mobbizzato dai colleghi.

    Infatti nel lungo periodo il mobbing è in grado di provocare danni permanenti alle aziende che lo tollerano o che lo praticano abitualmente ed attivamente. Il terrorismo psicologico forse non danneggia il prodotto finale, ma peggiora la qualità di vita dei dipendenti, risultando quindi un indizio di cattiva gestione delle risorse umane che crea comunque dei costi.

    I costi per le aziende si concretizzano nei costi delle procedure irregolari nei confronti dei mobbizzati, quali trasferimenti, sospensioni e provvedimenti ingiusti; nei costi legali per denunce o vertenze promosse dai lavoratori-vittime contro l’azienda. Ancora nei costi dovuti al calo della motivazione lavorativa in azienda; i costi provocati dal mobber, il quale impiega parte del suo tempo che dovrebbe dedicare al lavoro a molestare i colleghi; i costi che conseguono alle dimissioni di elementi produttivi e competenti; infine i costi connessi alla riassunzione di altro personale in sostituzione.

    Benché per le aziende tutti questi conti sembrino di poco conto, in realtà essi incidono sui conti di fine anno.

    Di solito le aziende che praticano il mobbing prevedono di riuscire a rovesciare sul corpo sociale questi costi: sulla sanità pubblica e sulle famiglie dei mobbizzati. In termini economici questa operazione viene definita esternalizzazione dei costi; ma in realtà non tutti i costi possono essere esternalizzati.

     

     

     

    1.3 Costi per i contribuenti

    Il fenomeno del mobbing è ritenuto molto preoccupante per la sua ricaduta sui contribuenti; le cifre spese in Europa sono allarmanti. Il mobbing mette così a repentaglio lo stato sociale. Forse facendo più attenzione ai costi sociali della violenza psicologica sul posto di lavoro, i conti pubblici negli ultimi anni sarebbero stati più in regola e i tagli al welfare operati in molti paesi sarebbero stati meno drastici.

    Il mobbing rappresenta un pericolo per le casse dello stato dal momento che provoca malattie professionali, traducendosi in un costo per la sanità pubblica, che a sua volta diviene sempre meno efficiente non soddisfacendo più la domanda sociale. Per venire incontro alla domanda sociale bisogna aumentare ancor di più la spesa pubblica e quindi il carico fiscale per tutti.

     

    2. Il quadro normativo

    In Italia manca una legge specifica che tuteli il lavoratore dal terrore psicologico.

    L’assenza di una specifica previsione legislativa non impedisce di difendersi dal mobbing dal momento che nel nostro ordinamento già esistono norme costituzionali, civilistiche, penali e specialistiche le quali, grazie ad una paziente opera di interpretazione, costituiscono un buon argine a protezione delle vittime di violenze psicologiche in ambito lavorativo. Si può assicurare in tal modo la tutela del lavoratore ed il risarcimento dei danni subiti in conseguenza dei comportamenti mobbizzanti, oltre che la sanzione di tali comportamenti.

     

    2.1 La tutela nella Costituzione

    Numerose sono le norme della Costituzione poste a tutela della persona, in quanto tale, e del lavoratore inserito nella realtà lavorativa (artt. 2, 3, 4, 32, 35, 36, 41) e tra queste, in particolare, vanno segnalati:

    art.32 Cost.: “ La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della       collettività…”;

    art.35  Cost.:  “ La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”;

    art.41  Cost.: “ L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana.”

     

    2.2 La tutela civilistica

    Sotto il profilo civilistico, occorre prima di tutto distinguere le ipotesi in cui l’autore del mobbing è il datore di lavoro da quelle in cui è un superiore gerarchico od un collega della vittima.

    In questa seconda ipotesi, l’autore delle violenze psicologiche potrà essere chiamato a rispondere ai sensi dell’art. 2043 c.c., quindi per responsabilità extra contrattuale.

    La norma di carattere generale contenuta nell’art. 2043 stabilisce, infatti, che:

    Qualunque fatto doloso o colposo che causa ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.”

    Ciò è, quindi, perfettamente applicabile alle varie configurazioni del mobbing, poiché contiene il principio generale di responsabilità e sancisce il divieto di cagionare danni ad altri. L’importanza dell’articolo 2043, quale efficace strumento di lotta al mobbing, è messa in particolare risalto dalla sentenza n° 411 del 24 gennaio 1990 della Corte di Cassazione nella quale la stessa Corte “ha stabilito che il bene della salute costituisce oggetto di un autonomo diritto primario e quindi il risarcimento per la sua lesione non può essere limitato alle conseguenze che incidono soltanto sulla idoneità del soggetto a produrre reddito e cioè al danno patrimoniale inteso come diminuzione del reddito per esborsi di denaro (cure e/o trattamenti medici o acquisto di prodotti farmaceutici) cosiddetti danno emergente, o come possibilità di perdita di guadagno a causa della condotta del molestatore (lucro cessante), ma deve essere esteso al danno biologico inteso come lesione inferta al bene dell’integrità psichica in sé e per sé”.

    Qualora invece l’autore delle violenze psicologiche sia il datore di lavoro, la responsabilità derivante dall’art. 2043 potrà concorrere con quella contrattuale da inadempimento di cui all’articolo 2087 del codice civile che dispone, integrando ex lege le obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro, che:

    L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

    E’ evidente che dall’articolo 2087 ne discende non solo il divieto per il datore di lavoro di porre in essere direttamente comportamenti riconducibili al mobbing, ma anche l’obbligo di attivarsi per impedire che tali comportamenti siano tenuti dai propri dipendenti. In giurisprudenza, infatti, è stata riconosciuta la legittimità del licenziamento in tronco di lavoratori che abbiano posto in essere delle gravi condotte nei confronti di altri dipendenti. Nel merito, il lavoratore dovrà provare la condotta illegittima ed il nesso di causalità tra l’inadempimento delle misure ex art. 2087 ed il danno subito, mentre a carico del datore di lavoro rimane la prova di aver operato secondo le disposizioni di legge.

    Analogamente, trovano sanzione anche i comportamenti riconducibili all’abuso del diritto da parte del datore di lavoro. Quindi la tutela del lavoratore vittima di vessazioni psicologiche può essere esercitata ai sensi degli articoli 2043 e 2087 c.c. e la scelta del meccanismo di tutela più idonea spetterà al lavoratore.

    Sempre in tema di mobbing, un importante principio è stato recentemente affermato dalla Corte di Cassazione con l’innovativa sentenza del 5 ottobre 2001 depositata in Cancelleria il 2 gennaio 2002.

    L’Alta Corte, chiamata a pronunciarsi sul caso di un lavoratore, che dopo aver svolto per tre anni le mansioni per le quali era stato assunto, nei successivi sedici anni - pur continuando a ricevere lo stipendio - non era stato impiegato in nessuna attività, riconoscendogli il diritto ad essere risarcito per il danno subito ha sancito il principio secondo il quale la negazione o l’impedimento allo svolgimento delle mansioni lede “il diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore”.

    Ancora sotto il profilo civilistico è anche possibile esperire la tutela in via d’urgenza ex art. 700 c.p.c., in presenza di comportamenti vessatori o discriminatori che pongono in grave pericolo i diritti del lavoratore.

     

     

     

    2.3 La tutela penalistica

    Per quanto riguarda il profilo penalistico, non pochi operatori del diritto sostengono a ragione che il mobbing, potendo causare anche malattie professionali, potrebbe costituire reato configurandosi come delitto di lesione personale colposa previsto dall’articolo 590 del codice penale.

    L’applicazione delle regole generali del diritto penale al mobbing comporta, in ogni caso, l’esigenza di valutare in concreto se la compromissione della integrità psicofisica del lavoratore sia riconducibile ad una condotta del datore di lavoro colposa o dolosa.

     

    2.4 Lo Statuto dei lavoratori 

    La legge 20 maggio 1970, n° 300, lo Statuto dei lavoratori, è uno degli strumenti più importanti che la legislazione mette a disposizione per la tutela del lavoratore.

    Tra le varie norme dello Statuto un particolare rilievo assumono l’art. 7 con l’obbligo di specifica procedura disciplinare contro gli abusi del datore di lavoro; l’art. 13 a tutela delle mansioni del lavoratore dai comportamenti di dequalificazione professionale e l’art. 15 per la tutela della nullità degli atti che abbiano finalità discriminatorie ai danni del lavoratore.

     

    2.5 Il D.lgs 626/94 e il danno biologico

    Ruolo fondamentale può essere esercitato anche dal Decreto legislativo 626/94.

    Tale normativa ha affermato il diritto alla salute inteso non solo come assenza di malattia, ma anche come assenza di disagio e segnato il passaggio dall’idea della tutela della integrità fisica del lavoratore all’idea della tutela della sua integrità psico-fisica. Da qui deriva l’ammissione del risarcimento del danno biologico, inteso appunto come menomazione dell’integrità psicofisica del soggetto, che andrebbe totalmente addebitato in maniera personale e diretta agli autori delle violenze psicologiche e dovrebbe avvenire ogni volta che ricorrano le condizioni previste dall’art. 2043 c.c., indipendentemente dalle obbligazioni che gravano sul datore di lavoro ai sensi degli artt. 2049 e 2087 del codice civile.

    La nozione del danno biologico è proprio nel rapporto di lavoro subordinato che trova importanti applicazioni: infatti, l'art. 2087 c.c., come sopra sostenuto, impone al datore di lavoro l'obbligo di tutelare l'integrità fisica e psichica del lavoratore, altrimenti il datore sarà tenuto al risarcimento del danno biologico derivante da una menomazione fisica o psichica subita nell'espletamento della attività lavorativa.

    Più precisamente, il datore di lavoro è tenuto al risarcimento qualora il lavoratore possa dimostrare non solo di aver subito una lesione fisica o psichica, ma anche che la lesione è dovuta al lavoro e non ad una causa diversa. Se il lavoratore ha fornito le prove di cui si è parlato, il datore di lavoro potrà esimersi dal risarcimento dimostrando di aver rispettato non solo le norme antinfortunistiche, ma anche l'art. 2087 c.c., quindi di aver utilizzato tutti i rimedi preventivi consentiti dall'attuale stato della scienza e della tecnica.

