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Area Politiche Vertenziali e Legali
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3/02/04
Prot.
n° 16
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Coordinatori Regionali INCA |
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Direttori Compr.li INCA |
Agli |
Uffici INCA all’Estero |
Al |
Dip. Politiche Sociali CGIL |
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LORO SEDI |
NB. La
presente circolare va portata a conoscenza degli Uffici Immigrati e degli Uffici
Vertenze Cgil operanti sul territorio.
Oggetto: Decisioni
giudiziarie d’interesse per l’area immigrazione (aggiornamento n. 2)
Cari Compagni,
facciamo seguito alla nostra
precedente circolare n. 136 del
13.11.2003, per segnalare alle strutture ulteriori decisioni giudiziarie e note
di commento, d’interesse per l’area immigrazione.
REGOLARIZZAZIONE
LAVORATORI STRANIERI, CITTADINI EXTRACOMUNITARI (articolo 33 legge 189/02 e
decreto legge n. 195/02 convertito con modificazioni in legge 9.10.02 n. 222)
1.- Lavoratori truffati
A completamento del quadro fornito
con la circolare citata, alleghiamo l’Ordinanza
n. 746/2003 emessa dal Tribunale di
Pordenone il 24.10.2003 (ricorso art. 700 c.p.c.), in relazione alla
problematica dei lavoratori truffati.
Il caso, patrocinato dall’avvocato
Giuseppe Gennari di Udine, riguarda tre lavoratori senegalesi che si sono
rivolti alle locali strutture Cgil e Alef, preoccupati dall’assenza di notizie
in ordine alla chiamata in prefettura, per il completamento della procedura di
regolarizzazione e di rilascio del permesso di soggiorno. Gli incaricati della
ditta avevano sottoscritto la dichiarazione di emersione e, almeno in
apparenza, versato il prescritto contributo a titolo di oneri previdenziali. In
realtà, le ricerche all’uopo effettuate consentivano di appurare l’inesistenza
di procedure pendenti in loro favore.
Con l’Ordinanza del 24.10.03 citata,
il Tribunale, ravvisando che sussistono gli elementi per ritenere che i
ricorrenti hanno effettivamente lavorato per la ditta Publisport di Bassi Ilda
e Casco Nicola, ha ordinato alla ditta di consegnare tutta la documentazione in
originale relativa alle procedure di emersione e di denunciare alla Prefettura,
alla Questura e all’Ispettorato del Lavoro di Udine la sussistenza dei rapporti
di lavoro subordinato dei ricorrenti. Detto Tribunale ha, altresì, ordinato la
restituzione, ai medesimi ricorrenti, della somma di euro 800 ciascuno,
corrispondente all’importo del contributo forfetario per la regolarizzazione (contributo
che, come ben si comprende, è stato fatto anticipare ai lavoratori).
Attualmente, il caso è pendente per
la discussione di merito.
2.- lavoratori denunciati (causa ostativa) e principio di
non colpevolezza: rinvio alla Corte Costituzionale (TAR Lombardia)
Sul punto relativo alla fattispecie
dei lavoratori extracomunitari
denunciati (causa ostativa alla procedura di regolarizzazione) vi è da
segnalare che la posizione del TAR di
Catania, del 16.10.2003 n. 1604, di cui abbiamo dato conto nella nostra
precedente circolare, è confortata da ulteriori tre decisioni del TAR Veneto, in rapporto alle garanzie
dell’articolo 27 della Costituzione (principio di non colpevolezza).
Segnatamente, si tratta delle
sentenze numero 6.145 e 6.149 dell’11.12.03, e n. 6.196 del 16.12.2003, che
potete consultare, insieme ad una nota di commento del 13.01.04 a cura
dell’avvocato Marco Paggi, sul sito (Internet) www.meltingpot.org (pagina “sans papiers”)[1].
Ciò detto, un ulteriore elemento di
novità proviene dal TAR Lombardia
(sezione staccata di Brescia, Presidente Mariuzzo), il quale con l’Ordinanza n. 1376/03 del 31.10.03,
depositata il 7.11.03, ha sollevato questione di legittimità costituzionale in
relazione al disposto dell’art. 1, comma 8, lettera c) del DL 195/02
(convertito in legge 222/02) nella parte in cui ricollega alla mera denuncia
per uno dei reati indicati negli articoli 380 e 381 c.p.p. la reiezione della
domanda di regolarizzazione, senza esigere che a detta denuncia faccia seguito
condanna, sia pur non definitiva (procedimento Guardo Maurizio c/ Prefettura e
Ministero dell’Interno).
Il pensiero del collegio giudicante
muove, in primo luogo, dall’interesse,
che la legalizzazione del rapporto di lavoro costituisce per
l’interessato, data la sua condizione di “cittadino extracomunitario”. E, in
effetti, le aspettative legate al dispositivo in esame sono, per l’appunto, il
rilascio del permesso di soggiorno e, con esso, la possibilità di permanere in
Italia e di prestarvi un’attività lavorativa, potendo usufruire di tutte le
altre garanzie costituzionalmente protette. La norma considerata lede il
raggiungimento di questo obiettivo e si pone in contrasto col principio di
ragionevolezza là dove fa dipendere una vicenda “fondamentale per la vita di un
soggetto straniero, dalla semplice ricorrenza, o meno, di una notizia criminis da chiunque provenga,
senza alcuna preventiva verifica ancorché sommaria, della sua fondatezza”
(quale potrebbe, se del caso, essere effettuata quanto meno con il rinvio a
giudizio dell’imputato). A questo primo gruppo di motivi, per cui il Tribunale
chiede l’esame in rapporto ai principi fissati negli articoli 2, 3 e 4 della
Costituzione, si aggiungono i dubbi sotto il profilo del successivo art. 27,
comma 2 (qualificazione del “principio di colpevolezza”), il che,
implicitamente, chiama in campo ulteriori due criteri fondanti la Costituzione italiana, i quali sono
ugualmente iscritti tra i valori fondamentali protetti dalla Convenzione europea
di salvaguardia dei diritti dell’uomo (presunzione di innocenza fino alla
pronuncia di una condanna definitiva e diritto al giusto processo).
