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Mercato del Lavoro

 

 

Rapporto Svimez 2008

Nell’elaborazione del professor Bianchi, l’analisi reale sul Mezzogiorno

e federalismo fiscale

 

 

Il Rapporto Svimez 2008 del professor Giuseppe Bianchi, Presidente dell’Istituto di studi sulle relazioni industriali e di lavoro (ISRIL) sul Mezzogiorno e federalismo fiscale, sul quale il Consiglio dei ministri del governo Berlusconi , ha approvato un dl qualche giorno fa, in attuazione dell’art.119 della costituzione, evidenzia le peculiarità e la situazione economica ed occupazionale vere dei territori, soprattutto nel mezzogiorno e il sud del paese.

Leggerlo con attenzione permette di capire di quale federalismo ha bisogno il Paese.

 

 

 

p.la Segreteria Nazionale

Moulay El Akkioui

 

 

Roma 10 ottobre 2008

 

 

 

 

 

 

 

 

RAPPORTO SVIMEZ 2008
SUL MEZZOGIORNO
E FEDERALISMO FISCALE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Presidente: Prof. Giuseppe Bianchi

Via Piemonte, 101  00187 – Roma  telefono 06.4818443 – gbianchi.isril@tiscali.it


 

1) L’ultimo Rapporto Svimez del 2008 non porta buone notizie per il Mezzogiorno[1]. Il giudizio lapidario è che con il 2007 sono ormai 6 anni che il Mezzogiorno cresce meno del resto del paese in termini di PIL, e che bisogna risalire ai primi anni ’80 per ritrovare un’interruzione così intensa dei processi di convergenza.

La differenza di reddito medio pro-capite tra Centro-Nord e Mezzogiorno si attesta nel 2007 intorno ai 13 mila euro, pari ad oltre 42 punti percentuali di differenza.

Si rafforza, così, la geografia economica di un paese che vede le regioni del Nord con un reddito pro-capite, a parità di potere di acquisto, pari a quello della Scandinavia e del Benelux e 4 regioni del Sud (Campania, Puglia, Calabria e Sicilia), che interessano 17 milioni di persone con un reddito inferiore al 25% della media europea allargata.

La riduzione del tasso di crescita del Mezzogiorno è da attribuirsi prevalentemente alla flessione nel ritmo di crescita degli investimenti fissi lordi, con una caduta del grado di utilizzo degli impianti soprattutto a partire dalla seconda metà del 2007, e ad una persistente debolezza dei consumi interni (+0,8) risultata quasi la metà di quella registrata al Centro-Nord (+1,5).

Anche il settore industriale che in particolare nei primi anni 2000 aveva visto le esportazioni delle imprese meridionali crescere ad un tasso superiore a quello del resto del paese, ha subito una decelerazione delle sue capacità esportative, soprattutto nei settori del “Made in Italy” a causa di una perdurante criticità nel mercato esterno. Le esportazioni del Mezzogiorno sono oggi soprattutto sostenute (quasi il 61%) dalle imprese esterne caratterizzate da forti economie di scala, insediatesi nel corso degli anni ’60 (auto, prodotti raffinati) ma ormai giunte alla loro maturata produttività. Per quanto riguarda il fenomeno delle medie imprese che hanno realizzato in Italia le migliori performance sotto il profilo della competitività, dei redditi e dell’export, esse sono presenti nel Mezzogiorno in numero assai ridotto (333 pari al 8,2% del totale nazionale), mentre si consolida la cronica incapacità di quest’area di intercettare investimenti esteri: l’1% del pur ridotto aggregato di investimenti esteri in Italia.

Sul versante occupazionale l’occupazione non cresce più e il calo registrato nella disoccupazione (che si mantiene su tassi mediamente più elevati rispetto al Centro-Nord) è spiegato soprattutto dalla crescita degli “inattivi” che escono dalla forza lavoro perché “scoraggiati”. Sono in crisi i tradizionali motori che hanno alimentato l’occupazione del Mezzogiorno: il pubblico impiego e gli investimenti esterni da parte delle grandi imprese del Centro-Nord, mentre aumentano i casi di ristrutturazione e di delocalizzazione di significative presenze industriali (Natuzzi, Microelectronics).

Il calo della disoccupazione è inoltre spiegato da una ripresa di mobilità dei lavoratori dal Sud al Centro-Nord, nella duplice configurazione di trasferimenti di residenza (120 mila l’anno) o di pendolari (150  mila).