    Se il datore di lavoro fallisce questa prova, il lavoratore potrà ottenere il risarcimento del danno, normalmente commisurato al grado di invalidità corrispondente alla lesione subita. Di regola, questo accertamento viene effettuato mediante consulenza tecnica, affidata ad un medico legale, che provvede alla quantificazione della invalidità; sulla scorta di questa quantificazione, il giudice liquiderà in via equitativa il danno.

    Normalmente il risarcimento di ogni danno, compreso quello biologico, presuppone la natura illecita del comportamento che l'ha cagionato. Tuttavia, la Cassazione, con la sentenza n. 475, pronunciata il 19/1/99, ha riconosciuto che, a determinate condizioni, anche un comportamento astrattamente lecito può essere fonte di risarcimento del danno.

    Secondo la Corte è risarcibile il danno, derivato al dipendente da un comportamento persecutorio del datore di lavoro, consistito nella richiesta a più riprese all’INPS dell'effettuazione di visite mediche domiciliari di controllo dello stato di malattia del lavoratore, attestato dal certificato del medico curante, nonostante la malattia fosse stata già accertata dai controlli precedenti. Nella specie è stata confermata la sentenza d'appello secondo la quale il comportamento del datore di lavoro aveva causato un aggravamento della malattia del lavoratore, tale da portare ad una invalidità permanente con riduzione della capacità di lavoro. Più precisamente, la Corte ha affermato che le reiterate visite di controllo sul lavoratore assente per malattia, richieste dal datore di lavoro, possono configurare un comportamento persecutorio, con conseguente diritto del lavoratore al risarcimento dei danni subiti a causa di tale comportamento.

    Come è facile intuire, l'importanza della segnalata sentenza sta nel fatto che è stato riconosciuto il diritto al risarcimento in un caso in cui il danno era stato causato da un fatto in sé lecito. La sentenza della Corte di Cassazione ha riconoscendo dunque che anche l'esercizio di un diritto, se avviene con modalità vessatorie, può cagionare un danno risarcibile.

    La pronuncia è tanto più importante se si pensa che nel nostro ordinamento, come si diceva, il presupposto per il risarcimento del danno è la natura illecita del fatto che lo ha cagionato. Nel caso esaminato dalla sentenza in questione, il comportamento del datore di lavoro non costituiva in sé, astrattamente considerato, un illecito; dal momento che egli ha sempre la facoltà di controllare, mediante gli organismi del sistema sanitario pubblico, l'effettivo stato di malattia del lavoratore.

    Tuttavia, talvolta un diritto può essere esercitato in maniera del tutto irragionevole e con finalità meramente vessatorie. Caso esaminato dalla pronuncia citata della suprema Corte non è l'unico in cui l'esercizio di un diritto può costituire fonte di responsabilità per danni. Si pensi, per fare un altro esempio, al datore di lavoro che perseguita il proprio dipendente sommergendolo di sanzioni disciplinari che, benché rientranti nell'astratto potere disciplinare del datore di lavoro, per la loro sistematicità e per la loro pretestuosità potrebbero configurarsi appunto come persecutorie e vessatorie. Anche in un caso come questo, dunque, il dipendente che abbia subito un danno potrà rivolgersi al Giudice del lavoro per ottenere il risarcimento.

    In materia di legislazione speciale, infine, non va poi trascurato il Decreto Legislativo 23 febbraio 2000, n. 38 che ha introdotto, seppure con alcune eccezioni, la tutela assicurativa INAIL del danno biologico.

    Il quadro normativo si era arricchito a livello regionale dalla Legge della Regione Lazio varata nel giugno 2002 e contenente "Disposizioni per prevenire e contrastare il fenomeno del 'mobbing' nei luoghi di lavoro" cancellata recentemente dalla Corte Costituzionale per interferenza regionale con la competenza esclusiva dello Stato.

     

    3. Il Panorama europeo

    Nel settembre 2001, il Parlamento europeo, attraverso una specifica Risoluzione, ha evidenziato la necessità per gli Stati membri di approfondire lo studio del fenomeno delle violenze psicologiche in ambito lavorativo per pervenire ad una comune definizione della fattispecie del mobbing e creare una più solida base statistica sulla sua diffusione.

    In questo senso è sicuramente utile individuare le esperienze maturate negli altri paesi europei, in particolare dell’Europa del nord, da più anni sensibile alla problematica.

    In Belgio troviamo nel 11 giugno 2002 la legge per regolamentare il fenomeno.

    La legge si qualifica per la previsione dell’obbligo per il datore di lavoro di designare, in accordo con i rappresentanti dei lavoratori, un Consigliere per la prevenzione, interno od esterno a seconda delle dimensioni dell’impresa, con specifiche competenze psico-sociali in particolare riferite all’ambiente lavorativo.

    Le imprese al di sopra di 20 dipendenti, qualunque sia il settore di attività, dovranno disporre del servizio interno di prevenzione, mentre quelle con meno di 20 dipendenti, che ne sono prive, saranno affiliate ad un servizio esterno di prevenzione interaziendale che raggruppa specialisti di cinque discipline, quali medicina del lavoro, sicurezza, igiene industriale, ergonomia e psicologia.

    Inoltre da alcuni anni, grazie all’azione svolta dal sindacato, si è costituita, presso i servizi pubblici per la prevenzione e protezione sul lavoro, una commissione “d’avviso” composta da rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, con lo scopo di offrire ai lavoratori vittime del mobbing un’assistenza al di fuori della realtà lavorativa.

    In Francia, nel 2000, è stata varata la prima legge specifica sul mobbing in cui il fenomeno viene definito come un “insieme di azioni ripetute di violenza morale che hanno per oggetto e per effetto la degradazione delle condizioni di lavoro suscettibile di recare offesa ai diritti e alla dignità del salariato, di alterare la sua salute psicologica o mentale e compromettere il suo avvenire professionale”.

    La legge si qualifica per l’introduzione dell’istituto dell’inversione dell’onere della prova. Infatti è il soggetto accusato di aver posto in essere azioni dirette o indirette di violenza morale in ambito lavorativo a dover dimostrare l’estraneità da qualsiasi forma di responsabilità. E’ stato anche istituito un osservatorio sullo stress, presso un istituto di credito, dove si svolgono corsi di formazione obbligatori, condotti da medici e specialisti, per vertici e dirigenti aziendali, sulle relazioni interpersonali sul luogo di lavoro e nella vita sociale. Inoltre è stata prevista l’astensione dal lavoro “anti-mobbing” di tutti i dipendenti di un’azienda per circa una settimana per protestare contro i soprusi ed i metodi di pressione psicologica attuati sul posto di lavoro. Per non nuocere eccessivamente all’immagine dell’azienda, la direzione sigla un accordo di buon clima e di rispetto dei dipendenti sul luogo di lavoro.

    In Germania, alla Volkswagen, nel 1996 è stato firmato un accordo tra azienda e sindacato con l’obiettivo di prevenire molestie sessuali, mobbing ed ogni forma di discriminazione al fine di creare un clima di lavoro positivo basato sulla reciproca collaborazione.

    Nel 1998 è stato istituito dal sindacato un “telefono verde” per i lavoratori vittime di mobbing e sempre nel 1998 è stato sottoscritto un accordo sul mobbing nell’area del pubblico impiego.

    In Gran Bretagna è in discussione una proposta di legge che, pur non tenendo conto della dimensione collettiva o dell'organizzazione del lavoro come fattori alla base del mobbing, dispone l'adozione da parte del datore di lavoro di una politica mirata a prevenire il fenomeno da sottoporre alla consultazione dei rappresentanti sindacali e dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza

    Il primo paese europeo a dotarsi di una legge nazionale sul mobbing è stata la Svezia, nel 1993, con una normativa di fondamentale riferimento per qualsiasi intervento legislativo successivo in materia, anche negli altri paesi.

     

    3.1 Le disposizioni svedesi

    In Svezia sono state emanate nel 1993, dall’Ente nazionale per la Salute e la Sicurezza, disposizioni relative alle misure da adottare contro forme di persecuzione psicologica negli ambienti di lavoro. Per persecuzione vengono considerandosi ricorrenti azioni riprovevoli o chiaramente ostili intraprese nei confronti di singoli lavoratori, in modo offensivo, tali da determinare l’allontanamento di questi lavoratori dalla collettività che opera nei luoghi di lavoro. Si prevede che il datore di lavoro organizzi e pianifichi il lavoro stesso, in modo da prevenire tali violenze psicologiche, comunicando tra l’altro, in modo inequivocabile, che queste forme di violenza non potranno essere tollerate nel corso dell’attività lavorativa. Esempi di misure di ordine generale che il datore può adottare sono:

    §             Elaborare una politica ad hoc per l’ambiente di lavoro che, tra l’altro, illustri le intenzioni, gli obiettivi e l’atteggiamento di ordine generale nei confronti dei propri dipendenti;

    §             Elaborare delle procedure che garantiscono condizioni psicologiche e sociali, nei luoghi di lavoro, che siano le migliori possibili, anche per quanto concerne la situazione lavorativa e l’organizzazione del lavoro;

    §             Adottare misure per impedire che si manifestino reazioni negative sul lavoro, ad esempio elaborando delle regole che incoraggino un clima di rispetto e di amicizia nel luogo di lavoro. Ed è soprattutto il datore di lavoro e i suoi rappresentanti che per primi devono dare il buon esempio in tal senso;

    §             I quadri e i dirigenti devono ricevere una formazione tale da consentire loro di gestire le materie che rientrano nelle leggi di diritto del lavoro, gli effetti delle varie condizioni di lavoro sulle persone, i rischi di conflitto all’intero dei gruppi di lavoratori, in modo che siano in grado di rispondere con prontezza, con un sostegno qualificato, a quei lavoratori che si trovassero in situazioni di stress e di crisi.

    Sarà inoltre indispensabile prevedere procedure che consentano di individuare i sintomi di condizioni di lavoro persecutorie, l’esistenza di problemi inerenti all’organizzazione del lavoro o eventuali carenze per quanto riguarda la cooperazione, che possono costituire il terreno adatto all’insorgere di qualche forma di terrore psicologico durante l’attività lavorativa. In presenza di questo tipo di sintomi dovranno essere immediatamente adottate e applicate delle efficaci contromisure. I lavoratori sottoposti a queste forme di persecuzione sul lavoro dovranno ricevere aiuto e sostegno immediati, per cui il datore dovrà prevedere procedure speciali.