2.- RICONGIUNGIMENTI
FAMILIARI
Sulla questione siamo in grado di
segnalare le seguenti decisioni.
Corte di Cassazione,
sezione prima, sentenza n. 14545, depositata il 1.10.2003 (Oduro ed altri).
Tribunale di COMO, 10 dicembre 2003 - Cron. 3152, v.g. 1582/03 (Nwume
Jessica, patrocinata dall’avv. Alessandro Movagaro e il CLAS di Como)
Tribunale di Padova (Sezione distaccata di Cittadella), 28 luglio
2003 – N. 80266/03 NC (Sahir Mounir,
patrocinato dall’avv. Marco Paggi di Padova)
Le questioni al centro della
presente circolare (specie quelle riferite al tema dei lavoratori truffati e
dei ricongiungimenti familiari) hanno dato luogo ad alcuni pronunciamenti anche
da parte del Tribunale di Milano. Sarà, di conseguenza, nostra cura trasmetterle
alle strutture, non appena ne saremo in possesso.
Con fraterni saluti.
p. Il Collegio di
Presidenza p.
il settore politiche del lavoro e cittadinanza immigrati
Enrico Moroni Gina
Turatto
Sentenze incluse nella presente circolare:
TAR CATANIA, 16.10.2003 n. 1604
CASSAZIONE, sentenza n. 14545 del 1.10.2003
TRIBUNALE COMO, sentenza n. 1582/03 del 10.12.2003
TRIBUNALE PADOVA (sez. Cittadella), sentenza n. 80266/03 del
28.07.03
Sentenze allegate a parte:
TRIBUNALE PORDENONE, Ordinanza n. 746/2003 del 24.10.2003
TAR BRESCIA, Ordinanza n. 1376/02 del 31.10-7.11.2003
TAR CATANIA – Sezione seconda –
sentenza 16 ottobre 2003, n. 1604
Presidente Schillaci – estensore
Savasta
Ricorrente Shbm
Fatto e diritto
I. Il ricorrente, avvalendosi delle
disposizioni di cui alla legge 222/02, ha presentato, tramite il proprio datore
di lavoro, titolare di un avviato ristorante, domanda di legalizzazione di
lavoro irregolare.
Con provvedimento del 5 giugno 2003 la Prefettura di
Messina ha decretato il respingimento dell’istanza di regolarizzazione di
lavoro irregolare adducendo, come motivazione, la mancata «concessione del
nulla-osta per il rilascio del permesso di soggiorno in quanto il medesimo
risulta essere stato denunciato all’autorità giudiziaria per il reato di rapina
in concorso in danno di altro cittadino extracomunitario» e che «non è
possibile procedere alla regolarizzazione del rapporto di lavoro svolto dal
suddetto cittadino tunisino in quanto, essendo stato denunciato per una
fattispecie di reato contemplata dall’ articolo 380 Cpp ricorre uno dei motivi ostativi
di cui all’articolo 1 comma 8 lettera c) del decreto legge 195/02 come
modificato dalla legge 222/02».
Con ricorso, notificato il 28 luglio 2003, depositato il
7 agosto 2003, il ricorrente ha impugnato detti provvedimenti.
Il gravame è stato supportato dalle seguenti
considerazioni in diritto: violazione e falsa applicazione dell’articolo 1
comma 8 decreto legge 195/02 convertito in legge 222/02. Difetto di
istruttoria. Difetto di motivazione i provvedimenti impugnati sarebbero fondati
su una lettura non corretta della norma calendata, in quanto si riferiscono
esclusivamente all’esistenza di una denuncia senza tenere conto della
possibilità che, nei tempi richiesti dalla giustizia, il procedimento penale
possa concludersi con esiti favorevoli al ricorrente.
Il Prefetto di Messina, quindi, avrebbe violato
l’articolo 1, comma 8, lettera c) della legge 222/02, arrestando la procedura e
decretando il rigetto dell’istanza di regolarizzazione prima ancora della
conclusione del procedimento penale, almeno in primo grado.
La disposizione in esame, invero, andrebbe letta nel
senso di impedire la regolarizzazione fino a quando è pendente una denuncia, ma
con un provvedimento, tuttavia, che non comporti il rigetto dell’istanza del
lavoratore ma, al limite, sospenda ogni determinazione in attesa dell’esito del
procedimento penale.
Ove non interpretata nel modo prospettato, la norma non
sfuggirebbe al sospetto di illegittimità costituzionale per contrasto con gli
articoli 3 e 27 Costituzione e, pertanto, andrebbe sospeso il giudizio, al fine
di investire il Giudice delle leggi della relativa questione.
II. Il Collegio ritiene che i rilievi mossi dal
ricorrente all’operato dell’Amministrazione debbano essere condivisi.
