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LA GRANDE SFIDA DEL DISTRETTO INDUSTRIALE PESARESE: TRA QUALITA’ DELLO SVILUPPO E UNA POLITICA INDUSTRIALE GLOBALE
Nel mio intervento, vorrei analizzare la realtà del distretto del mobile pesarese e cercare di spiegare quali sono le tendenze in atto in questo momento, e come queste siano collegate ai quesiti che il convegno di oggi ci pone.
Quando parliamo della provincia di Pesaro in Italia, l’associazione logica mentale più naturale che ci viene in mente sono i mobili, soprattutto le cucine, a testimonianza di come sia importante per il territorio questo settore, organizzato in un vero e proprio distretto con oltre mille imprese industriali e artigianali, con circa 13.000 addetti; un comparto che contribuisce in maniera decisiva allo sviluppo economico, produttivo e sociale, della nostra provincia, oggi, come negli anni passati, fonte di ricchezza.
Il distretto di Pesaro è caratterizzato dalla compresenza di due realtà distinte sia dal punto di vista produttivo, organizzativo e strategico. Da una parte vi sono alcune aziende leader che operano principalmente nel comparto cuciniero e dall’altra una miriade di piccole e piccolissime aziende (sia cuciniere che mobiliere), prevalentemente terziste, che rappresentano il 90 – 95% delle aziende del distretto.
Grazie all’intreccio con l’industria del mobile si sono sviluppati inoltre diversi micro-poli industriali: basta pensare alle aziende produttrici di arredo bar e quelle della cantieristica navale, al settore del vetro, e a quello delle macchine per la lavorazione del legno. Settore, quest’ultimo, che, grazie a particolari condizioni favorevoli, ha avuto una crescita che ha addirittura superato, in termini di addetti e di fatturato, il polo del mobile, affermandosi sui mercati nazionali e internazionali con prodotti ai quali viene riconosciuto un elevato livello tecnologico, e che coprono l’intero ciclo di lavorazione del legno.
Nel mobile/arredamento, invece, il distretto, le aziende e l’occupazione sono rimaste, negli ultimi anni, più o meno uguali a se stesse con alcuni aspetti caratterizzanti. La struttura dell’impresa è di tipo familiare con scarsa propensione al rischio strategico; il rapporto con la distribuzione nazionale ed internazionale è frammentata ed vi è un bisogno tradizionale di manodopera poco qualificata, con retribuzioni basse.
Il settore, in questo momento, è in difficoltà: c’è un’evidente rallentamento della produzione e i dati forniti dagli operatori statistici confermano in pieno questa situazione. Dopo anni e anni di crescita e di lavoro intenso per le aziende e per i nostri lavoratori, si è aperta, a mio avviso, una fase nuova che non può essere assolutamente sottovalutata.
La nuova fase si chiama globalizzazione e competizione internazionale. Senza dubbio la globalizzazione comporta dei rischi ma contemporaneamente offre numerosi vantaggi ed opportunità alle aziende, in quanto la liberalizzazione dei mercati dà la possibilità di aumentare la produzione, e di far conoscere i propri prodotti ovunque nel mondo.
Sembra però che le nostre aziende avvertano solo gli effetti negativi di questa competizione internazionale. E’ chiaro che non siamo di fronte ad una fase momentanea di congiuntura sfavorevole per cui si può sperare in una ripresa spontanea dei mercati sia interno che estero. Le cose stanno cambiando radicalmente: la globalizzazione e la concorrenza internazionale sono delle sfide inevitabili per le imprese del legno ed impongono la necessità di elaborare progetti nuovi per essere all’altezza di queste sfide e per non intraprendere la via del declino.
E i segnali di preoccupazione, in tal senso, non mancano. I dati, alla fine del 2003, indicano chiaramente un calo delle esportazioni del 21%, che rapportato, con i dati degli altri distretti, evidenzia il nostro primato negativo. Ma già dall’autunno del 2002, come sindacato avevamo percepito nella nostra attività giornaliera alcuni fattori di questo rallentamento: con un aumento della CIG (i dati ci indicano quasi un raddoppio delle ore nel 2002 rispetto al 2001), e con un trend purtroppo in crescita per tutto il 2003 e anche nei primi mesi del 2004. Abbiamo gestito, inoltre, qualche procedura di mobilità L. n. 223/91, anche se, fortunatamente, i lavoratori sono stati subito riassorbiti da altre imprese; si fanno meno ore di straordinario; stanno scomparendo i cartelli con la scritta “cercasi operai“ altrimenti diffusissimi nella nostra realtà.