    La normativa svedese individua, come possibili cause del mobbing, carenze relative all’organizzazione del lavoro; del sistema informativo interno; una gestione inadeguata del modo di lavorare; un carico di lavoro eccessivo o, al contrario insufficiente; il tipo di prestazione richiesta; il tipo di atteggiamento tenuto dal datore nei confronti dei propri dipendenti e le sue eventuali reazioni; problemi organizzativi persistenti ed insoluti che possono causare forti tensioni. Naturalmente a volte le cause o i tentativi di esclusione vanno ricercati nel comportamento o nel modo di agire dei singoli individui, ma si potrebbe riscontrare che, anche in questi casi, alla radice del problema vi sono situazioni lavorative insoddisfacenti per cui i singoli lavoratori, non trovando altra soluzione al loro profondo disagio se non quella di agire in modo tale di danneggiare o provocare i propri colleghi.

     

     

    4. Le forme del mobbing

    Comportamenti che esplicano forme di persecuzione psicologica sono:

    §             Calunniare o diffamare un lavoratore, oppure la sua famiglia;

    §             Negare deliberatamente o bloccare il flusso di informazioni relative ed indispensabili al lavoro oppure fornire informazioni non corrette al riguardo; isolare il lavoratore privandolo dei mezzi di comunicazione, come telefono e computer;  estrometterlo dalle decisioni.

    §             Sabotare o impedire in maniera deliberata l’esecuzione del lavoro;

    §             Escludere in modo offensivo il lavoratore, oppure boicottarlo o di disprezzarlo; impedire che gli altri lavoratori gli rivolgano la parola, negare la sua presenza, comportarsi come se il mobbizzato non ci fosse;

    §             Esercitare minacce, intimorire o avvilire la persona, come nel caso di molestie sessuali,

    §             Insultare, fare critiche esagerate o assumere atteggiamenti o reazioni ostili in modo deliberato; umiliarlo, screditare il lavoratore attraverso attacchi contro la sua reputazione, ridicolizzarlo, umiliarlo, attaccare le sue convinzioni religiose, sessuali, morali, calunniare membri della sua famiglia;

    §             Controllare l’operato del lavoratore senza che lo sappia e con l’intento di danneggiarlo;

    §             Applicare sanzioni ad un singolo lavoratore senza motivo apparente, senza dare spiegazioni, senza tentare di risolvere insieme a lui i problemi. Queste sanzioni possono consistere in un allontanamento immotivato dal posto di lavoro o dai suoi doveri; in un trasferimento altrettanto immotivato; in richieste di ore di lavoro straordinario; in un evidente ostruzionismo nei suoi confronti per quanto riguarda le richieste di formazione o di permessi.

    §             Ridurre la considerazione di sé del lavoratore, privarlo degli status symbol; non attribuirgli incarichi; attribuirgli incarichi inferiori o superiori alle sue competenze; simulare errori professionali; avanzare continue critiche alle prestazioni o alle sue capacità professionali, anche di fronte a soggetti esterni, ma anche critiche soggettive; affidare compiti volutamente confusi, contraddittori e/o lacunosi;

    §             compromettere il suo stato di salute, come il diniego di periodi di ferie o di congedo, attribuzione di mansioni a rischio o con turni massacranti ;

    §             imporre cambio di mansioni

     

    Molte delle azioni sopra elencate, se isolate e non ripetute, possono avere luogo anche in condizioni normali, ed essere dettate da cause contingenti. Si parla, però, di mobbing quando una o più di queste azioni diviene sistematica ed a lungo termine.

    Una delle modalità tipiche attraverso cui si possono realizzare comportamenti persecutori inquadrabili nel mobbing sono certamente le molestie sessuali commesse dal datore di lavoro, dal superiore gerarchico o da colleghi. E’ opportuno ricordare che per molestie sessuali si devono intendere, oltre che i veri propri tentativi di molestia e gli atti di libidine violenta, anche i corteggiamenti indesiderati e le c.d. "proposte indecenti". Interessante a questo proposito è ricordare la definizione di molestia sessuale contenuta nel codice di condotta, allegato alla raccomandazione della Commissione Europea, che definisce la molestia sessuale ogni comportamento indesiderato a connotazione sessuale o qualsiasi altro comportamento basato sul sesso che offende la dignità degli uomini o delle donne nel mondo del lavoro

     

    4.1 Le forme del mobbing in Italia e all’estero

    Si può evidenziare, dalle ricerche effettuate in Europa, che il mobbing in Italia ha caratteristiche leggermente diverse rispetto agli altri Paesi. Queste differenze sono in parte legate al nostro modo di gestire le situazioni personali e professionali e in parte legate al momento socioeconomico che stiamo vivendo.

    All’estero è molto più tipico e diffuso il mobbing orizzontale, che riflette un problema di rapporti interpersonali o di ambiente di lavoro malato tra individui. In Italia c’è sicuramente ed è ugualmente diffuso questo tipo di molestia morale, ma emerge con maggior evidenza il secondo tipo che appare più specificamente italiano.

    In Italia, infatti, è presente una regolamentazione dei rapporti di lavoro più rigidi: per esempio la possibilità di licenziare o di spostare le persone lontano dalle zone di residenza ha regole diverse rispetto a realtà estere. Nel nostro Paese esiste tutta una serie di protezioni e tutele per il lavoratore che rendono difficile licenziare e/o spostare i lavoratori dalla sera alla mattina. Questa situazione fa sì che l’insorgenza del secondo tipo di mobbing, il mobbing verticale, sia molto frequente. Questo secondo tipo di mobbing è in un certo senso predeterminato: “Io ti voglio eliminare, ma per tutta una serie di vincoli non posso farlo, allora io ti dequalifico, mi accanisco sempre più fino al punto in cui non riesci più a sostenere la situazione e ti dimetti”.

    Per quanto riguarda il confronto con altri Paesi è possibile sottolineare una caratteristica italiana che riguarda il ruolo della famiglia. Rispetto alle altre realtà estere la famiglia ha per noi connotazioni particolari: è una realtà molto più presente, molto più interferente nella vita, molto più giudicante e protettiva, ma paradossalmente proprio per tutti questi aspetti a volte molto più condizionante e penalizzante. Al punto che spesso la famiglia non capisce che cosa sta succedendo e legge quello che il mobbizzato racconta come in realtà suoi problemi, sue difficoltà ad interagire.

    Un altro aspetto rilevante è che spesso i nostri non parlano in famiglia di quello che succede al lavoro, sono frequenti casi di persone che, licenziate in tronco, non dicono nulla alla famiglia e per mesi escono regolarmente la mattina e tornano la sera fingendo di essere andati al lavoro.

    Per trovare alternative nel mondo del lavoro queste persone dovrebbero presentarsi come figure vincenti, ma ciò è impossibile perché anche se in precedenza lo erano state in seguito al mobbing si percepiscono come vinte.

     

    4.2 Le percentuali del mobbing

    Secondo un'indagine dell’Eurispes, l’Istituto di studi economici, politici, sociali la categoria più' colpita dal mobbing sarebbe quella degli impiegati, che rappresenterebbero il 79% dei vessati.

    Ciò emerge da un'indagine ad hoc su un campione di 250 persone, svolta da un gruppo di ricerca dell'ospedale Sant’Andrea di Roma, costituito da medici del lavoro e psichiatri dell'ambulatorio di Medicina del lavoro della seconda facoltà' di medicina dell’università' La Sapienza.

    I dati hanno messo in luce aspetti di un fenomeno in continua evoluzione, che solo in Italia coinvolge un milione di lavoratori, su oltre 21 milioni di occupati, maggiormente nelle regioni del Nord, con una percentuale del 65%. Nel corso di 14 mesi, da giugno 2001 a settembre 2002, i pazienti analizzati dall’équipe di medici sono risultati essere per il 62,5% dipendenti di aziende private e il resto appartenenti a quelle pubbliche; per il 52% diplomati, mentre i laureati e possessori di licenza media si attestano invece ex equo al 24%.

    Circa lo stato civile, il 48% dei soggetti sottoposti a indagine sono coniugati, il 14% divorziati o separati e il 38% celibi o nubili. Le azioni mobbizzanti subite dai pazienti per il 3% hanno avuto una durata inferiore ai sei mesi, per il 27% tra sei mesi e un anno, per il 40% tra uno e due anni e per il 30% oltre i due anni.

    Secondo la grandezza dell’azienda individuiamo percentuali del 2% per imprese fino ad 11 dipendenti; 9% da 11 a 50 dipendenti; 13% da 51 a 100 dipendenti; 28% da 101 ai 500 dipendenti; 39% oltre i 500 dipendenti. Ciò pare dimostrare che il fenomeno cresce con l’aumentare del numero dei lavoratori.

    Secondo un sondaggio, eseguito per conto dell'Unione europea, l'8% dei lavoratori della Comunità', corrispondente a 12 milioni di casi, e' stato vittima del mobbing sul posto di lavoro. Le percentuali più' elevate si registrano nel Regno Unito (16,3%), Svezia (10,2%), Francia (9,9%), Irlanda (9,4%), Germania (7,3%); l'Italia guida la parte bassa della classifica con il 6% e precede Spagna (5,5%), Belgio (4,8%) e Grecia (4,7%).

     

    4.3 Il mobbing e le donne

    Sempre secondo la relazione dell’Eurispes sono le donne, con una percentuale pari al 52% del campione statistico analizzato, le vittime privilegiate delle persecuzioni in ambito lavorativo.

    Va rilevato, in premessa, che la molestia morale è cosa propria di ogni contesto organizzato verticisticamente e che, quindi, prende corpo ovunque vi sia chi, per vocazione naturale o per organizzazione logistica, sia posto in posizione di supremazia rispetto ad un altro. Per le donne, denuncia il già “rapporto Italia 2003” formulato dall’Eurispes, le molestie morali e le pressioni psicologiche assumono aspetti peculiari, spesso molto più gravi rispetto a quelli denunciati dagli uomini poiché le violenze sul lavoro mirano, in questo caso, a contrastare la crescita professionale e a emarginare le donne dai processi che favoriscono la progressione di carriera per impedire loro di sfondare il soffitto di cristallo delle direzioni maschili. Dalla lettura approfondita del rapporto Italia 2003 formulato dall'Eurispes si evince inoltre che le donne che subiscono mobbing tendono più degli uomini ad interiorizzare, percependosi inferiori, inadeguate e colpevoli.