L’articolo 1, comma 8, lettera c) della legge 222/02
stabilisce l’impossibilità della regolarizzazione del rapporto di lavoro ove i
lavoratori extracomunitari «risultino denunciati per uno dei reati indicati
negli articoli 380 e 381 del codice di procedura penale, salvo che il
procedimento penale si sia concluso con un provvedimento che abbia dichiarato
che il fatto non sussiste o non costituisce reato o che l’interessato non lo ha
commesso, ovvero nei casi di archiviazione previsti dall’articolo 411 del
codice di procedura penale». Il dettato normativo, seppur incerto nella sua
formulazione, non sembra al Collegio possa interpretarsi secondo l’accezione
dell’Amministrazione resistente, posto che lo stesso non si limita a stabilire
l’impossibilità di regolarizzazione, ma anche che il proscioglimento del denunciato
obbliga, ove non vi siano altri motivi ostativi, all’assenso amministrativo.
La suddetta interpretazione appare quella più corretta,
intanto, sotto l’aspetto logico, posto che, aderendo all’impostazione
apparentemente letterale seguita dall’Amministrazione, risulterebbero sforniti
di tutela tutti gli extracomunitari anche a fronte di strumentali ed infondate
denunce, in quanto ritenute, quindi, già sufficienti a paralizzare
definitivamente l’interesse alla regolarizzazione.
L’interpretazione prospettata dall’Amministrazione,
inoltre, contrasterebbe palesemente con l’articolo 3 della Costituzione, in
quanto consentirebbe una disparità di trattamento legata ad eventi del tutto
indipendenti dal soggetto interessato.
A tal proposito è sufficiente osservare che l’esito
finale negativo del procedimento di legalizzazione, se collegato alla semplice
denuncia e non all’esito finale del processo, conduce a penalizzare i
“denunciati” che non hanno potuto beneficiare della celebrazione di un processo
rapido perché ricadente in Uffici giudiziari particolarmente oberati di lavoro
e, quindi, costretti a dare risposte in tempi diluiti.
In altri termini, legare l’ammissione al beneficio (rectius:
il mancato “definitivo” diniego) alla rapida definizione positiva del giudizio
(unica che potrebbe, secondo l’Amministrazione resistente, caducare l’effetto
della denuncia), significa discriminare gli extracomunitari a seconda del
«luogo della celebrazione del processo» e/o delle possibilità dell’organo
procedente o di circostanze occasionali quali, ad esempio, il numero dei
coindagati (che, se notevole, normalmente comporta difficoltà di accertamento
e, quindi, dilatazione dei tempi processuali).
Anche l’iter formativo seguito dalla norma appare
confortare tale tesi.
La lettera c) del comma 8 dell’articolo 1 della legge
222/02, nella sua stesura originaria, prima della conversione in legge del
decreto legge 195/02, non prevedeva l’ipotesi di divieto di diniego di
reiezione dell’istanza di legalizzazione legata ai casi di archiviazione
previsti dall’articolo 411 del codice di procedura penale.
L’introduzione di detto inciso, in effetti, appare ricca
di significato, ove si osservi che, indipendentemente dalle ipotesi di
archiviazione stabilite dal citato articolo 411 Cpp, in detta circostanza, ai
sensi del successivo articolo 414 Cpp, è possibile la riapertura delle indagini
su richiesta del pubblico ministero motivata dalla esigenza di nuove
investigazioni.
Ciò significa che la paralisi del diniego di
legalizzazione, diversamente da quanto stabilito nell’impostazione originaria
della norma in esame, può essere legata anche a fasi prodromiche del processo
non dotate, quindi, dell’idoneità di acquisire il crisma di definitività,
collegato unicamente dalla sussistenza di un provvedimento che abbia dichiarato
che il fatto non sussiste o non costituisce reato o che l’interessato non lo
abbia commesso.
Detta interpretazione appare, in ultimo, coerente con
l’articolo 27 della Costituzione, posto che la pendenza del procedimento
penale, per altro senza l’acquisizione della qualifica di imputato, non sembra
consentire effetti negativi “definitivi”, sia pur nei confronti dello
straniero.
Con detta affermazione il Collegio non intende concludere
che al Legislatore, in dipendenza del dettato costituzionale sopra richiamato,
sia preclusa di per sé la possibilità di impedire effetti favorevoli a spessore
esclusivamente amministrativo (quale si configura il caso per cui è ricorso)
nelle ipotesi in cui vi siano procedimenti penali in corso.
La sezione, però, osserva che, accogliendo
l’interpretazione fornita dall’Amministrazione con il provvedimento impugnato,
verrebbe rovesciato il principio contenuto in detta norma, secondo cui
l’imputato (ed in questo caso, si ribadisce, trattandosi di mera denuncia,
addirittura in assenza dell’acquisizione di detta qualifica) si presume
innocente sino alla condanna definitiva.
Conclusivamente, il Collegio ritiene che una
interpretazione adeguatrice al chiaro dettato costituzionale dell’articolo 1,
comma 8, della legge 222/02 conduca, senza necessità di remissione degli atti
al Giudice delle Leggi, all’accoglimento del gravame e, quindi,
all’annullamento degli atti impugnati.
La novità della questione suggerisce di compensare
integralmente tra le parti le spese ed onorari del giudizio.
CORTE DI CASSAZIONE – Sezione prima civile – sentenza 18 giugno -1
ottobre 2003, n. 14545
Ricorrente Oduro ed altri – controricorrente Ministero
dell’Interno
Svolgimento del
processo
Oduro
Joseph e Rockson Harriet jnr adivano il Tribunale di Modena depositando in data
21 giugno 2001 ricorso ai sensi dell’articolo 30 comma 6 decreto legge 286/98
contro il ministero degli Affari esteri in quanto l’Ambasciata Italiana in
Accra (Ghana) si rifiutava di rilasciare alla loro figlia Oduro Lilion, (nata
ad Accra (Ghana) il 16 settembre 1989) il visto per ricongiungimento familiare
ai sensi dell’articolo 29 comma i) lettera b) del decreto legge 286/98.
