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Il Consiglio di Stato boccia il progetto di testo unico in materia

di salute e sicurezza

 

Il governo ha incassato un’altra bocciatura sullo schema di decreto legislativo in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Dopo il parere negativo delle Regioni (eccezion fatta per il Lazio prima delle elezioni regionali), il progetto di decreto legislativo approntato dai tecnici ministeriali ha trovato sulla propria strada i rilievi critici del Consiglio di Stato, che lo ha letteralmente “smontato” dal punto di vista della coerenza rispetto ai principi sanciti dal nuovo Titolo V  della Costituzione.

Infatti, la Sezione consultiva per gli atti normativi di Palazzo Spada, nell’adunanza del 4 aprile 2005, ha espresso il proprio parere negativo sugli aspetti di sistema relativi al riparto di competenze tra Stato e Regioni, soffermandosi poi su alcuni punti critici riguardanti gli aspetti sostanziali della normativa proposta dall’esecutivo.

 

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In sintesi, per quanto concerne gli aspetti costituzionali, il Consiglio di Stato ha ribadito quanto già rilevato nel parere interlocutorio reso nell’adunanza del 31 gennaio 2005, e cioè che il governo avrebbe dovuto esplicitare nel testo quali norme ricadevano nel novero dei “principi fondamentali” tali da orientare la potestà legislativa concorrente delle Regioni (art. 117, comma 3, Cost.), quali rientravano nelle disposizioni di dettaglio di recepimento delle direttive comunitarie e, infine, quelle ricadenti nelle disposizioni di dettaglio previgenti. Non avendo il governo accolto tali rilievi, il parere non poteva non risultare negativo.

Occorre tuttavia sottolineare il fatto che il governo, nel rispondere al primo parere interlocutorio, aveva fatto presente al Consiglio di Stato che, a suo avviso, tutto lo schema di decreto legislativo (a parte  i Capi VII e VIII del Titolo I, ossia quelli riguardanti la “Informazione e formazione dei lavoratori” e le “Disposizioni concernenti la pubblica amministrazione”) avrebbe dovuto essere inquadrato nella potestà legislativa esclusiva dello Stato in quanto riguardante la materia “ordinamento civile” (art. 117, comma 2, lett. l). Ciò sulla scorta della più recente giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui tutto ciò che riguarda i rapporti intersoggettivi tra datore e lavoratore deve essere ricompresa nella menzionata materia “ordinamento civile” (v. soprattutto Corte cost. n. 50/2005 e n. 359/2003).

In sintesi, a parere del governo, solamente i Capi VII e VIII del Titolo I della bozza di T.U. dovrebbero essere oggetto di competenza legislativa “concorrente” tra Stato e Regioni, secondo lo schema per cui al primo compete solamente la definizione dei “principi fondamentali” della materia “tutela e sicurezza del lavoro” (art. 117, comma 3, Cost.).

Una posizione del genere, in linea di massima condivisibile, è stata letteralmente abbattuta dal Consiglio di Stato. A pagina 6 del parere si leggono alcune affermazioni che devono essere sottolineate per la loro gravità, a testimonianza di quanto sia stato incauto – da parte del legislatore del 2001 - ricomprendere nella potestà legislativa concorrente tra Stato e Regioni la materia “tutela e sicurezza del lavoro”.

Testualmente: “..nel caso in esame non si è, in linea di massima, in presenza di una normativa riconducibile, in via diretta o indiretta, alla disciplina intersoggettiva del rapporto di lavoro.

Le prescrizioni finalizzate alla tutela e alla sicurezza e alla salute dei lavoratori non costituiscono, infatti, il frutto dell’autonomia contrattuale delle parti, ma vengono eteroimposte per finalità diverse da quelle, rientranti nell’ordinamento civile, relative alla predetta disciplina; si tratta di prescrizioni che, pur riverberandosi sul rapporto di lavoro, riguardano il profilo specifico della sicurezza e concorrono a determinare le soglie inderogabili di cui l’ordinamento intende assicurare il rispetto”.

 In definitiva, secondo il Consiglio di Stato, “..non sembra potersi giungere a ritenere che il nucleo essenziale del complesso normativo in esame appartenga alla materia dell’ordinamento civile”.

Tale posizione non è affatto condivisibile: affermare che le prescrizioni in materia di salute e sicurezza non sono il frutto dell’autonomia individuale è sicuramente corretto (nel senso che non sono certamente le parti del rapporto di lavoro a crearle o a sceglierle), ma negare implicitamente che esse si inseriscano automaticamente nel contratto di lavoro, regolandolo, perché così vuole la legge (sia di rango costituzionale che ordinario) significa non avere la consapevolezza di cosa è stato e cosa è tuttora il diritto del lavoro: un sistema di norme “eteroimposte” dall’ordinamento a tutela del prestatore di lavoro. Prova ne sia il fatto che la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 del codice civile viene comunemente definita come di natura “contrattuale”.