Non possiamo naturalmente, ancora, parlare di crisi del distretto o di crisi occupazionale: le aziende più grandi ancora tirano, mi riferisco ai cucinieri più famosi, alla cantieristica e all’arredo bar, ma, accanto a queste realtà, abbiamo molte aziende come quelle dei mobili in genere (di camere, camerette, salotti e piccoli cucinieri) che stanno avendo problemi di commesse e cio’ non può che produrre effetti negativi sulle aziende di semilavorati, di verniciatura, di accessori. Si disegna, nel complesso, una situazione di difficoltà, sconosciuta da oltre un decennio, che subentra a una fase di pieno lavoro per tutti. Tuttavia è necessario evidenziare che non si tratta di una difficoltà del solo distretto di Pesaro, ma riguarda in uguale misura tutti i distretti, e tutto il settore anche a livello nazionale.
A livello nazionale, questo dato negativo è la risultante di due fattori entrambi preoccupanti: la diminuzione del consumo interno da un lato, e la contrazione delle esportazioni dall’altro.
Se pensiamo che l’Italia è il paese leader delle esportazioni dei mobili e che siamo secondi in quanto a volume di prodotto solo agli USA, ci si rende conto che questa non è una crisi che si può superare con un atteggiamento di semplice attesa e fiducia nella ripresa dei mercati.
Il settore, in Italia, si trova dunque in un momento delicato e decisivo per le proprie sorti future, e i prossimi periodi saranno fondamentali per trovare delle soluzioni che puntino al suo rilancio o per decidere se invece questo settore si avvierà verso un destino di ridimensionamento e declino.
Nel mondo delle imprese, ancora non emerge la consapevolezza che i fattori che hanno garantito il successo degli anni passati come la lira debole per le esportazioni, la possibilità di esercitare la leaderschip sulla qualità e il design, oggi, non sono più sufficienti, ma occorre mettere in campo altri fattori per contrastare la fragilità strutturale dovuta alla piccola dimensione delle aziende. La nostra presenza sui mercati mondiali è messa in discussione dall’affermarsi di Paese nuovi come Cina, Brasile, Polonia, sempre più in grado di competere per via dei costi, con i prodotti italiani, ma anche per la vicinanza ai principali mercati di sbocco, e che non si limitano più ad occupare i segmenti bassi del mercato, ma puntano anche alle fasce alte.
E’ illusoria quindi una strategia imprenditoriale che cerchi di rafforzare la propria competitività agendo esclusivamente sui fattori della flessibilità e del contenimento dei costi e dei diritti.
Bisogna mirare ad una via alta dello sviluppo, che scommette sulla qualità totale (dei processi, dei prodotti, della formazione) e che si realizza attraverso il consolidamento finanziario e societario delle imprese e attraverso un ripensamento complessivo del sistema dei distretti industriali.
Oggi pertanto le cose stanno cambiando, non solo a livello più generale, ma anche a Pesaro. Le imprese pesaresi sono di fronte alla concorrenza internazionale: diversi Paesi emergenti sono infatti in grado di produrre mobili simili ai nostri ma a prezzi decisamente più bassi.
Negli incontri aziendali, gli imprenditori ci testimoniano sempre di più il verificarsi di queste situazioni (anche queste sconosciute fino a poco tempo fa): alcune volte i prodotti stranieri presentati nelle fiere internazionali sono identici al prodotto pesarese nello stile, nei colori e negli accessori. Da parte delle imprese non c’è ancora una piena consapevolezza, né dei rischi, né delle relative soluzioni.
Molte aziende credono nel superamento delle difficoltà unicamente con una ripresa spontanea del mercato nazionale e dell’export, pensando di poter cosi’ tornare ad una situazione di pieno lavoro, come negli anni passati. Per questo, gli imprenditori sono indecisi sul da farsi, non fanno scelte, non assumono e non investono, stanno praticamente alla finestra a guardare, in attesa di capire meglio come si evolverà la situazione.
Ciò vale anche per le loro associazioni di rappresentanza, che hanno sì più consapevolezza dei problemi ma sono ancora ferme all’analisi delle cause che creano le difficoltà, piuttosto che alle soluzioni da mettere in campo. Infatti affermano solo che le nostre imprese sono meno competitive delle aziende dei Paesi emergenti perché quest’ultime non devono rispettare alcuna regola, sul costo del lavoro, sugli oneri sociali, sul rispetto delle norme per la sicurezza e sul rispetto delle norme ambientali. A loro avviso, tutto questo finisce per pesare in maniera decisiva sul costo dei prodotti, come a voler indicare lì il terreno su cui vincere la sfida della competizione. L’idea di pensare a soluzioni nuove e più avanzate purtroppo stenta ad affermarsi.