Il ministero degli Affari esteri non si costituiva in giudizio.
Il giudice di primo grado accoglieva il ricorso con provvedimento in data 12
luglio 2001, ordinando all’Ambasciata Italiana in Ghana il rilascio del visto
per ricongiungimento familiare in favore di Lilian Oduro.
Avverso detto provvedimento proponeva reclamo l’Avvocatura dello Stato e la
Corte di appello di Bologna accoglieva il reclamo ed annullava il decreto
1217/01 del Tribunale di Modena, ritenendo non potersi attribuire una
presunzione di veridicità alla certificazione prodotta e che i ricorrenti non
avevano sufficientemente provato il rapporto di parentela con la minore.
Avverso detto decreto i ricorrenti propongono ricorso per cassazione sulla base
di cinque motivi.
Resiste con controricorso l’amministrazione dello stato
Motivi della decisione
I ricorrenti deducono con il primo motivo di ricorso il vizio di violazione
di legge in quanto la Corte di appello, ritenendo che l’atto di nascita della
minore fosse privo di valore probatorio per la modalità di formazione di tale
atto secondo la legislazione del Ghana, avrebbe violato l’articolo 10. comma 1,
della Costituzione secondo cui gli stati esteri non sono soggetti alla
legislazione italiana.
Con il secondo motivo censurano il provvedimento impugnato sotto il profilo
della violazione di legge e del difetto motivazionale perché la Corte di
appello non aveva precisato quale documentazione avrebbe ritenuto “attendibile”
ed idonea a dimostrare lo stato di parentela e non aveva tenuto conto che
l’ulteriore documentazione sarebbe stata comunque pervenuta dal Ghana, stato
che, secondo il provvedimento impugnato, avrebbe emanato atti cui non poteva
essere attribuita prescrizione di veridicità.
Con il terzo motivo lamentano la mancata ammissione della prova richiesta per
accertare il rapporto di filiazione (prova ematica). Inoltre la Corte di appello
sarebbe incorsa in travisamento dei fatti nel ritenere contraddittorie le
deposizioni dei testi in ordine al rapporto di parentela intercorrente tra essi
e Oduno Lilian.
Con il quarto motivo di ricorso censurano la decisione impugnata perché la
Corte di appello aveva ritenuto non verosimile il racconto dei continui
andirivieni fra Italia e Repubblica del Ghana e la mancanza di disponibilità
economica necessaria per i due viaggi
della Rockson senza motivare il suo convincimento.
Con il quinto motivo deducono che la a Corte di appello aveva affermato che
essi ricorrenti avevano prodotto fotografie che non attestavano nulla potendo
essere state scattate in qualsiasi momento con ciò contraddicendo l’assunto che
tra essi ricorrenti e la minore per anni non era intervenuto alcun rapporto ne
una lettera, né una fotografia.
Il primo motivo di ricorso si rivela fondato.
Occorre rammentare che l’articolo 33 comma 3 della legge 218/95 stabilisce che
«la legge nazionale del figlio al momento della nascita regola i presupposti e
gli effetti dell’accertamento e della contestazione dello stato di figlio. Lo
stato di figlio legittimo, acquisito in base alla legge nazionale di uno dei
due genitori non può essere contestato che alla stregua di tale legge».
Da tale norma discende con ogni evidenza che la norma di diritto internazionale
privato in esame attribuisce ai provvedimenti accertativi ed alle statuizioni
giurisdizionali dello stato estero ogni determinazione in ordine al rapporto di
filiazione con conseguente inibizione al giudice italiano di sovrapporre a
quegli accertamenti fonti di informazione estranee e nazionali (Cassazione
367/03).
Nel caso di specie questo divieto risulta violato.
Il giudice italiano infatti ha effettuato una valutazione per così dire di affidabilità
dell’ordinamento dello stato civile straniero (nella specie ghanese) ritenendo
che tale sistema, basato esclusivamente,
per quanto concerne la filiazione, sulle dichiarazioni degli asseriti genitori
effettuabili anche a distanza di anni dalla avvenuta nascita del figlio, non
offriva idonee garanzie in ordine alla effettività di quanto da tale sistema
accertato e certificato e ne ha quindi escluso la presunzione di legalità e di
validità che invece li assiste (v. Cassazione, 8383/97 ed anche Sezioni unite,
2186/85).
Tale valutazione da parte di una autorità italiana in ordine alla attendibilità
e validità di una certificazione dell’ufficiale di stato civile di uno stato
estero è preclusa dal più volte citato articolo 33 della legge 218/95 che ha
rinviato in toto per quanto concerne tale accertamento alla legislazione dello
stato estero fermo restando il potere del giudice italiano di verificare
l’autenticità del documento (v. Cassazione 367/03).
Erroneamente pertanto la corte territoriale ha escluso ogni valenza probatoria
al certificato in esame che invece sussiste anche se, come già chiarito da
questa Corte, non possa assurgere al livello di fede privilegiata di cui
all’articolo 2700 Cpc (v. Cassazione 367/03).
Se così non fosse del resto, in base alla categorica e generalizzata
affermazione della corte territoriale, tutti i certificati di nascita
rilasciati ai cittadini ghanesi ed a quelli di altri stati i cui uffici dello
stato civile siano retti da analoghi principi dovrebbero essere considerati privi
di ogni valore probatorio venendosi così a creare proprio quella situazione di
totale incertezza giuridica che l’articolo 33 della legge 218/95 ha inteso
evitare riconoscendo valore probatorio alle certificazioni rilasciate in ordine
alla filiazione dai diversi stati.
