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Audizione presso la Commissione d’inchiesta del Senato

su salute e sicurezza dei lavoratori. Nota trasmessa alla Commissione.

 

Si è tenuta il 12 luglio 2005 un’audizione presso la Commissione d’inchiesta del Senato su salute e sicurezza dei lavoratori. Tutte le  eventuali ricerche e approfondimenti realizzati nella varie realtà  così come situazioni emblematiche che possano contribuire ai lavori della Commissione (che termineranno in pochi mesi). Segue una prima nota trasmessa alla Commissione d’inchiesta del Senato su salute e sicurezza dei lavoratori, relativa all’audizione.

 

 

                                                                                               

                                                                       

 

 

 

TESTO DELLA NOTA

 

Commissione parlamentare di inchiesta sugli infortuni sul lavoro con particolare riguardo alle cosiddette “morti bianche”: prima nota CGIL

(integrativa dell’audizione del 12 luglio 2005)

 

 

Centralità della Salute e Sicurezza nelle Politiche del Lavoro

 

 

Premessa

 

Prima di entrare nel merito dei problemi di cui soffre il tema della salute e sicurezza nel lavoro nel nostro Paese, avanziamo alcune riflessioni metodologiche.

L’attuale Commissione di inchiesta, i cui tempi di operatività sono particolarmente brevi, potrebbe a nostro avviso far tesoro di quanto già emerso dalle due precedenti (cosiddette Lama e Smuraglia), affrontando in specifico le novità che caratterizzano il mondo del lavoro e della produzione (materiale e immateriale). Ulteriore importante punto di riferimento è, secondo noi, il Monitoraggio dell’applicazione della 626 svolto recentemente dalle Regioni.

Tra le novità di maggior rilievo e quindi da indagare maggiormente, segnaliamo:

·            L’aumento (normativo e di fatto) della precarietà del lavoro, che porta a un tale livello di ricattabilità da non far denunciare molti infortuni (spesso mascherati da malattie)

·            L’aumento della presenza di lavoratori e lavoratrici immigrati. Entrambe queste fattispecie soffrono più di altre di assente o insufficiente formazione e informazione

·            L’aumento dell’economia sommersa e quindi del lavoro nero, come pure di quello minorile

·            L’aumento della presenza delle donne nel mondo del lavoro

·            L’aumento delle esternalizzazioni, con catene lunghissime di appalti e sub-appalti, con la piaga del massimo ribasso e la sostanziale irresponsabilità del contraente

·            L’aumento delle piccolissime imprese, spesso composte da un’unica persona e molte volte mascheramento di lavoro dipendente.

 

Siamo consci della fase di declino e crisi che attraversa la nostra economia e temiamo che le imprese, se non ben indirizzate dal pubblico, possano continuare a scegliere la strada della competitività basata sulla riduzione dei costi (in primis del lavoro). Siamo altrettanto consci che solo una via alta, di qualità dello sviluppo e del lavoro potrà far superare positivamente il difficile momento che vive il nostro Paese.

 

Pensiamo inoltre che sarebbe utile audire le diverse categorie rappresentative dei lavoratori, a partire da quelle maggiormente esposte ai rischi (edilizia, agricoltura, chimica, sanità, ....), portatrici di conoscenze ed esperienze.

 

 

La salute e la sicurezza dei lavoratori obiettivo irrinunciabile di sviluppo sociale

 

La Cgil ritiene che la prevenzione dei rischi per la salute e la sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori debba essere considerata parte integrante delle strategie di sviluppo del patrimonio di salute della popolazione e quindi della società. Ciò impone l’esigenza:

 

·            di individuare in primo luogo le priorità su cui intervenire, quali la promozione di iniziative mirate verso i settori a maggiore rischio (es. edilizia) e verso i soggetti che hanno maggiori probabilità di perdere il patrimonio iniziale di salute di cui sono portatori, come i giovani, le donne e gli immigrati;

 

·            ma anche di affrontare la questione del governo delle scelte di politica economica in rapporto alla salute della popolazione come obiettivo dello sviluppo e di superamento delle disuguaglianze sociali.