I cambiamenti economici in atto invece impongono all’intero distretto di Pesaro, al Sindacato, alle associazioni degli imprenditori, alle istituzioni locali di elaborare idee nuove che puntino a una progettualità dove la qualità e l’innovazione siano i perni fondamentali per lo sviluppo dell’intero settore. Il distretto del mobile a Pesaro è sufficientemente attrezzato per affrontare queste sfide? Vedo delle difficoltà ma penso sarebbe un grave errore da parte di tutti gli attori sociali, non assumere questi temi come centrali per il futuro economico del nostro territorio.
La sfida della globalizzazione che per natura richiede la costruzione di “reti lunghe” ossia integrazioni e relazioni anche con la scuola, l’università, le istituzioni, e soprattutto con le politiche economiche nazionali ed internazionali, (con esportazione del know – how) mette in difficoltà il nostro distretto che per definizione ha “reti corte” e tutte interne al territorio di riferimento che nei fatti ne ha permesso la nascita.
La risposta alla globalizzazione potrebbe essere data in vari modi. Si potrebbe utilizzare una o più aziende leader (penso per esempio al modello Benetton), che si fanno carico di costruire i nuovi legami internazionali fungendo da “server” o da portale, per la miriade di altre imprese che non hanno né dimensioni, né capacità per competere nel mercato globalizzato.
Tutto ciò non sembra, purtroppo, che sia possibile a Pesaro, che come ho premesso ha un tessuto industriale formato da piccole e piccolissime imprese, eccezione fatta per il settore delle cucine dove però i leaders sono legati principalmente al mercato interno, anche se oggi alcune aziende stanno tentando di globalizzarsi.
E’ chiaro che la competizione non può essere fatta solo per costi di produzione in attività manifatturiere molto tradizionali, così come è avvenuto nel nostro distretto per il settore del mobile. Tuttavia questo è stato il modo di produrre che ha caratterizzato le nostre imprese, e l’evoluzione del distretto, fin dagli anni ’70. La flessibilità dell’azienda infatti, non era data dal ricorso alle nuove tecnologie (informatica, macchine a controllo numerico), ma da una produzione che era ed è ancor oggi, in gran parte esterna all’azienda e demandata ad imprese di piccole dimensioni che non hanno grandi capacità di investire.
Per i lavoratori delle nostre aziende è sempre stato chiaro che l’enorme flessibilità era tutta in mano alla capacità delle imprese e dei lavoratori di piegarsi alle necessità di un mercato che richiedeva una estrema personalizzazione del prodotto. Questo tipo di flessibilità tutta costruita sul lavoro, nel medio – lungo periodo, si potrebbe trasformare in una camicia di forza che scoraggia drasticamente l’innovazione attraverso il ricorso alle “nuove idee”.
Finora un’altra arma vincente per lo sviluppo del distretto è stata la mobilità sociale dei lavoratori e delle persone in generale. Il tasso altissimo di flessibilità che la nostra forza lavoro ha garantito per decenni, ben prima dell’entrata in vigore della legge 30 di riforma del mercato del lavoro e della legge n. 66 sull’orario di lavoro, ci ha reso campioni di flessibilità. Da un’indagine degli anni ’90 elaborata da Bruno Contini dell’università di Torino emerge infatti che le nostre piccole e medie imprese italiane superano di gran lunga in flessibilità il mercato del lavoro americano.
A metà degli anni ’80 Marino Gottardi dello Csil elaborò una ricerca molto utile per comprendere le caratteristiche del nostro distretto. Dall’analisi emerse che il distretto deve essere considerato e valutato come un intreccio di relazioni tra la società e le imprese, e tra imprese ed imprese che organizzano ed assegnano ai subfornitori il compito di utilizzare la tecnologia. La sua evoluzione gli ha permesso di essere organizzato in un’area-sistema inteso come un aggregato territoriale di aziende parcellizzate, ma specializzate e fortemente integrate tra loro, in un equilibrio fatto di relazioni competitive ma anche di rapporti di collaborazione. Inoltre, l’apporto di conoscenze dato dalle piccole e medie imprese ha contribuito al miglioramento del nostro modo di produrre. Non possiamo dimenticarci anche del fatto che questo tessuto produttivo è fortemente sottocapitalizzato e legato al sistema bancario.
Un’analisi effettuata dall’Uff. studi della CGIL evidenzia che i debiti verso le banche rappresentano circa il 25% del totale delle fonti, e quindi una quota addirittura superiore al capitale dei soci. L’elemento di maggiore criticità sta nel fatto che l’indebitamento non è finalizzato alla crescita dell’impresa nel suo complesso, ma allo svolgimento dell’attività corrente.
Oggi è a rischio di sopravvivenza questa parte specifica del tessuto produttivo e con essa è a rischio uno dei punti di maggior forza del distretto e cioè la forte flessibilità produttiva che assicura una grande reattività di fronte ai mutamenti del mercato e dello stesso ciclo produttivo.