A questa considerazioni deve aggiungersi che la valenza probatoria in esame
potrebbe escludersi solo se si riscontrasse nella normazione che disciplina
l’accertamento del rapporto di filiazione nello stato del Ghana una
incompatibilità con le nostre norme di ordine pubblico (articolo 16 legge
218/95). Tale circostanza invece non ricorre perché anche il nostro sistema
prevede che l’accertamento della filiazione avvenga in primo luogo sulla base
delle dichiarazioni rese dai genitori o da persone abilitate (articolo 30 Dpr
396/00) ancorché questa debbano essere rese in un ristretto lasso di tempo e
debbano essere corredate di regola dall’attestazione di avvenuta nascita
rilasciata dal medico che ha assistito al parto. Non può peraltro non rilevarsi
che il nostro ordinamento prevede che in mancanza di assistenza al parto da
parte di personale sanitario con conseguente impossibilità del rilascio della
attestazione in esame è il dichiarante che deve produrre una attestazione
sostitutiva ai sensi della legge 15/1968. Anche in tal caso quindi è solo sulla
base delle affermazioni del dichiarante che avviene l’iscrizione nei registri
delle nascite.
Il motivo merita pertanto accoglimento, restando assorbiti gli altri, e la
sentenza impugnata va cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello
di Bologna che provvederà anche in ordine alle spese.
PQM
Accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata e
rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Corte d’appello di Bologna.
TRIBUNALE ORDINARIO
DI COMO, sentenza del 10.12.2003
Cron. 3152
v.g. 1582/03
Il Giudice
…
Con ricorso
depositato in data 26.11.2003, Nwume Jessica, la cittadina nigeriana chiedeva
il ricongiungimento familiare con il figlio Peter Odion il 2.12. 1985, negato
dall’Ambasciata d’Italia a Lagos.
Evidenziava che,
invece, la Questura di Como aveva rilasciato il nulla osta per il
ricongiungimento avendo accertato reddito e abitazione adeguati.
Domandava che il
Giudice annullasse il provvedimento che negava il ricongiungimento, emesso
dall’Ambasciata italiana di Lagos, in data 9.10.2003.
Chiedeva, quindi il
rilascio del visto d’ingresso ai sensi dell’art. 29 D.LL. del 25.7.1998 n. 296,
in favore del figlio Peter per il ricongiungimento in Italia.
Evidenziava che,
era già avvenuto un ricongiungimento con un altro figlio, Paul Akhere, gemello
di Peter Odion.
Sottolineava come
il diniego dell’Ambasciata fosse fornito su asserite investigazioni, che
avrebbero accertato essere l’istante, non già la madre di Peter, bensì la
sorella.
Assurdamente, poi,
l’Ambasciata aveva chiesto a Jessica di sottoporsi in Nigeria ad esame del DNA
per accertare il rapporto patrilineare con Peter e, non già, quello fraterno.
La ricorrente
Jessica Nwume dichiarava di essere disposta a sottoporsi all’esame del DNA, ma
in Italia. Non in Nigeria, giacché non aveva il danaro per un cosi lungo
viaggio in aereo; né tale delicato esame poteva essere attuato da due medici
diversi.
Instava, pertanto
per l’annullamento del provvedimento 09.10.2003 dell’Ambasciata italiana di
Lagos.
Nella contumacia
del Ministero degli Esteri, all’udienza del 4.12.2003, alla presenza di un
funzionario della Prefettura di Como e della polizia di Stato, la ricorrente
confermava la sua richiesta.
Espletata
l’istruttoria dibattimentale, i difensori concludevano come da verbale in atti.
Motivazione
1 – La normativa
L’istanza è
proposta ai sensi dell’art. 29 D.LL. 286/98, il cui 1°comma recita:
“Lo straniero può
chiedere il ricongiungimento per i seguenti familiari:
a)…omissis
b) genitori a
carico… lo straniero che chiede il ricongiungimento deve dimostrare la
disponibilità: a) di un alloggio che rientri nei parametri minimi previsti
dalla legge regionale per gli alloggi di edilizia residenziale
pubblica,….omissis c) di un reddito
annuo derivante da fonti lecite non inferiore all’importo annuo dell’assegno
sociale se si richiede il ricongiungimento di due o tre familiari…omissis
La domanda di nulla
osta al ricongiungimento familiare, correlata della prescritta documentazione,
è presentata alla Questura del luogo di dimora del richiedente, la quale ne
rilascia copia contrassegnata con timbro datario e sigla del dipendente
incaricato del ricevimento. Il Questore, verifica l’esistenza dei requisiti di
cui al presente articolo, emette il provvedimento richiesto, ovvero un
provvedimento di diniego del nulla osta. Trascorsi trenta giorni dalla
richiesta del nulla osta, l’interessato
può ottenere il visto di ingresso direttamente dalle rappresentanze
diplomatiche e consolari italiane, dietro esibizione della copia degli atti
contrassegnata dalla Questura, da cui risulti la data di presentazione della
domanda e della relativa documentazione. Le rappresentanze diplomatiche e
consolari rilasciano altresì il visto di ingresso al seguito nei casi previsti
dal comma 5°.
Occorre
interpretare tale disposizione al fine di enucleare i requisiti dell’istituto.
Il primo elemento
necessario è la regolare posizione giuridica dello straniero in Italia, il
secondo requisito è la fruizione di un’abitazione adeguata.
L’immobile, in cui
l’istante abita deve essere consono alla propria esistenza, nonché sufficiente
ad accogliere anche le persone di cui si chiede il ricongiungimento.