    Le donne più giovani e le single subiscono anche il mobbing sessuale messo in atto dai colleghi per danneggiare immagine e carriera; hanno più difficoltà a trovare sostegno in famiglia e solidarietà in ufficio.

     

    5. La contrattazione

    La prevenzione è l’unica vera arma contro il mobbing e la prevenzione si fa, innanzitutto, accettando di riconoscere il fenomeno.

    In questo senso, è necessario rilanciare l’azione del sindacato per pervenire alla stipula di accordi aziendali sul mobbing, sulla falsariga di quanto è avvenuto alla Volkswagen nel 1996 in Germania ed alla ATM/SATTI di Torino nel 2001.

    Senza nulla togliere alla importanza che avrebbe il varo di una legge nazionale, sviluppare l’attività di contrattazione aziendale sul mobbing è importante per tutta una serie di ragioni.

    Intanto si fornirebbero i lavoratori di strumenti concreti di tutela ovviando ad uno degli aspetti più avvilenti in cui vengono a trovarsi spesso le vittime: la sensazione di essere abbandonati a se stessi.

    Sapere che in azienda vi è un organismo, qualcuno cui potersi rivolgere in caso di necessità è senza dubbio importante soprattutto se quell’organismo o quel qualcuno venga percepito come qualcosa al di sopra delle parti.

    Inoltre si eviterebbe il rischio di un approccio spesso formale e burocratico al fenomeno del mobbing, così come emerge dalla lettura dei vari Codici etici o dalla esperienza delle norme specifiche inserite, anche da tempo, in alcuni contratti collettivi nazionali e che troppo spesso vengono disattese.

    Avere una fitta rete di accordi aziendali in tema di mobbing sarebbe anche propedeutico al varo di una buona legge sul mobbing. Ma dove l’importanza della contrattazione assume particolare rilievo è sul versante culturale.

    Da un lato, essa potrebbe contribuire non poco a far emergere un sentimento di condanna sociale nei confronti degli autori delle azioni mobbizzanti. Dall’altro, consentirebbe di affermare il concetto che un clima di reciproco rispetto e di corrette relazioni interpersonali siano uno dei presupposti su cui fondare lo sviluppo stesso delle aziende.

     

    6. Il mobbing nel pubblico impiego

    Il mobbing è fenomeno ubiquitario piuttosto diffuso in tutte le realtà lavorative non solo private ma anche pubbliche e, tuttavia, è con riferimento alle prime che esso si è primariamente palesato ed è stato oggetto di studi approfonditi sotto il profilo sia medico che legale. Il problema tuttavia si è presentato, di recente, anche nel pubblico impiego in seguito all’innesto massiccio di logiche privatistiche nell’organizzazione e nell’operato dell’Amministrazione, consacrato nel D.lgs.29/1993 e successive modifiche, D.lgs.30.3.2001 n°165.

    In alcuni settori poi esso ha avuto maggiore presa come nel mondo della Sanità, ove ha trovato un terreno particolarmente fertile nei delicati rapporti esistenti tra personale medico e paramedico, fra struttura apicale sanitaria e dirigenza generale alla quale ultima sono stati attribuiti, dalle più recenti leggi di riforma, poteri decisionali caratterizzati dalla più ampia discrezionalità tali da poter sfociare in forme di vero e proprio arbitrio, non facilmente sindacabili dall’Autorità Giudiziaria.

    Anche in seno alle autonomie locali si sono registrati comportamenti mobbizzanti ad esempio nei confronti dei segretari comunali, dopo le recenti leggi di riforma della categoria.

    Il fenomeno delle privatizzazioni di interi settori dell’Amministrazione, nonché l’emanazione di leggi che tendono ad estendere i moduli privatistici della scelta fiduciaria dei dipendenti nella P.A., con frequente ricorso ad assunzioni esterne effettuate senza alcun previo concorso, contribuiscono certamente all’espandersi del fenomeno e non sembrano diminuire nonostante la constatazione delle obiettive controindicazioni: così di recente vi è stata la legge n. 145 del 2002 che ha ampliato tali possibilità inserendo anche un elemento di valutazione politica nelle nomine di vertice, nonostante l’art. 98 della Costituzione parli di pubblici dipendenti al servizio esclusivo della Nazione.

    Tali normative costituiscono certamente terreno fertile per l’accrescersi del mobbing nel pubblico impiego, ove si caratterizza per condotte in parte diverse da quelle usualmente studiate nel lavoro privato, quali quelle che si concretizzano in immotivati scavalcamenti di carriera.

    Così si può rilevare come nel pubblico impiego privatizzato la principale causa di possibili atteggiamenti "mobbistici" è da ricercare nella tendenza legislativa in atto che ha affievolito il ruolo dei canoni della legittimità e della legalità dell’agire amministrativo e che comunque è rimesso nelle mani di organi politici ovvero di una dirigenza che certo non rispondono del proprio operato e che, comunque, utilizzano danaro pubblico nell’esercizio delle funzioni loro rispettivamente conferite dalla legge. Ecco allora come l’incarico di una funzione dirigenziale a persona esterna all’Amministrazione da parte dell’organo politico (ex art.19 D.lgs.165/2001), in dispregio del curriculum e dell’anzianità di servizio di altri aspiranti a quella carica provenienti dai ruoli dell’Amministrazione interessata, può divenire un fatto "mobbistico".

    Se in passato la rigidità strutturale ed organizzativa delle amministrazioni comportava la conseguenza che il lavoratore venisse preposto all’esercizio di specifiche mansioni difficilmente modificabili, almeno nei loro aspetti qualitativi, l’attuale sistema di gestione della cosa pubblica e delle risorse umane, trasmigrando verso moduli e modelli di funzionamento "aziendalistici" mutuati dal settore privato, ha provocato l’attenuarsi di tale garanzia al fine di perseguire obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa.

    Il Ministro per la Funzione Pubblica, con un decreto del 19 settembre 2002, ha istituito una Commissione di analisi e studio sulle politiche di gestione delle risorse umane e per lo studio delle cause e delle conseguenze dei comportamenti vessatori nei confronti dei lavoratori.

    La Commissione ha tra i suoi compiti quello di individuare i provvedimenti da predisporre ed elabora le proposte, anche di carattere normativo, per migliorare l'ambiente di lavoro e le condizioni generali del lavoratore e per garantire la valorizzazione delle professionalità.

     

    7. Le sentenze della Corte di Cassazione

    La sentenza, che per prima ha accolto il termine mobbing nel lessico giurisprudenziale, è la pronuncia emessa dal Tribunale di Torino, Sez. Lav. I grado, datata 16/I/99.Il caso esaminato dalla Corte Torinese riguardava una lavoratrice dipendente che aveva richiesto il risarcimento del danno biologico, conseguente ad una crisi depressiva, subito a causa delle condizioni di lavoro gravose e dalle continue e mirate vessazioni e umiliazioni da parte del capo reparto. Infatti, l'attrice era stata costretta a lavorare ad una macchina entro uno spazio angusto e chiuso tra cassoni e macchinari, e isolata dai colleghi.

    Per quanto concerne le sentenze pronunciate dalla Corte di Cassazione, è bene evidenziare le più significative.

    §             Una sentenza del 16 dicembre 1999, n.12903, ha affermato che il dipendente insultato ha diritto a dimettersi. Costituiscono infatti giusta causa di recesso, dal rapporto di lavoro, le dimissioni a causa delle espressioni poco rispettose ricevute da un proprio superiore. La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione nella fattispecie ha accolto il ricorso di un dipendente, con qualifica di dirigente, di una società di elettronica che si era dimesso dopo essere stato offeso dal capo del personale, suo superiore - con espressioni del tipo "faccia di bronzo" e "verme" – per aver rifiutato un incarico propostogli. Il Tribunale di Torino aveva negato al lavoratore il diritto all’indennità sostitutiva del preavviso ed al TFR, ritenendo che il linguaggio del dirigente superiore fosse "forse eccessivamente colorito ma non insultante". La Suprema Corte rileva invece il carattere "ingiurioso" delle espressioni dirette al subordinato, rese ancora più "cocenti" e "sgradevoli" dalle offese personali. Secondo i Supremi Giudici non è corretto valutare il tenore offensivo di una espressione ricorrendo semplicemente ad un dizionario, ma occorre invece "verificare il significato e soprattutto l’effetto negativo che l’espressione veniva ad assumere nel contesto di una reprimenda da parte di un dirigente al massimo livello nei riguardi di un dirigente a livello inferiore, quando non risulta che tra i due vi fosse una speciale confidenza o comunanza atta a giustificare un linguaggio meno formale".

    §             Nella sentenza n.5491 del 15 giugno 2000 si è pronunciato che il lavoratore vittima di comportamenti persecutori da parte del datore di lavoro ha diritto al risarcimento del danno biologico, ma deve dimostrare l’esistenza di un "nesso causale" tra il comportamento del datore di lavoro ed il pregiudizio alla propria salute. Questo il principio stabilito dalla Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, che ha affrontato il caso di un lavoratore, impegnato nell’attività sindacale, che lamentava di aver subito un comportamento persecutorio da parte del datore di lavoro, che gli aveva spesso inflitto sanzioni risultate poi illegittime, ostacolando in ogni modo e quotidianamente la sua attività. Questo aveva determinato l’insorgenza di disturbi nervosi con somatizzazioni, come nausea, vomito, dolori epigastrici, per cui il dipendente aveva chiesto il risarcimento del danno biologico. Il Pretore gli aveva dato ragione, ma la decisione era stata riformata in secondo grado, e per questo motivo l’uomo era ricorso in Cassazione. La Suprema Corte ha però rigettato la domanda, ritenendo che il lavoratore non avesse provato l’esistenza di un rapporto di causalità tra la condotta del datore di lavoro ed il danno alla salute. In particolare, il lavoratore non lamentava un danno biologico subito a causa di un unico comportamento eclatante, come, ad esempio, un infortunio sul lavoro, ma un danno derivante da una "attività persecutoria" fatta di piccoli dispetti quotidiani: in tali casi, la prova del nesso causale tra il "mobbing" e il pregiudizio alla salute è piuttosto difficile da fornire.