 

Ciò significa che il tema della tutela della salute quale diritto costituzionale (l’art. 32 lo definisce “bene individuale e interesse della collettività”) non deve essere visto solo come una questione sanitaria - banalizzando la tematica della prevenzione e riducendola ad un mero aggravio di costi per il sistema e per le imprese o al più ad un problema burocratico di adempimento formale alle norme – ma deve costituire una delle scelte strategiche per una nuova politica sociale, produttiva  e del lavoro. È così che i principi fondamentali di precauzione e prevenzione, insieme con la qualità e la sostenibilità dello sviluppo, devono essere assunti tra i criteri guida per invertire la rotta sulla china del declino economico e sociale.

 

In questa prospettiva, si propongono di seguito all’attenzione della Commissione alcune linee di fondo secondo cui costruire un nuovo assetto complessivo di strumentazioni e interventi per migliorare le condizioni di salute e sicurezza nel lavoro e contrastare gli effetti negativi che le trasformazioni del mercato del lavoro producono sulla salute della popolazione e, nel medio periodo, sulle giovani generazioni di lavoratori italiani e immigrati, che stanno sperimentando sulla propria pelle le condizioni del lavoro nero, precario, flessibile e quelle del reddito incerto, che nel loro insieme costituiscono uno stato di “insicurezza sociale”.

 

 

1.      Il prezzo della mancata prevenzione

 

Le “morti bianche” sono la dolorosa e drammatica “punta dell’iceberg” di condizioni di lavoro che non migliorano o peggiorano laddove vigono impieghi precari e irregolari, come documentano ricerche internazionali (3° Indagine europea della Fondazione di Dublino) e indagini nazionali (Isfol) e locali (Torino, Emilia-Romagna), mentre infortuni e malattie professionali restano tuttora a livelli preoccupanti, con indici di rischio grave e continuo in alcuni settori (edilizia, trasporti, agricoltura) e soggetti (immigrati, lavoratori precari, donne).

 

Le statistiche Inail mostrano nel periodo 1998-2004 quasi un milione di incidenti in media l’anno. Negli ultimi tre anni si è verificata una tendenza al ribasso dei casi denunciati che è purtroppo da considerare solo apparente. Essa, infatti, è da mettere in relazione con un aumento parallelo del lavoro “sommerso” e dell’occultamento degli infortuni sul lavoro con l’evasione della denuncia all’Inail, che ben risultano all’osservatorio sindacale, mentre l’Istituto assicuratore dovrebbe fornire un arco più ampio di dati significativi (v. Allegato 1), tra cui alcuni indicatori indiretti del fenomeno dell’evasione dell’obbligo di denuncia degli infortuni (come ad es. l’aumento in questi anni dei casi d’incidente grave e mortale avvenuti nei primi giorni di lavoro, che indica chiaramente che solo tali eventi costringono a denunciare l’assunzione del lavoratore).

 

L’andamento del fenomeno appare comunque preoccupante, considerando una serie di fattori. Innanzi tutto perché, ammesso che si tratti di decremento, esso è percentualmente ancora minimo, tale da non segnare un deciso mutamento del quadro generale. In secondo luogo perché sul piano della gravità, le cifre sono ancora insopportabilmente elevate: oltre 1450 casi mortali in media tra il 1998 e il 2003. La definizione di “morti bianche”, se trova giustificazione nell’inammissibile anonimato di responsabilità che ad esse si attribuisce, non può comunque avvallare l’idea che tali eventi siano causati da fatalità. Tant’è che in epidemiologia sono classificate in modo significativo “morti evitabili” e lo stesso Inail ha valutato complessivamente nel 40% gli incidenti che una normale attività di prevenzione e di rispetto delle leggi potrebbero impedire. È significativo in proposito che circa i due terzi di tutti gli infortuni mortali si verificano in tre soli settori: edilizia (26%), trasporto merci (16%), agricoltura e forestazione (26%). E gran parte per cause statisticamente prevedibili e prevenibili, quali le cadute dall’alto per mancato impiego di attrezzature di protezione (parapetti, cinture di sicurezza ecc.), il colpo di sonno per troppo ore alla guida con mancato rispetto del massimo consentito, il rovesciamento del trattore (quando esistono dispositivi anti-ribaltamento).