Il terzo
presupposto è la retribuzione dello straniero. Deve trattarsi di introito
legittimo per l’ordinamento italiano e , al contempo, “sufficiente”.
La norma delinea
una “presumptio iuris et de iure” per cui si intende come retribuzione
“sufficiente”l’equivalente dell’importo annuo dell’assegno sociale, se trattasi
di un solo familiare. Il doppio se i familiari ricongiungenti sono due.
Questi tre elementi
finora esaminati devono essere vagliati dall’autorità di polizia locale, in
caso positivo, rilascia un nulla osta.
Tale atto
amministrativo rappresenta il punto finale di un provvedimento, che integra il
primo segmento dell’iter procedurale.
Il secondo segmento
consiste nella individuazione di altri due requisiti. 1) vivenza a carico; 2)
vincolo parentale.
Queste due
circostanze devono essere verificate dall’Ambasciata italiana nel paese di
nazionalità dell’istante.
Invero, i parenti,
candidati al ricongiungimento, devono presentare domanda all’Ambasciata
italiana territorialmente competente.
Orbene, il diniego
dell’Ambasciata è basata sulla seguente motivazione: “ Le comunichiamo che
la Sua domanda di visto è stata respinta per i seguenti motivi:
-
l’esame della documentazione prodotta non ha
evidenziato il possesso delle condizioni previste per la concessione del visto
per ricongiungimento familiare dell’art. 29 TU 286/98
In particolare, le
investigazioni effettuate dall’avvocato di fiducia di questo Consolato Generale
hanno dimostrato che la presunta madre in Italia, la sig.ra Jessica Nwume, è in
realtà la sorella” (doc. 7 ric.)
L’Ambasciata non
spiega quali siano queste investigazioni e non partecipa neanche alle ripetute
istanze della difesa e dell’associazione sostenitrice dello straniero ( doc.
8-9 )
La richiesta
dell’Ambasciata del 10.11.2003 di
sottoporre Jessica e Peter ad esame DNA in Nigeria è incongrua. La nigeriana che
è un’operaia in Italia, dovrebbe andare in Nigeria a proprie spese, sottoporsi
all’esame e ritornare in Italia, sempre pagando il biglietto d’aereo.
Peraltro, per dare
credibilità alle investigazioni dell’Ambasciata, occorrerebbe che queste
fossero state rivelate nella sua essenza e nel modus procedendi.
Infatti, queste
asserite indagini africane, collidono con i certificati in atti attestanti che
Jessica è madre , sia di Paul che di Peter.
Eppoi , se Jessica
fosse madre di Peter, lo dovrebbe essere anche di Paul per il quale, invece,
l’Ambasciata ha concesso il ricongiungimento.
Ne consegue che la
motivazione dell’Ambasciata a Lagos è infondata ed il relativo provvedimento va
annullato.
Tuttavia, occorre
rilevare che Paul, attualmente non è più minorenne. Il 2 dicembre ha raggiunto
il diciottesimo anno di età. Pertanto, il ricongiungimento, legittimo per i
minorenni, ai sensi dell’art. 29 L. 286/96, deve essere integrato dai precetti
ex artt. 31-32 L. 286/98.
Infatti,
l’xtracomunitario maggiorenne non può ottenere il ricongiungimento.
Peter Odion può
riceverlo, in quanto era minorenne quando inoltrò l’istanza. Ora, però, che è
maggiorenne sarà destinatario di altri obblighi nel momento in cui porrà piede
in Italia.
La vigilanza
sull’adempimento di tali obblighi incombe alla Questura di Como.
Ne consegue che il
provvedimento dell’Ambasciata d’Italia a Lagos, va annullato nei confronti
dell’istanza di Jessica Nwume per il ricongiungimento del figlio Peter Odion
Nwume.
Peter può
ricongiungersi alla madre salvo gli adempimenti previsti dagli artt. 31-32
della L.286/98, la cui vigilanza è demandata alla Questura di Como
Annulla il
provvedimento di rigetto dell’istanza di Nwume Jessica emesso dall’Ambasciata
d’Italia in Nigeria in data 9.10.2003.
Consente il ricongiungimento
di Peter Nwumw con la madre Jessica, salvo gli obblighi di legge previsti
e il cui adempimento è affidato al
controllo della Questura di Como.