    §             Secondo la sentenza n.10090 del 20 aprile 2001 il datore di lavoro che maltratta un dipendente con minacce, insulti e violenze fisiche e morali, sottoponendolo a massacranti turni lavorativi, è responsabile del reato di maltrattamenti in famiglia, perché il dipendente è assimilabile ad un membro della famiglia. Il principio è stato affermato dalla Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione, che ha confermato le condanne per maltrattamenti e violenza privata inflitte dai responsabili di una ditta di vendite porta a porta che avevano sottoposto i giovani addetti alle vendite ad ogni serie di vessazioni e maltrattamenti. Invano i due si erano difesi sostenendo che il rapporto di lavoro non è assimilabile al rapporto familiare: la Cassazione ricorda che la legge estende l'applicabilità del reato di maltrattamenti in famiglia anche alle persone conviventi o sottoposte all'altrui autorità. Nel caso in esame, rileva la Suprema Corte, non vi è dubbio che il rapporto intersoggettivo che si instaura tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, essendo caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge attribuisce al datore nei confronti del lavoratore dipendente, pone quest’ultimo nella condizione, specificamente prevista dalla norma penale, di persona sottoposta alla sua autorità; il che, sussistendo gli altri elementi previsti dalla legge, permette di configurare a carico del datore di lavoro il reato di maltrattamenti in danno dal lavoratore dipendente. Inoltre, nel caso di specie, il rapporto interpersonale che legava l'autore del reato alle vittime era particolarmente intenso, poiché, a parte il contatto quotidiano dovuto a ragioni di lavoro, nel corso delle lunghe trasferte, viaggiando su un unico pulmino, consumando insieme i pasti e alloggiando nello stesso albergo, si realizzava tra le parti un’assidua comunanza di vita.

    §             In base alla sentenza del 23 ottobre 2001 n.13033, il danno da dequalificazione professionale non necessita di prove di pregiudizio economico è in re ipsa immanente alla lesione del bene della professionalità e dell’immagine, con conseguente obbligo risarcitorio. Il demansionamento professionale di un lavoratore non solo viola lo specifico divieto di cui all’art. 2103 cod. civ., ma da luogo ad una pluralità di pregiudizi solo in parte incidenti sulla potenzialità economica del dipendente, e costituisce anche lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della propria personalità nel luogo di lavoro, con la conseguenza che al pregiudizio correlato a tale lesione, che incide sulla vita professionale e di relazione dell’interessato, va riconosciuta un’indubbia dimensione patrimoniale, che lo rende suscettibile di risarcimento e di valutazione anche equitativa, pure nell’ipotesi in cui venga a mancare la dimostrazione di un effettivo pregiudizio patrimoniale, secondo quanto previsto dall’art. 1226 cod. civ. Va pertanto condivisa la decisione del Tribunale, in riforma di quella pretorile che mentre aveva ordinato la reintegrazione nelle mansioni originarie aveva negato il risarcimento del danno da dequalificazione per supposta mancanza di prove di pregiudizio economico al riguardo, il quale ha stabilito a favore del ricorrente una somma specifica, a risarcimento del danno alla professionalità. Infatti il Tribunale ha sostenuto non solo la sussistenza della lamentata dequalificazione, ma anche la configurabilità di una lesione per effetto della stessa; atteso che detta lesione al patrimonio professionale e di immagine per effetto del demansionamento è da ritenere in re ipsa, sicché sussistendo automaticamente il presupposto dell’an debeatur, la liquidazione equitativa del conseguente danno cagionato al lavoratore ben poteva essere effettuata dal giudice di merito.

    §             Così nella sentenza del 2 gennaio 2002, n. 10, il comportamento del datore di lavoro che lascia un lavoratore in condizioni di inattività per lunghissimo tempo, non solo viola la norma di cui all’art. 2103 c.c., ma lede il fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, nonché dell’immagine e della professionalità del dipendente, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche della qualifica di appartenenza. La dignità professionale del lavoratore, intesa come esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo, è un bene immateriale per eccellenza e la sua lesione produce automaticamente un danno, non economico, ma comunque rilevante sul piano patrimoniale, per la sua attinenza agli interessi personali del lavoratore, determinabile necessariamente solo in via equitativa.

    §             Con la sentenza del 15 gennaio 2004, n.515, la Corte di Cassazione ha rinviato alla Corte di Appello la sentenza che rigettava il ricorso di una dattilografa, demansionata e sottoposta a pressione psicologica, che in un momento transitorio di grave turbamento aveva rimesso le proprie dimissioni dal posto di lavoro. La Corte ha ribadito che dovevano essere valutate più attentamente le condizioni della lavoratrice per rilevare la sussistenza di una incapacità ex 428 cc., anche se temporanea e desumibile da indizi e circostanze: difatti, perché sia ravvisabile una situazione di incapacità di intendere e di volere non è necessaria la totale esclusione della capacità psichica e volitiva del soggetto agente, essendo sufficiente invece che questi, al compimento dell’atto, si trovi in uno stato di turbamento psichico tale da impedirgli di apprezzare l’importanza dell’atto medesimo e di liberamente determinarsi al suo compimento. Infine la Cassazione sottolinea che lo stato di incapacità di intendere e di volere può essere provato in modo indiretto in base ad indizi e presunzioni, che anche da soli possono essere decisivi ai fini della sua configurabilità.

     

    8. Le sentenze della Corte Costituzionale

    In materia di mobbing, la Corte Costituzionale ha pronunciato tre sentenze: sentenza del 2000 n. 459; la n. 359 del 2003; infine la sentenza n.113 del 2004. Con quest’ultima importante decisione, il credito da mobbing è ora considerato un credito privilegiato. Infatti, il lavoratore dipendente, al quale sia stato riconosciuto, con una decisione giudiziale, un credito per demansionamento, può ora farlo valere nel giudizio di esecuzione nei confronti del datore di lavoro come credito privilegiato e non più come credito chirografario.

    Nel caso in esame, il giudice delegato del fallimento di una azienda in crisi irreversibile aveva ammesso il credito al passivo in via chirografaria, negando il privilegio, perché non previsto dall’art. 2571 bis c.c., per il risarcimento del danno da demansionamento. Il lavoratore aveva impugnato la decisione proponendo opposizione allo stato passivo. Nel giudizio che ne è seguito il Tribunale di Ferrara, con ordinanza del gennaio 2003 ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, cioè al principio di eguaglianza, la questione di legittimità costituzionale parziale dell’art. 2751 bis n.1 cod. civ.; il quale prevede il privilegio generale sui mobili per i crediti riguardanti:

    ”le retribuzioni dovute, sotto qualsiasi forma, ai prestatori di lavoro subordinato e tutte le indennità dovute per effetto della cessazione del rapporto di lavoro, nonché il credito del lavoratore per i danni conseguenti alla danni conseguenti alla mancata corresponsione, da parte del datore di lavoro, dei contributi previdenziali ed assicurativi obbligatori ed il credito per il risarcimento del danno subito per effetto di un licenziamento inefficace, nullo o annullabile.”  

    Con l’ordinanza, il Tribunale di Ferrara ha ritenuto dovesse riconoscersi la possibilità di ampliare le ragioni di garanzia a favore del creditore-prestatore di lavoro, in presenza di talune circostanze oggettive e in deroga al principio della par condicio creditorum.

    Il tribunale di Ferrara prima, e la Corte Costituzionale poi, hanno dunque ritenuto che questo fosse in contrasto con il principio della parità di trattamento e di eguaglianza di fronte alla legge di cui all'art.3 della Costituzione.

    La Consulta ha ritenuto che anche per la questione del lavoratore "demansionato" si deve fare riferimento analogico alle altre fattispecie già ritenute tutelabili in via "privilegiata".

    Il danno da demansionamento-mobbng è stato dunque considerato alla pari di quelli derivanti da infortunio, o da licenziamento inefficace, o da mancata corresponsione dei contributi. L'incostituzionalità dell'art. 2751-bis, numero 1, del codice civile, riguarda dunque anche la mancata previsione del danno di cui sopra, rendendo necessaria una modifica del testo di legge con la sua inclusione tra i motivi di privilegio generale.

     

    9. I reati ipotizzabili

    I reati che possono concretizzarsi in seguito ad azioni che integrano il mobbing sono:

    §             art. 582 C.P. – Lesioni personali

    Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni.

    Se la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni e non concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste negli artt. 583 e 585, ad eccezione di quelle indicate nel n. 1 e nell'ultima parte dell'articolo 577, il delitto è punibile a querela della persona offesa.

    Art. 583 C.P.

    Circostanze aggravanti –

    La lesione personale è grave, e si applica la reclusione da tre a sette anni:

    1) se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o un'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni;

    2) se il fatto produce l'indebolimento permanente di un senso o di un organo;

    3) se la persona offesa è una donna incinta e dal fatto deriva l'acceleramento del parto.

    La lesione personale è gravissima, e si applica la reclusione da sei a dodici anni, se dal fatto deriva:

    1) una malattia certamente o probabilmente insanabile;

    2) la perdita di un senso;

    3) la perdita di un arto, o una mutilazione che renda l'arto inservibile, ovvero la perdita dell'uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella;

    4) la deformazione, ovvero lo sfregio permanente del viso;

    5) l'aborto della persona offesa.

    §             art. 590 C.P. – Lesioni personali colpose

    Chiunque cagiona ad altri, per colpa, una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a € 309,87.

    Se la lesione è grave la pena è della reclusione da uno a sei mesi o della multa da € 129,11 a 619,75; se è gravissima, della reclusione da tre mesi a due anni o della multa da € 309,87 a 1239,5.

    Se i fatti di cui al precedente capoverso sono commessi con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, la pena per le lesioni gravi è della reclusione da due a sei mesi o della multa da € 248 a € 619,74; e la pena per lesioni gravissime è della reclusione da sei mesi a due anni o della multa da €  619,74 a € 1239,50.