Ragionando nei termini argomentativi del Consiglio di Stato si giungerebbe al paradossale risultato che anche, ad esempio, le norme che limitano la libertà di licenziamento dovrebbero considerarsi oggetto di competenza concorrente tra Stato e Regioni, perché “eteroimposte”.

Ma così, ovviamente, non è.

In ogni caso il parere conclude tale (criticabile) ragionamento affermando che il governo avrebbe dovuto evidenziare puntualmente e analiticamente, nello schema di decreto legislativo, la presenza di “eventuali, limitati, ambiti riconducibili alla esclusiva competenza legislativa statale”.

In definitiva si potrebbe dire che, nonostante il parere sia contrario al governo, il “rimedio” apprestato dal Consiglio di Stato potrebbe rivelarsi “peggiore del male”.

 

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Per quanto riguarda gli altri aspetti, occorre sottolineare che il parere del Consiglio di Stato ha avuto modo di affrontare le seguenti problematiche:

 

1) Norme di buona tecnica

Per comprendere i rilievi critici presenti nel parere, occorre preliminarmente dare conto del fatto che, a giudizio del Consiglio di Stato, nelle materie di legislazione concorrente non è consentito allo Stato dettare disposizioni normative innovative di dettaglio (essendo questo un compito delle Regioni); l’unico spazio concessogli dalla Costituzione può, semmai, consistere nella mera ricognizione della normativa di dettaglio già presente nell’ordinamento, in attesa che le Regioni intervengano per sostituirla con la propria attività normativa (si parla, infatti, di criterio di “cedevolezza” delle norme di dettaglio statali rispetto a quelle regionali). In tale ottica, quindi, il fatto che l’articolo 5, comma 1, lettera l), dello schema preveda la “trasformazione” automatica delle norme di dettaglio contenute nei D.P.R. degli anni ’50 in “norme di buona tecnica”, contrasta con l’impossibilità, da parte dello Stato, di innovare nell’ambito della legislazione di dettaglio.

D’altra parte, a parere del Consiglio di Stato, il fatto che le Regioni – in prospettiva – possano legiferare su materie assistite da sanzione penale (come quelle di cui si discute) viene dato per scontato: utilizzando il concetto di “norma penale (statale) in bianco”, viene così concesso alle Regioni il potere di “determinare i presupposti di applicazione della norma penale statale” (ovviamente senza intervenire sulla determinazione quantitativa della sanzione): insomma, le Regioni possono legittimamente integrare il precetto statale posto a base della irrogazione della sanzione.

In sintesi, lo schema di decreto avrebbe dovuto provvedere esclusivamente ad operare una semplice ricognizione delle norme di dettaglio, senza operare quella trasformazione di cui si è parlato.

 

2) La questione dell’articolo 2087 del codice civile

Come è noto, l’art. 1, comma 4, dello schema di decreto afferma testualmente “l’osservanza delle prescrizioni del presente decreto legislativo, nonché delle norme di buona tecnica e delle buone prassi di cui all’art. 5, comma 1, lettere l) ed m), costituiscono attuazione dell’articolo 2087 del codice civile”. Alle osservazioni critiche già mosse da più parti contro questa pericolosa determinazione normativa (e che, per brevità, qui non ribadiamo), si aggiunge ora anche il rilievo critico del Consiglio di Stato, a parere del quale “se così fosse, ne risulterebbe un evidente abbassamento del livello di tutela” per i lavoratori.

Il suggerimento al governo è quindi quello di riformulare la disposizione nel senso di intendere il rispetto del decreto legislativo come “una delle forme di attuazione dell’articolo 2087 del codice civile, senza esaurirne la portata precettiva”.

Un solo ultimo aspetto ci preme evidenziare: quello in cui il Consiglio di Stato afferma che “la sicurezza del lavoratore costituisce un bene di rilevanza costituzionale (art. 41, secondo comma) che impone – a chi si avvalga di una prestazione lavorativa eseguita in stato di subordinazione – di anteporre al proprio legittimo profitto la sicurezza di chi tale prestazione esegua”.

Nulla da obiettare sul riferimento alla norma costituzionale in sé.

Molto da riflettere se, invece, consideriamo la tutela della salute del lavoratore come un bene primario derivante dall’articolo 32 della Costituzione, tutelato in assoluto e senza condizionamenti relativi allo “stato di subordinazione” o meno del lavoratore.

 

3) Eliminazione e riduzione dei rischi

Infine, il Consiglio di Stato ha suggerito l’eliminazione della modifica, già da noi aspramente criticata, riguardante il riferimento (contenuto nell’art. 6, comma 1, lett. b) e c) ai fini della eliminazione e della riduzione dei rischi) alle misure tecniche, organizzative e procedurali “concretamente attuabili nei diversi settori e nelle differenti lavorazioni in quanto generalmente utilizzate” e alle applicazioni tecnologiche “generalmente praticate”.

 

 Roma 26 aprile 2005                                                                             

 

                                                                                              Ufficio giuridico Cgil

                                           Lorenzo Fassina

 

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