 

Preoccupano poi notevolmente le cifre relative al lavoro precario e agli immigrati. Per gli interinali si hanno 70 infortuni denunciati per 1000 lavoratori, nettamente superiore alla media nazionale (42 per mille). Quanto agli immigrati, stanno pagando un prezzo elevatissimo per condizioni di lavoro in cui la sicurezza è spesso inesistente: i primi dati relativi al 2004 parlano di oltre 115.000 denunce di cui 164 mortali. È un incremento sul 2003 pari al 7%. L'indice di incidenza dei lavoratori extracomunitari continua così ad aumentare, come è avvenuto negli ultimi anni, diventando superiore a quello medio nazionale di ben il 50% (circa 65 casi contro 42 per 1000 occupati).

 

A ciò va aggiunta l’analisi (insufficientemente sviluppata finora) della situazione della salute e sicurezza delle donne. In rapporto alla crescita dell’occupazione femminile nell’industria e servizi, che è stata nel quinquennio 1998-2002 pari al 13,4 per cento (dati Istat), gli infortuni nello stesso ambito mostrano un differenziale decisamente più sostenuto, del 21,9 per cento, segno indiretto che le donne nel lavoro sono impiegate in attività in cui i rischi sono in aumento e evidentemente caratterizzate da rapporti di lavoro precari (vedi anche indagine europea).

 

 

A questo quadro vanno poi aggiunte le cifre relative ai lavoratori che muoiono per malattia professionale (300 in media ogni anno) e quelli che, per il fatto di essere stati già riconosciuti ammalati dall’Inail, non rientrano nelle statistiche dei casi “denunciati e indennizzati” presenti nella Banca dati on line dell’Istituto assicuratore, ma in quelle a gestione interna (delle “rendite costituite per inabilità”) e che fanno parte del pesantissimo retaggio della mancata prevenzione dei decenni passati (che hanno comportato patologie come la silicosi e tumori professionali da amianto e da altri cancerogeni). Basti pensare che nel periodo 1996–2000 sono stati ben 5.703 i lavoratori affetti da silicosi (e per questo già titolari di una “rendita” Inail) morti a causa della malattia (in media 1.140 casi ogni anno). Altre morti dimenticate causate dal lavoro sono quelle di lavoratori ex esposti a cancerogeni che si ammalano di tumore senza che la loro patologia venga ricollegata al lavoro, perché sono trascorsi tanti anni e perché negli istituti di ricovero e cura non viene presa in considerazione la loro storia lavorativa. Prudenziali, ma consolidate stime epidemiologiche calcolano che questi casi ammontino ad una quota che va dal 2% al 4% di tutti i decessi per tumore  che si verificano ogni anno in Italia (attorno ai 150.000), una cifra quindi oscillante tra i 3000 e i 6000 casi annui. A questi dati bisogna aggiungere quelli relativi alle conseguenze invalidanti degli infortuni e delle malattie professionali, subite ogni anno da oltre 30.000 lavoratori.

Oltre a enormi sofferenze umane, infortuni e malattie professionali determinano infine costi economici e sociali – diretti (assicurativi, legali ecc.) e indiretti (danni alle attrezzature, alla produzione ecc.) - che sono stati valutati dallo stesso Inail in ben 30 miliardi di euro l’anno.