    Nel caso di lesioni di più persone si applica la pena che dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse, aumentata fino al triplo; ma la pena della reclusione non può superare gli anni cinque.

    Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo nei casi previsti nel primo e secondo capoverso, limitatamente ai fatti commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all'igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale.

    §             art 594. C.P. – Ingiurie

    Chiunque offende l'onore o il decoro di una persona presente è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a € 516,46.

    Alla stessa pena soggiace chi commette il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa.

    La pena è della reclusione fino a un anno o della multa fino a € 1032,91, se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato.

    Le pene sono aumentate qualora l'offesa sia commessa in presenza di più persone.

    §             art.595 C.P. – Diffamazione

    Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a € 1032,91.

    Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a € 2065,83. Se l'offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a € 516,46.

    Se l'offesa è recata ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.

    §             art. 599 C.P. – Ritorsione o provocazione

    Nei casi preveduti dall'articolo 594, se le offese sono reciproche, il giudice può dichiarare non punibili uno o entrambi gli offensori.

    Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti dagli articoli 594 e 595 nello stato d'ira determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso.

    La disposizione della prima parte di questo articolo si applica anche all'offensore che non abbia proposto querela per le offese ricevute.

    §             art. 610 C.P. – Violenza privata

    Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni.

    La pena è aumentata se concorrono le condizioni prevedute dall'articolo 339.

    Art. 339

    Circostanze aggravanti -

    Le pene stabilite nei tre articoli precedenti sono aumentate se la violenza o la minaccia è commessa con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite, o con scritto anonimo, o in modo simbolico, o valendosi della forza intimidatrice derivante da segrete associazioni, esistenti o supposte.

    Se la violenza o la minaccia è commessa da più di cinque persone riunite, mediante uso di armi anche soltanto da parte di una di esse, ovvero da più di dieci persone, pur senza uso di armi, la pena è, nei casi preveduti dalla prima parte dell'articolo 336 e dagli articoli 337 e 338, della reclusione da tre a quindici anni, e, nel caso preveduto dal capoverso dell'articolo 336, della reclusione da due a otto anni.

    §             art. 611 C.P. – Violenza o minaccia per costringere a commettere un reato

    Chiunque usa violenza o minaccia per costringere o determinare altri a commettere un fatto costituente reato è punito con la reclusione fino a cinque anni.

    La pena è aumentata se concorrono le condizioni prevedute dall'articolo 339.

    §             art. 612 C.P. – Minaccia

    Chiunque minaccia ad altri un ingiusto danno è punito, a querela della persona offesa, con la multa fino a € 51,64.

    Se la minaccia è grave, o è fatta in uno dei modi indicati nell'articolo 339, la pena è della reclusione fino a un anno e si procede d'ufficio.

     

     

     

    §             art. 613 C.P. – Stato di incapacità provocata mediante violenza

    Chiunque, mediante suggestione ipnotica o in veglia o mediante somministrazione di sostanze alcooliche o stupefacenti, o con qualsiasi altro mezzo, pone una persona, senza il consenso di lei, in stato d'incapacità d'intendere o di volere, è punito con la reclusione fino a un anno.

    Il consenso dato dalle persone indicate nell'ultimo capoverso dell'articolo 579 non esclude la punibilità.

    La pena è della reclusione fino a cinque anni:

    1) se il colpevole ha agito col fine di far commettere un reato;

    2) se la persona resa incapace commette, in tale stato, un fatto preveduto dalla legge come delitto.

    §             art. 616 C.P. - Violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza

    Chiunque prende cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa, a lui non diretta, ovvero sottrae o distrae, al fine di prendere o di farne da altri prendere cognizione, una corrispondenza chiusa o aperta, a lui non diretta, ovvero, in tutto o in parte, la distrugge o sopprime, è punito, se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge, con la reclusione fino a un anno o con la multa da € 30,98 a € 516,46.

    Se il colpevole, senza giusta causa, rivela, in tutto o in parte, il contenuto della corrispondenza, è punito, se dal fatto deriva nocumento ed il fatto medesimo non costituisce un più grave reato, con la reclusione fino a tre anni.

    Il delitto è punibile a querela della persona offesa.

    Agli effetti delle disposizioni di questa sezione, per "corrispondenza" si intende quella epistolare, telegrafica, telefonica, informatica o telematica ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza.

    §             art. 618 C.P. - Rivelazione del contenuto di corrispondenza

    Chiunque, fuori dei casi preveduti dall'articolo 616, essendo venuto abusivamente a cognizione del contenuto di una corrispondenza a lui non diretta, che doveva rimanere segreta, senza giusta causa lo rivela, in tutto o in parte, è punito, se dal fatto deriva nocumento, con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da € 103,29 a € 516,46.

    Il delitto è punibile a querela

    §             art. 624 C.P. - Furto

    Chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sè o per altri è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa da € 30,98  a un € 516,46.

    Agli effetti della legge penale, si considera "cosa mobile" anche l'energia elettrica e ogni altra energia che abbia valore economico.

    §             art. 627 C.P. - Sottrazione di cose comuni

    Il comproprietario, socio o coerede che, per procurare a sé o ad altri un profitto, s'impossessa della cosa comune, sottraendola a chi la detiene, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa da € 20,66 a € 206,59.

    Non è punibile chi commette il fatto su cose fungibili, se il valore di esse non eccede la quota a lui spettante.

    §             art. 629 C P.- Estorsione

    Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sè o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da € 516,46 a €  2065,83.

    La pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da lire due milioni a lire sei milioni, se concorre taluna delle circostanze indicate nell'ultimo capoverso dell'articolo precedente.

    §             art. 635 C.P. – Danneggiamento

    Chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui è punito, a querela della persona offesa con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a € 309,88.

    La pena è della reclusione da sei mesi a tre anni e si procede d'ufficio, se il fatto è commesso:

    1) con violenza alla persona o con minaccia;

    2) da datori di lavoro in occasione di serrate, o da lavoratori in occasione di sciopero, ovvero in occasione di alcuno dei delitti preveduti dagli artt. 330, 331 e 333 (1);

    3) su edifici pubblici o destinati a uso pubblico all'esercizio di un culto, o su altre delle cose indicate nel n. 7 dell'articolo 625;

    4) sopra opere destinate all'irrigazione;

    5) sopra piante di viti, di alberi o arbusti fruttiferi, o su boschi, selve o foreste, ovvero su vivai forestali destinati al rimboschimento.

    (1) Con sentenza n. 119 del 6 luglio 1970 la Corte Cost. ha dichiarato l'illegittimità del secondo comma di questo articolo nella parte in cui prevede come circostanza aggravante e come causa di procedibilità d'ufficio il fatto che il reato sia commesso da lavoratori in occasione di sciopero e da datori di lavoro in occasione di serrata.

    Art. 635 bis

    - Danneggiamento di sistemi informatici e telematici -

    Chiunque distrugge, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili sistemi informatici o telematici altrui, ovvero programmi, informazioni o dati altrui, è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la reclusione da sei mesi a tre anni.

    Se ricorre una o più delle circostanze di cui al secondo comma dell'articolo 635, ovvero se il fatto è commesso con abuso della qualità di operatore del sistema, la pena è della reclusione da uno a quattro anni.

    §             art. 660 C.P. - Molestia o disturbo alle persone

    Chiunque, in luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda fino a €  516,46.

     

    Se il mobber è un pubblico dipendente ed il mobbing è diretto verso un pubblico dipendente, ai

    precedenti reati possono aggiungersi i seguenti:

    §             art. 323 C.P. – Abuso d’ufficio

    Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

    La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità.

    §             art. 328 C.P. – Omissione d’atti d’ufficio

    Il pubblico ufficiale o l'incaricato del pubblico servizio, che indebitamente rifiuta un atto dell'ufficio che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni. Fuori dei casi previsti dal primo comma, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a € 1032,91. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa

    §             art. 331 C.P. – Interruzione di pubblico servizio o di pubblica necessità

    Chi, esercitando imprese di servizi pubblici o di pubblica necessità, interrompe il servizio, ovvero sospende il lavoro nei suoi stabilimenti, uffici o aziende, in modo da turbare la regolarità del servizio, è punito con la reclusione da sei mesi a un anno e con la multa non inferiore a € 516,45.

    I capi, promotori od organizzatori sono puniti con la reclusione da tre a sette anni e con la multa non inferiore a € 3098,74.

    Si applica la disposizione dell'ultimo capoverso dell'articolo precedente.

    §             art. 336 C.P. – Violenza o minaccia a pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio

    Chiunque usa violenza a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di un pubblico servizio, per costringerlo a fare un atto contrario ai propri doveri, o ad omettere un atto dell'ufficio o del servizio, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni.

    La pena è della reclusione fino a tre anni, se il fatto è commesso per costringere alcuna delle persone anzidette a compiere un atto del proprio ufficio o servizio, o per influire, comunque, su di essa.

    §             art. 340 C.P. – Interruzione di ufficio o servizio pubblico o servizio di pubblica necessità

    Chiunque, fuori dei casi preveduti da particolari disposizioni di legge, cagiona una interruzione o turba la regolarità di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica necessità, è punito con la reclusione fino a un anno.

    I capi, o promotori od organizzatori sono puniti con la reclusione da uno a cinque anni.

    §             art. 344 C.P. – Oltraggio a pubblico impiegato

    Le disposizioni dell'articolo 341 si applicano anche nel caso in cui l'offesa è recata a un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio; ma la pene sono ridotte di un terzo.

    §             art. 374 bis C.P. – False dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all’A.G.

    Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a cinque anni chiunque dichiara o attesta falsamente in certificati o atti destinati a essere prodotti all'autorità giudiziaria condizioni, qualità personali, trattamenti terapeutici, rapporti di lavoro in essere o da instaurare, relativi all'imputato, al condannato o alla persona sottoposta a procedimento di prevenzione.

    Si applica la pena della reclusione da due a sei anni se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale, da un incaricato di un pubblico servizio o da un esercente la professione sanitaria.