Il quadro economico descritto dal Rapporto Svimez giustifica l’aumento delle condizioni di disagio di fasce sempre più ampie della popolazione meridionale, alimentato sia dal minore livello di benessere sia dal più alto grado di disuguaglianza nella distribuzione del reddito rispetto alle regioni del Centro-Nord.

La sperequata distribuzione del reddito espone molte famiglie al rischio povertà che sta coinvolgendo non solo i tradizionali esclusi (disoccupati, anziani, incapienti) ma  anche le famiglie in cui è presente un solo percettore di reddito.

Nel Sud il 18% delle famiglie percepisce meno di 1000 euro al mese (contro il 7% del Centro-Nord) a cui si aggiunge un ulteriore 20% che guadagna fra 1000-1500 euro.

Questo segmento più povero della popolazione non trova compensazioni adeguate nel sistema attuale di welfare che, al contrario di altri paesi occidentali, non prevede misure universali di integrazione del reddito.

 

 

2) E’ questo il paese, con i suoi divari che non trovano riscontro in altri paesi dell’Europa, che deve affrontare i complessi problemi legati al riassetto istituzionale del federalismo.

Nell’incertezza circa gli esiti di questo disegno di riforma due sentimenti sembrano emergere dall’opinione pubblica disorientata dal “battage” mediatico costruito intorno a proposte di ancora incerta interpretazione.

Il primo sentimento è di delusione perché tanti anni di centralismo statale, non certo avaro di risorse finanziarie, non siano stati in grado di produrre processi importanti di convergenza tra Nord e Sud. Se in altri paesi l’utilizzo dei fondi strutturali ha consentito alle regioni europee incluse nell’obiettivo 1 di crescere ad un tasso annuo superiore a quello medio dell’area (4,8% contro il 3,7% per il periodo 2000-2005) è certamente sconcertante che il nostro Mezzogiorno, pur avvantaggiandosi di analoghe risorse, abbia ottenuto risultati tanto diversi[2].

E’ sulla base di questa constatazione che si accredita nel paese l’opinione che occorra riconsiderare le politiche di sviluppo del Mezzogiorno, legittimando cambiamenti anche di natura istituzionale, in grado di contenere l’assistenzialismo di Stato che ha depotenziato, con pratiche clientelari, le capacità di autogoverno dei poteri locali.

Sintomatico è che le stesse regioni meridionali, che pur rischiano da questa riorganizzazione dello Stato, abbiano espresso una condizionata disponibilità al disegno federale nell’obiettivo condiviso di favorire un avvicinamento fra il luogo ove si tassa e dove si amministra.

Questo principio deve però fare i conti con la disomogeneità del paese, in termini di capacità fiscale dei territori.

Alcuni recenti ricerche hanno evidenziato[3] che le regioni “autosufficienti”, nel senso che spendono meno della ricchezza fiscale prodotta, sono solo 7 e tutte collocate al Centro-Nord, mentre le restanti che interessano più di 32 milioni di italiani, di cui gran parte meridionali, presentano un saldo negativo tra il dare e l’avere.

Da qui nasce il secondo sentimento, ben presente nel Sud e nelle fasce più deboli della popolazione, che dietro la proposta del federalismo fiscale si celi in realtà la volontà delle regioni più ricche di autogestirsi la loro maggiore ricchezza. Se il Nord si avvantaggia di maggiori risorse, in presenza di vincoli stretti in materia di bilancio pubblico, le soluzioni che vengono intraviste non possono essere altre che il ridimensionamento dei trasferimenti al Sud o una riduzione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali.

Per prevenire conseguenti lacerazioni nel tessuto unitario del paese si è posto il problema di come disegnare le perequazioni tra regioni ricche e regioni povere. Il punto fermo a cui si è arrivati è che le Regioni e gli Enti Locali debbano disporre delle risorse necessarie al finanziamento integrale dei livelli essenziali di prestazione in materia di sanità, assistenza, istituzione.

E’ in questo ambito che si pone la questione di compensare la diversa capacità fiscale delle regioni, definendo i perimetri delle prestazioni essenziali e i termini di riferimento del “banch marking”  su cui calcolare la quantità e i costi unitari delle prestazioni.