 

 

 

2.      La politica seguita dall’attuale Governo

 

A fronte di questa grave situazione, a parere della CGIL, l’attuale Governo ha seguito una politica volta a favorire gli interessi della parte imprenditoriale più retriva, quella per la quale Ssl costituisce semplicemente un impaccio sulla strada del profitto senza scrupoli. Il Governo, infatti, da una parte  non ha più convocato la Commissione consultiva permanente (unico organismo istituzionale tripartito con funzioni di indirizzo e controllo in materia), dall’altra ha operato introducendo elementi d’incertezza per la Ssl nelle nuove forme contrattuali (dlgs 276/2003). Inoltre si è dedicato all’elaborazione di un progetto di Testo Unico (Tu) per il riordino della normativa, che, dietro la giustificazione della semplificazione e dell’armonizzazione esenza il coinvolgimento del mondo del lavoro, mal celava l’obiettivo di fondo di alleggerire la responsabilità dei datori di lavoro e di depenalizzarne gli obblighi, abdicando ad ogni funzione attiva da parte della Pubblica Amministrazione e indebolendo di fatto i livelli di tutela dei lavoratori, anche a rischio di andare incontro a censure da parte della Corte di giustizia di Lussemburgo per mancata piena garanzia di standard imposti dalle Direttive europee.

 

 

3.      Il ritiro del progetto  di Testo Unico

 

Il progetto di Testo Unico è stato alla fine ritirato dopo una battaglia durata più di due anni, condotta in prima fila unitariamente da Cgil Cisl Uil, fin dalla fase di discussione della legge delega (n.229/2003 art.3) e nonostante l’elaborazione del testo sia avvenuta fino all’ultimo nel chiuso delle stanze ministeriali. Lo schieramento contrario è stato amplissimo, dalle associazioni scientifiche e professionali alle Regioni. E le critiche sono state da ogni parte accompagnate da controproposte di metodo e di merito, fin dalla formulazione della legge di delega nel caso delle tre Confederazioni. Il T.U. è fallito per la vastità e la qualità delle critiche che hanno suscitato i suoi contenuti, figli del metodo con cui è stato costruito e perché il Governo non si è reso disponibile  alle proposte alternative e i rilievi espressi durante un breve periodo di consultazione con le parti sociali tra febbraio e marzo scorsi, tanto da trasmettere lo scorso aprile al Parlamento il testo originario immutato del 18 novembre 2004. Anche la bocciatura espressa da ultimo dal Consiglio di Stato rientra in questo quadro, perché al di là dei motivi alla base del parere negativo, dovuti ad una ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni, contenuta nello schema di T.U., non adesiva al dettato del nuovo articolo 117 della Costituzione, la carenza più evidente in tutta la vicenda è consistita nel non aver ricercato da parte del Governo una “leale collaborazione” tra Stato e Regioni, principio invece richiamato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 50 del 2005) quale metodo da utilizzare nelle ipotesi di interferenza tra disposizioni rientranti in materie di competenza esclusiva spettanti alcune allo Stato ed altre alle Regioni.

 

 

4.      Una strategia di rinnovamento e di sviluppo

 

Occorre intraprendere una strategia di rinnovamento e di sviluppo del sistema di prevenzione secondo un approccio globale ai temi della salute e sicurezza sul lavoro e come parte integrante di una strategia per uno sviluppo sostenibile, intervenendo in modo mirato sui seguenti terreni prioritari.

 

 

a) Politiche pubbliche e assetti istituzionali

 

Il nostro sistema di prevenzione dei rischi sul lavoro è troppo debole. Deve essere rafforzato. Punto critico è l’assenza di politiche pubbliche adeguate e coerenti  con l’impianto normativo del decreto 626/94. Esse devono dunque essere attuate sia a livello centrale sia locale, traducendosi in precisi obiettivi e programmi nazionali e regionali - seguendo le linee della Strategia 2002-2006 della Ue - e rispondendo alle priorità e alle esigenze espresse dalle parti sociali, così come avviene nei Paesi più avanzati dell’Unione Europea (in questo anche la Spagna ci ha ormai superato). Le istituzioni centrali e territoriali devono cioè valorizzare e non affossare - come è avvenuto finora - le sedi tripartite esistenti (Commissione consultiva nazionale e, a volte, Comitati regionali di coordinamento e loro diramazioni locali) e gli organismi paritetici del 626/94.