Como 10.12.2003
Il Giudice
Dott. Beniamino Fargnoli
TRIBUNALE DI PADOVA, SEZIONE
DISTACCATA DI CITTADELLA
ORDINANZA N. 80266/03 N.C. DEL
28.07.2003
Il Giudice,
sciogliendo la riserva assunta;
esaminati gli atti del procedimento n. 80266/03;
preso atto della mancata costituzione della P.A. convenuta e della mancanza di
controdeduzioni;
premesso:
- che il ricorrente SAHIR MOUNIR, nato a Casablanca (Marocco) il 29.1.1978,
titolare di permesso di soggiorno n° F 203834 rilasciatogli dalla Questura di
Padova il 22.07.2002, ha chiesto ed ottenuto dalla Questura di Padova, in data
23.9.2002, nulla osta al ricongiungimento familiare in favore della propria
moglie FANIDA SIHAM, nata a Casablanca il 12.5.1983, e della propria madre
GOURAM NAIMA, nata a ben Slimane il 5.11.1957;
- che il prescritto nulla osta è
stato trasmesso al Consolato Generale d’Italia a Casablanca, competente al
rilascio del visto di ingresso;
- che il Consolato, ricevuti i
documenti, rimaneva inerte nonostante i solleciti del legale del SAHIR ( al
quale rispondeva unicamente, con missiva 28.10.2002, che l’Ufficio Visti era
temporaneamente chiuso al pubblico e che erano, allo stato, in corso di
trattazione le domande corredate dei nulla osta delle Questure competenti
rilasciati nel 2001) e delle due donne interessate ad ottenere il visto di
ingresso (per quanto desumibile dal timbro apposto sulla ricevuta di ritorno
della raccomandata da loro inviata al Consolato, ricevuta datata 19.2.2003);
- che successivamente il Consolato
Generale d’Italia in Casablanca faceva affiggere un “avviso”, prodotto in copia
dal ricorrente, non datato né intestato né sottoscritto in alcun modo,
trilingue, nel quale comunque si comunicava che “per disposizione dei
competenti servizi del ministero degli Affari Esteri e del ministero degli
interni italiani, a decorrere dal 9.5.2003 non saranno più presi in
considerazione i Nulla Osta per ricongiungimento familiare rilasciati dalle
Questure italiane da oltre 6 mesi, in quanto è possibile che siano venute meno
le condizioni che ne hanno determinato il rilascio”;
- che con ricorso depositato il
24.6.2003 il signor SAHIR MOUNIR, nato a Casablanca (Marocco) il 29.1.1978, ha
chiesto a questa A.G., ai sensi dell’art. 30, comma 6°, D.Lgs. 266/98, il
rilascio del visto d’ingresso per ricongiungimento familiare a favore di FANIDA
SIHAM e GOURAM NAIMA, rispettivamente moglie e madre del ricorrente;
Osserva.
1) Il comportamento omissivo della
P.A. - Consolato Generale Italiano di Casablanca – che, dopola valutazione
positiva dei requisiti oggettivi e soggettivi per l’ottenimento del
ricongiungimento fatta dalla Questura di padova prima di concedere il Nulla
Osta, non rilascia e non nega il visto d’ingresso alle due congiunte del
ricorrente, non è un atto amministrativo (ossia un provvedimento scritto e
motivato[1] della P.A., da comunicarsi allo straniero anche se negativo: art.
4, 2° comma, D. L.vo 286/98), né è assimilabile alla fattispecie del silenzio –
rifiuto, in assenza di una specifica disposizione di legge che lo preveda.
2) Pur se la legge (art. 6, u.c.,
D.P.R. 394/99, regolamento attuativo del T.U. sull’immigrazione) non prevede
esplicitamente un termine entro il quale le autorità consolari debbano decidere
sulla richiesta del visto, nondimeno l’inutile decorso del tempo per provvedere
ha specifica rilevanza ex legge 241/90: ne consegue che il visto deve essere
concesso o respinto entro trenta giorni dalla richiesta.
3) L’applicabilità alla fattispecie
dei visti di ingresso per ricongiungimento familiare del termine ordinario di
trenta giorni ha trovato, recentemente, implicita conferma nella previsione del
comma 3 quinquies dell’art. 5 D.Lvo 286/98, comma aggiunto con legge 30.7.2002
n .189, art. 5, comma 1, lettera E), che prevede la comunicazione dalla
rappresentanza diplomatica o consolare italiana che rilascia il visato
d’ingresso per ricongiungimento al Ministero dell’Interno entro trenta giorni
dal ricevimento della documentazione necessaria.
4) Decorso inutilmente (ed
abbondantemente) tale termine[2], si verifica una lesione del diritto
soggettivo all’unità familiare dei cittadini stranieri regolarmente
soggiornanti in italia, che è diritto di rango sia costituzionale (art. 29) sia
comunitario, suscettibile di comprensione solo in presenza di preminenti
esigenze di ordine pubblico o di sicurezza dello stato (artt. 1,2,3, 52 cost.)
che nella fattispecie non sono state invocate nemmeno dalla Questura che ha
invece rilasciato il nulla osta.
5) Sussiste, dunque, nella
fattispecie il potere dell’AGO di ordinare il rilascio del visto, sostituendosi
così di fatto alla P.A. rimasta ingiustificatamente inerte; ciò ai sensi degli
artt. 30, comma 6°, L. 286/98 e 6, comma 20°, D.P.R. 394/99.
6) Si tratta, infatti, di atto
dovuto, in presenza dei presupposti che quella P.A.avrebbe dovuto verificare
(ossia l’esistenza dei rapporti di parentela/coniugio e convivenza, nonché
l’esibizione di un valido passaporto e di un valido titolo di viaggio[3]),
tanto più che il nulla osta (rilasciato in data 23.9.2002) è stato utilizzato
ai fini del rilascio del visto consolare entro sei mesi[4] dal suo rilascio
(art. 15, ultimo cpv., D.M. 12.7.2000).
7) A tale proposito, va ricordato
che con ordinanza interpretativa di rigetto in data 17/5/2001, n. 140, la Corte
Costituzionale, pronunciandosi su identica fattispecie prevista dalla normativa
previgente in tema di immigrazione (art. 28, comma6°, L. 6.3.1998, n. 40), ha
affermato la legittimità dell’attribuzione al giudice ordinario del potere di
ordinare alla P.A. il rilascio del visto, sul rilievo che “non esiste un
principio costituzionale che escluda la possibilità per il legislatore
ordinario, in determinati casi (rimessi alla scelta discrezionale del
legislatore), in sede di affidamento della tutela giurisdizionale dei diritti
soggettivi nei confronti della pubblica amministrazione, di attribuire al
giudice ordinario anche un potere di annullamento e speciali effetti talora
sostitutivi dell’azione amministrativa, inadempiente rispetto a diritti che lo
stesso legislatore considera prioritari, anche se ciò può comportare la
necessità da parte del giudice di valutazioni ed apprezzamenti non del tutto
vincolanti, ma sempre riguardanti situazioni regolate da una serie di
previsioni legislative, che prevedano espressamente l’esercizio di tali poteri;
che anzi la norma in discussione può inquadrarsi…come esempio, ormai non del
tutto isolato, applicativo della specifica previsione dell’art. 113, 3° comma,
della Costituzione, soprattutto nella tendenza di rafforzare l’effettività
della tutela giurisdizionale….”