Il superamento condiviso del criterio della spesa storica non può tuttavia essere brandito come una clava per una indiscriminata riduzione delle risorse a danno delle popolazioni meridionali che responsabilità non hanno delle distorsioni e degli sprechi dei locali sistemi di welfare.

Ci vogliono concordati piani di rientro nei parametri standard creando le condizioni economiche e di supporto tecnico perché l’impalcatura di standardizzazione possa dare solide fondamenta alla finanza federativa, evitando la rinegoziazione ex post di sforamenti di bilancio.

E’ inoltre importante stabilire il ruolo dello Stato nella gestione dei processi compensativi e la quota di risorse fiscali di cui può disporre. Nella generalità dei paesi gli schemi federali di “devolution” hanno riservato allo Stato centrale una quota di tributi intorno al 40% delle entrate tributarie e contributive (USA 40%, Canada 43%, Germania 32%) al duplice fine di fronteggiare le spese inerenti le funzioni centralizzate (pensioni, interessi del debito pubblico) e di garantire i trasferimenti compensativi a vantaggio delle popolazioni più svantaggiate[4].

Se l’approccio perequativo può soddisfare la condizione di garantire a tutti i cittadini livelli uniformi di prestazione nel campo dei servizi essenziali, rimane aperto il problema del finanziamento di altre funzioni, oggi assicurate dallo Stato, in campi quali la formazione professionale, la rete infrastrutturale e i servizi locali, la sicurezza urbana, importanti ai fini di sostenere la crescita delle imprese locali ed attrarre imprese esterne innovative.

Escludere tali funzioni dai finanziamenti compensativi avrebbe il significato di alimentare inasprimenti fiscali a livello locale o di ridurre le prestazioni, ostacolando in entrambi i modi la convergenza economica.

L’ipotesi emergente di compensare queste ridotte disponibilità finanziarie con una fiscalità di vantaggio per il Sud individua un percorso già sperimentato che ha messo in luce i limiti dell’incentivazione economica nell’attrarre nuovi investimenti se nel contempo non vengono rimosse diseconomie ambientali, non compensabili economicamente.

Come il recente Rapporto Svimez ha messo in luce il Mezzogiorno presenta una “competitività svantaggiata” sia rispetto alle 271 regioni della UE a 27, sia rispetto alle 80 regioni europee dell’obiettivo 1 ove le regioni meridionali si collocano dal 36 posto in giù.

L’obiettivo dell’allineamento competitivo del nostro Mezzogiorno richiede che la fiscalità di vantaggio diventi parte di una progettualità di intervento sul territorio meridionale in grado di produrre beni e servizi collettivi per lo sviluppo.

In questo campo occorre abbandonare la disastrosa frammentazione con cui sono state gestite risorse comunitarie e nazionali concentrandole sui progetti in grado di valorizzare i vantaggi competitivi dei diversi territori posti tra loro in concorrenza nell’accesso alle risorse pubbliche. La gestione delle risorse per progetti presuppone, inoltre, la diffusione di metodologie trasparenti di programmazione degli obiettivi e di controllo dei risultati e strumenti di premialità e di sanzionamento per gli amministratori e per gli apparati burocratici.

In conclusione il federalismo fiscale può essere una opportunità per il Mezzogiorno se diventa occasione per rimediare ai guasti causati dall’assistenzialismo dello Stato centrale, in vista di promuovere un rinnovo della classe dirigente e un nuovo orientamento a favore di politiche territoriali di tipo selettivo. Questo disegno di riforma richiede nel contempo un’accorta gestione per prevenire i rischi di un conflitto tra regioni ricche e povere in grado di ulteriormente indebolire il percorso del paese nell’economia europea.

L’Italia è oggi particolarmodo fragile e la sua unità sarebbe in pericolo se dopo il Nord la febbre leghista dovesse investire anche il Sud.

L’Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà” scrisse Mazzini. Un federalismo unitario e non separatista deve proporsi che questa profezia non si avveri al suo livello più basso.

 

 

 


[1] Rapporto Svimez 2008 sull’economia del Mezzogiorno”, Il Mulino, 2008

[2] Rapporto Svimez op. cit.

[3] M. Bordignon , “Studio condotto per la Confindustria sul rapporto dare e avere tra Stato e Territori”,  Confindustria, 2008

[4] Rapporto ISAE “L’attuazione del federalismo” marzo 2006.

 

 

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