 

Le politiche pubbliche di prevenzione nei luoghi di lavoro devono comprendere:

 

·l’elaborazione di un Piano nazionale in materia di salute e sicurezza e la verifica degli obiettivi in materia del Piano sanitario nazionale, prevedendo risorse finanziarie adeguate;

·la costruzione di un sistema informativo nazionale adeguato, che si fondi non solo su dati relativi agli infortuni sul lavoro e alle malattie professionali più completi di quelli attuali (v. All. 1), ma anche su altri parametri e informazioni relativamente alle condizioni di lavoro, con indagini standardizzate periodiche ai fini di monitorare vecchi e nuovi rischi e poter fondare su conoscenze adeguate i piani di prevenzione;

·la riorganizzazione e il potenziamento delle funzioni di vigilanza in materia di salute e sicurezza nell’ambito dell’assetto istituzionale regionale, garantendo il pieno e uniforme esercizio dei Servizi di prevenzione salute e sicurezza del lavoro delle Asl su tutto il territorio nazionale (oggi le Regioni del Sud ne sono in gran parte ancora prive). Vanno in senso opposto le politiche di taglio ai trasferimenti alle autonomie locali e il superamento della percentuale dedicata ai servizi di prevenzione, così come il blocco delle assunzioni pubbliche;

·azioni e programmi strutturali di facilitazione, sostegno e incentivazione, in particolare per le Pmi e i lavoratori autonomi, con il coinvolgimento delle parti sociali e degli Organismi paritetici;

·azioni organiche del sistema scolastico di ogni ordine e grado, di quello universitario e della formazione continua per la promozione e sostegno della cultura della prevenzione in tutte le professioni;

·            interventi funzionali definiti sui ruoli e sugli stessi assetti delle diverse istituzioni (Ispesl, Inail, Iims ecc.) precisandoli, modificandoli se necessario e integrandoli.

 

Riguardo ai rapporti tra legislazione statale e regionale, a norma del nuovo art. 117 della Costituzione, è necessario chiarire che anche in materia di salute e sicurezza sul lavoro la definizione dei “livelli essenziali” spetta  allo Stato e la potestà normativa concorrente delle Regioni potrà risolversi solamente in previsioni migliorative rispetto alla legislazione dettata dallo Stato.

 

 

b) Legislazione e strumenti volontari

 

Rafforzamento, perfezionamento ed estensione delle disposizioni vigenti in materia di salute e sicurezza a tutte le tipologie di impresa e di lavoro – anche autonomo e precario - nel rispetto e in coerenza con i contenuti e gli indirizzi partecipativi delle Direttive europee e delle convenzioni internazionali dell’Oil. In questo quadro, e solo con tali fini, può trovare spazio accanto alla legislazione – integrandola, non sostituendola come ha tentato di fare il Governo con il T.U. – anche la semplificazione di adempimenti di natura amministrativa e la promozione di “strumenti non legislativi”, quali le norme volontarie (sui Sistemi di gestione della salute e sicurezza, sulla Responsabilità sociale delle imprese ecc.), le linee guida e le buone prassi. Tutti questi strumenti volontari, tuttavia, per essere veramente efficaci, non possono essere affidati unilateralmente alle imprese, ma al contrario si deve prevedere la partecipazione del Sindacato, dei lavoratori e degli Rls, in un ruolo attivo delle parti, tanto nel momento della loro elaborazione quanto in quello della loro applicazione.

 

 

c) Sistema di Welfare

 

I sistemi di tutela sociale del lavoro (sanità, previdenza, assicurazione infortuni, assistenza e ammortizzatori sociali) - escludendo “tagli” che li stravolgano o li vanifichino - devono essere rivisitati in modo tale da rappresentare “un disincentivo strutturale” per chi - eludendo o violando leggi e contratti -  scarica sul singolo lavoratore, sulla sua famiglia e sulla collettività il dramma e i costi di infortuni, malattie, disagi e inidoneità che nessun mercato del lavoro, sistema sanitario e pensionistico o ammortizzatori sociali possono assorbire e risanare.