8) Deve, da ultimo, precisarsi che
la madre del ricorrente, pur non possedendo attualmente tutti i requisiti
previsti dall’art. 29, 1° comma, lettera c) del D.Lgs. 286/98, dopo la modifica
restrittiva apportata dall’art. 23, comma 1, lettera a), n. 2, della L.
30.7.2002 n. 189, era in regola con la disciplina vigente all’inizio del procedimento
amministrativo azionato per il suo ingresso in Italia, ossia al momento della
domanda del nulla osta presentata dall’odierno ricorrente alla Questura di
Padova il 22.7.2002.
9) A quella data deve farsi
riferimento per stabilire qual è lo statuto applicabile alla richiesta di
ricongiungimento con il congiunto in oggetto: una significativa conferma è
offerta dal provvedimento di nulla osta del Questore, emesso il 23.9.2002 senza
riferimento alcuno alla mutata disciplina, la cui applicazione avrebbe impedito
il rilascio del nulla osta.
10) Per tutte le ragioni che
precedono il ricorso va accolto integralmente
P.Q.M.
Visti gli artt. 737 c.p.c.; 30,
comma 6°, L. 286/98 e 6, comma 20°, D.P.R. 394/99,
accogliendo il ricorso proposto da
SAHIR MOUNIR, nato a Casablanca (Marocco) il 29.01.1978, titolare di permesso
di soggiorno n° F 203834 rilasciatogli dalla Questura di Padova il 22.07.2002,
ordina al Consolato Generale d’Italia a Casablanca di rilasciare il visto
d’ingresso in Italia per ricongiungimento familiare in favore di FANIDA SIHAM,
nata a Casablanca il 12.5.1983, e GOURAM NAIMA, nata a Ben Slimane il
5.11.1957, la prima moglie e la seconda madre del ricorrente, previa esibizione
del passaporto e della documentazione di viaggio;
. sussistendo conclamati motivi di
urgenza, dichiara il presente provvedimento immediatamente esecutivo;
. ordina a tutti i pubblici
ufficiali appartenenti alle Amministrazioni Pubbliche interessate di prestare
la propria collaborazione per la immediata esecuzione del presente
provvedimento;
. pone le spese del giudizio a
carico di controparte ai sensi dell’art. 93 c.p.c..
Cittadella, 28.07.2003
Il Giudice
Dott.ssa Paola Cameran
[1] Salvi i casi in cui la legge, in
deroga alla disciplina generale dettata dalla L. 241/90, espressamente esclude
un obbligo di motivazione del diniego del visto di ingresso dovuto a motivi di
sicurezza o di ordine pubblico: art. 4, 2° comma, ultima parte, D.L.vo 286/98.
[2] Fatto del quale danno
implicitamente atto – ex adverso – sia la missiva spedita al legale del
ricorrente sia l’”avviso” affisso presso il consolato di Casablanca.
[3] Nel silenzio di quella Autorità
Consolare, questo Giudice deve attenersi al dettato normativo del T.U.
sull’Immigrazione e del regolamento di Attuazione, e non può stabilire se sia
necessario il verificarsi di ulteriori condizioni o l’adempimento di più
approfonditi controlli, che dovrebbero essere previsti e documentati ex art. 3,
2° comma, L. 241/90.
[4] Prova ne sia il fatto che la
prima “comunicazione” sul punto, sollecitata dal legale del SAHIR, è la missiva
consolare 28.10.2002, attestante che l’Ufficio Visti era temporaneamente chiuso
al pubblico e che erano, allo stato, in corso di trattazione le domande
corredate dei nulla osta delle Questure competenti rilasciati nel 2001 !
[1] titolo della nota: “Commento ad alcune recenti sentenze del tar veneto sul rinnovo del Pds e la regolarizzazione. Sommario: 1) La casistica relativa ai provvedimenti di diniego del rinnovo del permesso di soggiorno (l’esistenza di un’espulsione; la pericolosità sociale). 2) La casistica relativa alla regolarizzazione (il principio di non colpevolezza, le vecchie espulsioni; l’espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica; le segnalazioni nel Sistema Informativo Schengen)
testualmente: “La rappresentanza diplomatica o consolare italiana che rilascia il visto di ingresso per motivi di lavoro, ai sensi dei commi 2 e 3 dell’articolo 4, ovvero il visto di ingresso per lavoro autonomo, ai sensi del comma 5 dell’articolo 26, ne dà comunicazione anche in via telematica al Ministero dell’interno e all’INPS per l’inserimento nell’archivio previsto dal comma 9 dell’articolo 22. Uguale comunicazione è data al Ministero dell’interno per i visti di ingresso per ricongiungimento familiare di cui all’articolo 29 entro trenta giorni dal ricevimento della documentazione.”
[3] In base al testo
modificato si tratta, unicamente, dei genitori
a carico qualora non abbiano altri figli nel Paese di origine di origine o di
provenienza e dei genitori
ultrasessantacinquenni qualora gli altri figli siano impossibilitati al loro
sostentamento per documentati gravi motivi di salute.