     

    9.1 Il mobbing: una nuova figura di reato

    Se si volesse ipotizzare il mobbing come una nuova figura di reato, la sua possibile qualificazione dovrebbe vedere in questa fattispecie un reato di evento, nel senso che può parlarsi di una concreta praticabilità della tutela penalistica solo se ed in quanto si sia verificato l’evento del soggetto passivo che si ammali di mobbing.

    L’opera di ricostruzione degli elementi costitutivi della nuova fattispecie criminosa si rivela però quanto mai ardua, vista l’assenza di specifiche parallele figure di reato nella attuale legislazione vigente, sia pure di carattere contravvenzionale a carico del datore di lavoro, per le condotte di vessazione morale e di dequalificazione professionale da lui poste in essere nell’ambiente di lavoro in danno del lavoratore.

    A quanto sin qui rilevato vanno poi aggiunte le enormi difficoltà di accertamento probatorio degli effetti sul soggetto passivo. Quest'ultimo perde gradatamente la stima professionale di sé e la motivazione al lavoro nel contesto socio-ambientale di riferimento e, se non traduce l’aggressione alla sfera psichica in una menomazione della propria integrità psico-fisica, vede in ogni caso compromessa la sua capacità di autoprotezione personale, che è una delle componenti essenziali per dare vita ad un efficace sistema di sicurezza del lavoro.

    C'è dunque il serio rischio di arrivare al paradosso di imputare sul piano giuridico al lavoratore mobbizzato le conseguenze di ciò che lui stesso subisce sul piano materiale per effetto della condotta di vessazione morale e psichica cui è assoggettato da parte delle gerarchie aziendali.

     

    10. La circolare INAIL

    Una importante novità è rappresentata dal fatto che anche l' INAIL ha cominciato a considerare il mobbing come malattia professionale. Infatti  è stato inserito nella categoria delle malattie professionali non tabellari, cioè non comprese nelle tabelle. Quindi il lavoratore potrà chiedere il risarcimento del danno anche al suddetto Istituto. L’INAIL, con una circolare in cui formula i principi e le istruzioni per garantire omogeneità nella trattazione delle pratiche, dà infatti il via libera al risarcimento danni da mobbing sul lavoro. Rientrano nel rischio tutelato dall'Ente, il cd. danno biologico, tutte le situazioni di cd. "costrittività organizzativa"; come lo svuotamento delle mansioni; il prolungato, sistematico e strutturale diniego all'accesso di informazioni inerenti all'ordinaria attività lavorativa; l'esercizio esasperato di forme di controllo; la prolungata attribuzione di compiti e mansioni dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto ecc.; nonché il cd. mobbing strategico.

    Con lettera del 12 settembre 2001 della Direzione Centrale Prestazioni e della Sovrintendenza Medica Generale: “Malattie psichiche e psicosomatiche da stress e disagio lavorativo, compreso il mobbing. Prime indicazioni operative”, sono state fornite le prime istruzioni per la trattazione delle denunce di disturbi psichici determinati dalle condizioni organizzativo/ambientali di lavoro ed è stato disposto che, data l’esigenza di acquisire un adeguato patrimonio di informazioni e conoscenze sulla materia, tutte le fattispecie con documentazione completa e probante fossero inviate all’esame centrale.

    L’esame degli oltre 200 casi pervenuti (denunciati all’Inail quasi sempre dopo accertamenti e trattamenti terapeutici) ha consentito di monitorare il fenomeno e di conoscere l’approccio diagnostico dei vari centri specialistici nazionali che fanno capo a Cattedre Universitarie, Ospedali, Ambulatori e Centri di Salute Mentale delle AA.SS.LL. operanti sul territorio.

    L‘accertamento del rischio, effettuato sulla base della denuncia di malattia professionale, integrata ove necessario da richieste specifiche ai datori di lavoro e dai risultati di incarichi ispettivi mirati, nonché le ulteriori indagini cliniche specialistiche eseguite, hanno condotto al riconoscimento della natura professionale della patologia diagnosticata nel 15 % circa dei casi esaminati.

    La posizione assunta dall’Istituto sul tema delle patologie psichiche determinate dalle condizioni organizzativo/ambientali di lavoro trova il suo fondamento giuridico nella Sentenza della Corte Costituzionale n. 179/1988 e nel Decreto Legislativo n. 38/2000 (art. 10, comma 4), in base ai quali sono malattie professionali, non solo quelle elencate nelle apposite Tabelle di legge, ma anche tutte le altre di cui sia dimostrata la causa lavorativa.

    Secondo un’interpretazione aderente all’evoluzione delle forme di organizzazione dei processi produttivi ed alla crescente attenzione ai profili di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, la nozione di causa lavorativa consente di ricomprendere non solo la nocività delle lavorazioni in cui si sviluppa il ciclo produttivo aziendale, siano esse tabellate o non, ma anche quella riconducibile all’organizzazione aziendale delle attività lavorative.

    I disturbi psichici quindi possono essere considerati di origine professionale solo se sono causati, o concausati in modo prevalente, da specifiche e particolari condizioni dell’attività e della organizzazione del lavoro.

    Si ritiene che tali condizioni ricorrano esclusivamente in presenza di situazioni di incongruenza delle scelte in ambito organizzativo, situazioni definibili con l’espressione “costrittività organizzativa”.

    Le situazioni di “costrittività organizzativa” più ricorrenti sono:

    §             la marginalizzazione dell’attività lavorativa;

    §             lo svuotamento delle mansioni; la mancata assegnazione dei compiti lavorativi, con inattività forzata;

    §             la mancata assegnazione degli strumenti di lavoro; ripetuti trasferimenti ingiustificati;

    §             prolungata attribuzione di compiti dequalificanti rispetto al profilo professionale posseduto;

    §             prolungata attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi anche in relazione a eventuali condizioni di handicap psicofisici;

    §             impedimento sistematico e strutturale nell’accesso a notizie; inadeguatezza strutturale e sistematica delle informazioni inerenti l’ordinaria attività di lavoro;

    §             esclusione reiterata del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e aggiornamento professionale;

    §             esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo.

    Nel rischio tutelato può essere compreso anche il cosiddetto “mobbing strategico” specificamente ricollegabile a finalità lavorative. Si ribadisce tuttavia che le azioni finalizzate ad allontanare o emarginare il lavoratore rivestono rilevanza assicurativa solo se si concretizzano in una delle situazioni di “costrittività organizzativa” di cui all’elenco sopra riportato o in altre ad esse assimilabili.

    Le incongruenze organizzative, inoltre, devono avere caratteristiche strutturali, durature ed oggettive e, come tali, verificabili e documentabili tramite riscontri altrettanto oggettivi e non suscettibili di discrezionalità interpretativa.

    Come per tutte le altre malattie non tabellate, l’assicurato ha l’obbligo di produrre la documentazione idonea a supportare la propria richiesta per quanto concerne sia il rischio sia la malattia. L’Istituto, da parte sua, ha il potere-dovere di verificare l’esistenza dei presupposti dell’ asserito diritto, anche mediante l’impegno partecipativo nella ricostruzione degli elementi probatori del nesso eziologico. L’esperienza fin qui maturata ha dimostrato che non sempre sono producibili dall’assicurato, o acquisibili dall’Istituto, prove documentali sufficienti. È perciò necessario procedere ad indagini ispettive per raccogliere le prove testimoniali dei colleghi di lavoro, del datore di lavoro, del responsabile dei servizi di prevenzione e protezione delle aziende e di ogni persona informata sui fatti allo scopo di acquisire riscontri oggettivi di quanto dichiarato dall’assicurato e di integrare gli elementi probatori prodotti dall’assicurato.

    Ulteriori elementi potranno essere attinti dall’eventuale accertamento dei fatti esperito in sede giudiziale o in sede di vigilanza ispettiva da parte della Direzione Provinciale del Lavoro o dei competenti uffici delle AA.SS.LL..

    Come per tutte le altre malattie professionali, l’indagine ispettiva mirata ad acquisire i riscontri oggettivi nonché gli eventuali elementi integrativi di quanto asserito e prodotto dall’assicurato dovrà essere attivata su richiesta della funzione sanitaria, che provvederà anche ad indicare gli specifici aspetti da indagare.

    Diversamente invece dalle altre malattie professionali, per le quali l’intervento ispettivo è previsto solo se necessario, per le patologie in oggetto l’indagine ispettiva deve essere sempre effettuata. Fanno ovviamente eccezione le ipotesi in cui la funzione sanitaria, già al termine della prima fase istruttoria, giunge alla definizione negativa del caso, per l’assenza della malattia o per la certezza della esclusione della sua origine professionale.

     

    11.Conclusioni

    Relazioni interpersonali difficili a causa dell'ambiguità di ruoli e mansioni o di un'organizzazione del lavoro non curata, mancata valorizzazione di competenze e abilità, sovraccarico o sottocarico lavorativo, cultura aziendale improntata sull'esasperazione gerarchica e sulla competitività interpersonale, sulla riduzione dei costi e l'aumento della produttività e dei profitti senza badare alla qualità del prodotto, del servizio e del lavoro, mancanza di risorse, fasi di pesante riorganizzazione aziendale, come fusioni, ristrutturazioni, ecc., trascuratezza e incapacità ad affrontare e risolvere tempestivamente i problemi; gli ambienti di lavoro che si dovessero caratterizzare per la presenze delle fattispecie appena elencate saranno ambienti a forte rischio mobbing.

    In questi ambienti potranno prendere corpo atti e comportamenti aggressivi, persecutori, offesivi da parte di qualcuno verso qualcun altro senza che nessuno intervenga.

    Se questo nuovo rischio lavorativo non sarà tempestivamente individuato e riconosciuto e quindi prevenuto e contrastato adeguatamente potrà provocare danni e conseguenze pesanti, a volte irreversibili, alla dignità e alla salute fisica e mentale delle persone coinvolte, danni economici e d'immagine all'azienda che li tollera, costi umani, sociali ed economici fuori del posto di lavoro.

    E’ necessario adottare un approccio globale al fenomeno del mobbing. Per una sua corretta valutazione è indispensabile analizzare il contesto socioculturale e lavorativo in cui si collocano i singoli episodi ed anche i diversi punti di vista dei soggetti coinvolti.