 

La stessa tutela assicurativa degli infortuni e delle malattie professionali, gestita dall’Inail, deve essere estesa pienamente a tutte le forme di lavoro dipendente e autonomo e a tutti i settori, affinché possa diventare un vero e proprio “incentivo strutturale” per le imprese che attuano la “prevenzione sistematica e partecipata” dei rischi prevista dalle direttive Ue, dalle convenzioni Oil e dai Contratti nazionali di lavoro e “disincentivi” per chi non li attua.

 

 

d) Partecipazione

 

Il metodo della partecipazione va ripreso e devono essere restituiti spazi, sedi, tempi certi, autonomia e dignità ad un confronto di merito tra sindacati e imprese e tra parti sociali e istituzioni. In questa direzione va rilanciata l’esperienza positiva di Carta Duemila e aggiornato e avviato un programma per la sua attuazione. 

 

Sulla materia della salute e sicurezza il confronto, oltre che bilaterale nell’autonomia delle parti, deve essere quindi innanzitutto tripartito, per poter dare frutti concreti – cioè una riduzione sensibile, costante e non episodica degli infortuni e delle malattie professionali e, in parallelo, la crescita della cultura della prevenzione e della partecipazione attiva per un miglioramento complessivo delle condizioni di lavoro – e deve essere sistematico, aperto e libero da pregiudizi.

 

Il presupposto è che il diritto alla salute e alla sicurezza deve diventare centralità nelle politiche del lavoro per far sì che obiettivi qualificanti – prevenzione di vecchie e nuove nocività, controllo sull’organizzazione del lavoro (orari, ritmi, contenuto del lavoro, clima aziendale), sugli appalti e sub-appalti, sull’utilizzo di manodopera saltuaria o precaria ecc. - siano punti forti di un’ampia e articolata strategia condivisa dai soggetti sociali interessati.

 

La partecipazione dei lavoratori è un principio e un metodo cardine per realizzare salute e sicurezza. Occorre promuovere l’estensione effettiva del diritto di avere i propri Rappresentanti alla sicurezza, anche territoriali, a tutti i lavoratori delle micro-imprese, dell’artigianato, degli appalti ecc. e va operato per superare le resistenze che finora hanno impedito il funzionamento di moltissimi degli organismi paritetici previsti dall’art. 20 del d. lgs. 626/94 e da ben 5 accordi interconfederali, se necessario ricorrendo a forme di pressione nei confronti delle controparti più reticenti. Gli organismi paritetici, infatti, avevano, hanno e potrebbero avere ancora di più in futuro un ruolo e una funzione strategica: con l’emanazione del dlsg 626/1994 avrebbero dovuto inaugurare una vera e propria svolta nelle relazioni tra lavoratori e imprese in materia di salute e sicurezza aprendo la stagione della partecipazione. La realtà è però ben diversa: le principali associazioni imprenditoriali, di fatto, hanno impedito, e impediscono tuttora, il decollo degli organismi paritetici, esautorandoli ed estenuandoli in rituali e pratiche burocratiche.

 

ALLEGATO 1

 

INCOMPLETEZZA DEI DATI INAIL

 

1.      Il campo di applicazione Inail non copre tutto il mondo del lavoro

 

La normativa Inail non si applica a tutte le categorie di lavoratori, ma alcune ne restano escluse, come per esempio vaste aree del pubblico impiego o i marittimi, che fanno capo ad altro ente assicuratore (Ipsema). I dati Inail costituiscono quindi il riflesso assicurativo parziale di un fenomeno infortunistico più esteso di quello rappresentato dalle categorie tutelate da questo Istituto.

 

Nel pubblicare le sue statistiche l’Istituto assicuratore dovrebbe indicare l’entità della forza lavoro i cui infortuni sul lavoro non pervengono alla sua conoscenza.

 

2.      Il crescente peso del lavoro nero e irregolare fa apparire una diminuzione degli infortuni che non c’è

 

Se si considera il crescente aumento del lavoro nero – è di questi giorni un rapporto Inps che riferisce che il 75% delle aziende ispezioniate impiegano lavoro irregolare – si deve sottolineare la sua incidenza sui dati degli infortuni attraverso l’occultamento degli incidenti, per lo meno di tutti quelli lievi. Secondo diverse stime questi eventi “sommersi” oscillano in un numero che va dalle dieci alle venti volte quelli denunciati.

 

Si configura così chiaramente la necessità di guardare con prudenza alla timida tendenza alla diminuzione registrata in questi ultimi anni: circa 940.000 infortuni denunciati nel 2004 (dati ancora provvisori) che indicano un calo dell’1,4% rispetto al 2003, confermando il decremento già registrato nel biennio precedente (-3,3% nel 2002 e -1,7% nel 2003). L’Inail fa notare che nell'ultimo  quadriennio  (2001-2004) questo calo in complesso è  pari a -6,4%, “risultato che appare più significativo se si tiene conto della crescita dell'occupazione intervenuta nello stesso periodo (+4,1%, fonte Istat), che consente di valutare la riduzione reale degli infortuni nella misura del 10%”.

 

Al riguardo, alcune analisi (che l’Inail può fare) metterebbero meglio in luce la realtà degli infortuni:

 

a)     gli incidenti denunciati andrebbero rapportati alla popolazione lavorativa assicurata all’Inail (vedi punto 1), non a quella Istat, che è più ampia e quindi porta a sottostimare il rischio relativo;

 

b)     gli indici di frequenza sugli occupati andrebbero formulati per settore (frequenza degli infortuni in edilizia sul numero degli occupati edili e così via), cercando di avere a riferimento quindi una certa omogeneità dei rischi, poiché l’indice generale viene “annacquato” dai settori lavorativi più numerosi (quelli dei Servizi) che sono anche quelli nettamente a più basso rischio;

 

c)      dovrebbe essere valutata l’influenza dell’evasione dell’obbligo di denuncia degli infortuni dovuta al “sommerso”, fornendo alcuni indicatori indiretti significativi, come il trend degli infortuni denunciati i primi giorni di lavoro[i], che evidenziano come il rapporto sia regolarizzato solo quando accade l’incidente, soprattutto quando è grave e non è prudente camuffarlo;

 

d)     questi dati andrebbero poi confrontati con i tassi infortunistici territoriali, per capire come mai molte province del Sud appaiono negli ultimi anni sorprendentemente virtuose a confronto di quelle delle Nord.

 

3.      Gli infortuni mortali sul lavoro vengono attribuiti agli incidenti stradali

 

Da qualche tempo gli imprenditori, seguiti disciplinatamente dall’Inail, stanno tentando di accreditare l’ipotesi che la maggior parte degli infortuni mortali sarebbero in realtà incidenti stradali. C’è innanzi tutto da osservare che tra le informazioni raccolte dall’Inail non esiste una variabile “incidente stradale”. Questa tipologia è dedotta da due informazioni che invece l’Inail registra e accoppia e che sono: “incidente alla guida (o a bordo) di…” (variabile “forma” dell’infortunio) e “mezzo di trasporto o sollevamento” (variabile “agente materiale”), accoppiabile quest’ultimo anche ad altre “forme”, come “travolto da…”, “colpito da…”, “schiacciato da…”. Mentre è evidente che si tratta di incidenti che avvengono con mezzi di trasporto, ma anche di sollevamento (per esempio carrelli elevatori), perché attribuirli tutti ad incidenti stradali, esonerando così le imprese da una loro responsabilità diretta, mentre potrebbero essere tranquillamente avvenuti nel manovrare un autoveicolo nel cortile aziendale o nel cantiere? Inoltre è da sottolineare che gran parte di questi infortuni mortali sul lavoro camuffati da incidenti stradali avvengono nel settore “trasporto merci” (circa il 15% del totale dei casi mortali annui), dove l’automezzo è una vera e propria attrezzatura di lavoro, spesso guidata ogni oltre limite di resistenza alla fatica (da cui i colpi di sonno) ben oltre il numero massimo di ore consentite e dove quindi l’attribuzione alla incidentalità stradale è anche qui una mistificazione, perché i nessi causali con il lavoro sono netti. Inoltre, imprenditori e Inail affermano che i casi mortali sono rappresentati per circa un 8% dai cosiddetti infortuni “in itinere” (da casa al lavoro e ritorno), riconosciuti per legge recentemente dal dlgs 38/2000. Anche qui, se in generale si può consentire che non esista un rapporto diretto con una responsabilità dell’impresa, andrebbero comunque indagate le circostanze di questi incidenti, per esempio in relazione all’orario in cui avvengono (turni di notte).