    Quest'approccio globale è la premessa necessaria per raggiungere un consenso sulla portata del problema, sulla genesi dei singoli episodi e sulle misure da adottare per porvi rimedio.

    Tutto ciò per capire le molteplici sfaccettature del fenomeno e, quindi, anche per individuare quali soggetti devono attivarsi, a quali livelli, e quali strumenti o servizi possono essere offerti per una efficace prevenzione del fenomeno.

    Per individuare la complessità del problema basta fare un semplice elenco dei principali soggetti potenzialmente coinvolti: l’aggressore, la vittima, i colleghi, il rappresentante per la sicurezza, il delegato sindacale, il sindacato esterno, la famiglia, ecc..

    E' quasi banale constatare che se il fenomeno mobbing o i singoli casi vengono osservati dal punto di vista di ciascuno di questi soggetti, con ogni probabilità emergeranno molteplici e contrastanti definizioni dello stesso.

    Al sindacato in questo momento dovrebbe interessare far conoscere il proprio punto di vista e confrontarlo con quello degli altri soggetti, in particolare con quello delle aziende, che purtroppo però sono le grandi assenti nelle molte occasioni di dibattito pubblico. L'arma migliore, dopo un'opportuna azione di sensibilizzazione e formazione dei propri dirigenti e delegati, in particolare modo dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, resta infatti il confronto con le aziende finalizzato all'adozione di sistemi o codici per la prevenzione e gestione delle molestie morali che insorgono a causa del lavoro.

     

    Per chi intende tutelare i diritti dei lavoratori, il mobbing è violenza e, in quanto tale, illecita, sempre, anche a prescindere dalle caratteristiche del bersaglio e dal contesto organizzativo in cui nasce. Subito dopo però va detto che per il sindacato la sola e concreta soluzione del problema sta proprio nell'analisi accurata dei fattori interni alle organizzazioni che di volta in volta scatenano il mobbing.

    Il sindacato non può permettersi di attendere la legge per agire. Le basi giuridiche per un intervento ci sono già.

    Basti solo pensare all'art. 2087 del codice civile e all'impianto generale del D.lgs 626/94, quando stabilisce che il datore di lavoro deve adattare il lavoro all'uomo e non viceversa, deve valutare ogni rischio per la salute e sicurezza e adottare misure di prevenzione efficaci, insieme ai lavoratori e ai loro rappresentanti per la sicurezza e utilizzando il Servizio di prevenzione e protezione e il medico competente.

    Ciò detto è evidente che il sindacato in azienda può fare molto a tutela dei diritti dei lavoratori semplicemente imparando ad utilizzare spazi, regole e poteri di consultazione, contrattuali e legislativi che già ci sono.

     

    Sarebbe così ideale seguire dei passaggi obbligati quando si presenta un caso di mobbing:

    1.           se nell'azienda c’è il sindacato, l’interessato dovrebbe rivolgersi prima di tutto al Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza o, in sua assenza, alla Rsu o Rsa. L'obiettivo assegnato al delegato è aprire un confronto con l'azienda che porti ad analizzare il caso con l'ausilio del Servizio di prevenzione e di protezione e del medico competente, individuando e rimuovendo così le cause che l'hanno provocato; ovviamente se le cause sono interne all'organizzazione;

    2.           Se i delegati aziendali non riescono ad aprire un confronto serio con l’azienda per bloccare il mobbing, a volte perché non si sentono preparati ad affrontare queste tematiche, a volte per indisponibilità della controparte, allora occorre investire del problema il sindacato esterno, di categoria in primo luogo, fino a giungere, se necessario, al sindacato nazionale se si tratta di grandi aziende pubbliche o private con più unità produttive distribuite sul territorio nazionale. L'obiettivo in quest'ultimo caso potrebbe andare oltre la soluzione del singolo caso e acquisire una più vasta portata. Si potrebbe ad esempio valutare insieme alla controparte datoriale l'incidenza del fenomeno nelle aziende del gruppo e in relazione a questa decidere di adottare veri e propri codici di comportamento anti-mobbing da allegare ai contratti nazionali o aziendali.

    3.           Se il confronto sindacato-azienda non dovesse dare esiti soddisfacenti occorrerà purtroppo prendere in considerazione la strada della denuncia e quindi della vertenza legale, allertando gli Uffici vertenze di categoria o confederali che il sindacato mette a disposizione dei propri iscritti curando la loro sensibilizzazione sul problema.

    Durante tutto questo percorso, infine, il sindacato deve coltivare e sviluppare nei propri terminali, siano essi funzionari dirigenti e delegati, sportelli o uffici vertenze; la capacità di ascolto, di valutazione dell' attendibilità dei ricorrenti e di orientamento, se necessario, verso Servizi di diagnosi e sostegno psicologico presenti nel territorio.

    Sarebbe indispensabile anche esercitare una pressione sulle istituzioni affinché sia garantito il diritto costituzionale alla salute tramite la promozione di un sistema di servizi sanitari, sempre più capaci di interpretare e rispondere anche alle richieste ed esigenze che emergono dai posti di lavoro.

    Questa è per sommi capi la linea di comportamento che il sindacato dovrebbe portare avanti. Non tutte le categorie, i delegati e gli stessi responsabili della sicurezza sono però oggi in grado di affrontare correttamente questa tematica così ostica e complessa. Per contrastarla concretamente servirà del tempo.

     

     

     

    FONTI

     

    SENTENZE DEI TRIBUNALI

    Tribunale Torino, sezione lavoro, 16-10-1999

    Tribunale Torino, sezione lavoro, 11-12-1999

    Tribunale Torino, sezione lavoro, 30-12-1999.

    Tribunale Milano, sezione lavoro, 26-04-2000

    Tribunale Milano, sezione lavoro, 20-05-2000

    Tribunale Pisa, sezione lavoro, 27-06-2000

    Tribunale Lecce, sezione lavoro, 20-07-2000

    Tribunale Bari, sezione lavoro, 29-09-2000

    Tribunale Milano, sezione lavoro, 19-12-2000

    Tribunale Forlì, sezione lavoro, 23-02-2001

    Tribunale Pisa, sezione lavoro, 27-02-2001

    Tribunale Milano, sezione lavoro, 15-03-2001

    Tribunale Forlì, sezione lavoro, 15-03-2001, n. 1234

    Tribunale Milano, sezione lavoro, I grado, 16-03-2001

    Tribunale Milano, sezione lavoro, 26-04-2001

    Tribunale Milano, sezione lavoro, 04-05-2001

    Tribunale Como, sentenza 22-05-2001

    Tribunale Milano, sezione lavoro, 14-06-2001

    Tribunale di Roma, sezione lavoro, 21 giugno 2001

    Tribunale Pisa, sezione lavoro, 13-07-2001

    Tribunale Lecce, sezione lavoro, 20-07-2001.

    Tribunale Torino, sezione lavoro, 10-08-2001

    Tribunale Pisa, sezione lavoro, 23-08-2001

    Tribunale Lecce, sezione lavoro, 23-08-2001.

    Tribunale Bari, sezione lavoro, 29-09-2001.

    Tribunale Pisa, sezione lavoro, 03-10-2001

    Tribunale di Roma, sezione lavoro, 9 ottobre 2001

    Tribunale Torino, sezione lavoro, 06-10-2001.

    Tribunale Milano, sezione lavoro, 19-12-2001.

    Tribunale Pisa, sezione lavoro, 19-12-2001.

    Tribunale Taranto, sezione lavoro, sentenza 7-12-2001, n. 2948/2001.

    Tribunale di Lecce, sezione lavoro, 02 maggio 2002.

    Tribunale Napoli, sezione lavoro, 03-05-2002

    Tribunale di Roma, sezione lavoro, 16 agosto 2002

    Tribunale Lecce, sezione lavoro, 29-11-2002

    Tribunale di Siena, sezione lavoro, 13 dicembre 2002

    Tribunale di Torino, sezione lavoro, 18 dicembre 2002

    Tribunale Venezia, sezione lavoro, 15-01-2003

    Tribunale di Sulmona, sezione lavoro, 27 gennaio 2003

    Tribunale di Forlì, sentenza lavoro, 30 gennaio 2003

    Tribunale di Tempio Pausania, sezione lavoro, 10 luglio 2003

    Tribunale Trieste, sezione lavoro, 23-09-2003

    Tribunale Marsala, sezione lavoro, 13-11-2003

    Tribunale Pinerolo, sezione lavoro, 02-04-2004, n. 119

     

    SENTENZE CORTE COSTITUZIONALE

    Sentenza 2-11-2000 n. 459

    Sentenza 359/2003

    Sentenza 06-04-2004 n. 113

     

    SENTENZE CORTE DI CASSAZIONE

    Sentenza 10-11-1999 n. 12492

    Sentenza 19-11-1999 n. 12903

    Sentenza 5491/2000

    Sentenza 143/2000

    Sentenza 02-01-2002 n. 10

    Sentenza 15-01-2004 n. 515

    Sentenza 04-05-2004 n.8438

     

    SENTENZE CORTE D’APPELLO

    Bari, 31/01/2002

     

     

     

    FONTI TELEMATICHE

     

    http://www.cgil.it/saluteesicurezza

    http://www.dirittolavoro.altervista.org

    http://www.ecn.org

    http://www.fezzi.it

    http://www.fpcgil.it/ufficio_giuridico

    http://www.intrage.it

    http://www.gildains.it/nomobbing

    http://www.governo.it/governoinforma/dossier/mobbing

    http://www.guide.supereva.it/saluteesicurezzasullavoro

    http://hosting.iol.it

    http://www.mobbing.comunitaeuropea.com

    http://www.stop-mobbing.it

    http://www.xoomer.virgilio.it/abesal/reatiincasodimobbing.htm

    http://www.unipd-org.iperv.it/pariopportunità/mobbing/mobbing.htm

    http://www.uil.it/mobbing

    http://www.unicam.it

     

    “Mobbing e spleen” di Silvia Bassino su http://www.aidp.it

    “La sindrome da mobbing” di Pierguido Soprani su http://www.promo.24oreprofessionali.ilsole24ore.com

     

    Via G.B. Morgagni 27 - 00161 ROMA - Tel: ++39 06 44.11.41  fax: ++39 06 44.23.58.49

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