 

L’Inail potrebbe quindi analizzare meglio modalità e circostanze di questi supposti incidenti stradali e far conoscere:

a)     dove avvengono (strada, cantiere, piazzale aziendale, galleria in costruzione ecc.)

b)     con quale tipo di mezzo (automobile, camion, carrello elevatore, escavatore ecc.)

c)      gli orari in cui si verificano.

 

 

 

 

4.   Statistiche europee

 

Da qualche anno Eurostat fornisce elaborazioni dei dati infortunistici dei paesi membri Ue standardizzando le diverse informazioni disponibili, considerato che i sistemi di raccolta e registrazione delle informazioni sono diversi, a volte anche concettualmente (per esempio nella stessa definizione di infortunio). Ciò fa sì che degli oltre 1.400 eventi mortali italiani (media degli ultimi sette anni), solo circa la metà entrano nei confronti Eurostat.

 

Quando l’Inail riferisce questi dati, dovrebbe dichiarare quanti e di quali settori sono gli infortuni mortali che avvengono in  Italia e che restano fuori dalle statistiche Eurostat, a causa delle esigenze di standardizzazione.

 

 

 

 

5.   Il retaggio del passato

 

Tuttora sono parecchie centinaia i casi di lavoratori che muoiono ogni anno per malattia professionale per le quali sono già “titolari di rendita”, per esempio i lavoratori riconosciuti inabili a suo tempo perché affetti da silicosi o asbestosi. Queste morti conseguenti a lontane cause di lavoro non compaiono nelle statistiche.

 

L’Inail dovrebbe rendere noti questi dati.

 

 

 

Roma  25 luglio 2005

 

 

 

Dipartimento Ambiente e Territorio –

Salute e Sicurezza  CGIL

 

 

 

 


 

[i] Come fece il 21 settembre 2001, nel presentare il Rapporto Inail 2000, l’allora presidente dell’Istituto, Gianni Billia

(in http://www.inail.it/pubblicazionieriviste/tuttititoli/rapporti/rapportoannuale/2000/relazione00.htm):

“… 3) Del resto, i dati INAIL-D.N.A. (Denuncia nominativa degli assicurati - assunzioni/cessazioni, ndr) e Infortuni non possono che registrare i sintomi del lavoro nero se non attraverso indizi. Le analisi svolte dall’Istituto sulle particolarità mostrate dai dati infortunistici portano a considerare molto vicina alla realtà l’ipotesi di un vero esercito di lavoratori nascosti, non lontano da 3milioni e 500mila unità concentrate nel Centro e, soprattutto, nel Sud del Paese. Tali analisi coincidono con quelle effettuate recentemente in materia da altri autorevoli centri di ricerca, quali la SVIMEZ e il CENSIS. La dimensione estremamente preoccupante del fenomeno è rilevabile anche attraverso i dati della D.N.A. secondo i quali la frequenza degli infortuni nei primi due giorni di lavoro (sia nel totale che relativamente ai soli casi gravi) appare perlomeno doppia rispetto a quella dei giorni successivi. Il che induce a ritenere che molte assunzioni sono denunciate soltanto in caso di incidente. Gli studi elaborati dall’Inail, sulla base delle informazioni complessive a disposizione, stimano in circa 200.000 i piccoli infortuni non denunciati all’Ente da imprese che operano in nero o in quell’ampia fascia di “quasi nero” che è forse ancora maggiore del nero totale”.

 

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