Da un’attenta analisi storico–sociologica emergono alcuni elementi significativi. La sfida tutta pesarese che ha dato vita al nostro distretto con i caratteri di mobilità sociale e dinamismo della comunità locale ha prodotto una forte industrializzazione, in un’area che 60 anni fa, era prevalentemente agricola, lontana dai capitali, dalle infrastrutture, e priva di elevate professionalità e scarse tensioni sindacali.
E’ stata solo questa “antica” caratteristica sociale della nostra comunità a determinare lo sviluppo spontaneo della struttura industriale del distretto: sono state le qualità sociali della nostra comunità a produrre la spinta all’imprenditorialità di cui oggi vantiamo il record, la laboriosità, e la propensione diffusa al saper fare e all’apprendimento per imitazione, tutto con caratteri inediti ed inaspettati.
Oggi, invece, la nostra società è estremamente rigida perché da un lato importiamo manodopera e dall’altra è finita quella mobilità sociale che dal dopoguerra ha realizzato la grande trasformazione della nostra provincia. Oggi i figli di quelle categorie sociali che riempivano le nostre campagne e che sono diventati operai e artigiani e imprenditori, o che hanno spinto altri a diventarlo, sono comunque una generazione diversa, sia per l’atteggiamento verso il lavoro in fabbrica come per la propensione alla guida delle imprese.
Si è rotto quel rapporto tra società ed economia, quel sistema complesso di iterazione e affidamento reciproco tra i valori della società e i valori dell'’impresa che nel tempo ha creato e trasformato il distretto così come lo conosciamo. Ne è testimonianza la femminilizzazione del mercato del lavoro, la tendenza crescente a trovare lavoro nei servizi, la scarsa domanda delle imprese del distretto per figure di alto livello di scolarizzazione, la stessa presenza di mano d’opera immigrata addetta alle mansioni operaie più tradizionali, e infine le difficoltà a realizzare i passaggi generazionali negli assetti proprietari e nella gestione delle imprese.
Se questo è il contesto che ci troviamo di fronte, il problema che ci dobbiamo porre è se il nostro distretto è già arrivato ad un binario morto. In un convegno tenutosi ad Urbino l’anno scorso, un illustre economista Marcello De Cecco ha sostenuto esattamente questa lettura della situazione. Sostenere che questa non è l’unica chiave di lettura richiede però di dare e cercare risposte alternative e convincenti alle contraddizioni in atto. Occorre quindi indicare da subito quale prospettiva si ritiene plausibile tra le due possibili alternative: La prima: Il distretto è morto davvero, però può evolvere in forme che lo renderanno sempre più simile alla grande impresa tradizionale; La seconda: Il distretto ha esaurito la sua spinta propulsiva tradizionale ma ha in serbo dinamiche moderne che ne possono rilanciare il ruolo all’interno delle mutate condizioni di mercato nazionali ed internazionali.
Se si dovesse ritenere percorribile la prima alternativa, si dovrebbe puntare tutto sul capitale finanziario nazionale ed internazionale, su grandi infrastrutture ed attrattività per le multinazionali. Così però sarebbe un impaccio di cui liberarsi presto, tutto il tessuto delle piccole imprese locali, perché queste non diventeranno mai la media e grande impresa di cui si parla.
Sicuramente è più convincente la seconda alternativa (il distretto ha esaurito la sua forza propulsiva, ma ha in serbo dinamiche moderne che ne possono rilanciare il ruolo). Tuttavia non possiamo farci convincere semplicemente dal fatto che questa ipotesi ci piace di più perché è più ottimista e fa al nostro caso. Confondere i desideri legittimi con le prospettive concrete sarebbe ben poco lungimirante!
E’ necessario per tutti noi, e per il sindacato, per primo, puntare a trovare nuove forme inedite di sviluppo capaci di coinvolgere il mondo delle imprese, le parti sociali e le istituzioni puntando così a fare sistema. Si può ben affermare che i sistemi di piccola e media impresa sono il prodotto della interazione tra istituzioni, norme, tendenze sociali; in sintesi è la società che produce l’economia. Questa è la certezza che dobbiamo avere: cercare quindi risposte nelle caratteristiche strutturali e fondanti del nostro distretto per favorire effetti economici a medio e lungo termine.
Con questo approccio, infatti, rendendoci conto di che cosa è successo nel passato, come si è originata questa industrializzazione strana, né fordista, né post – fordista, né conflittuale, ma neanche collaborativa, possiamo pensare alle risposte per il futuro. I valori che hanno prodotto il distretto e che ne possono favorire l’ulteriore evoluzione ed ammodernamento sono sostanzialmente valori e qualità sociali delle persone che in relazione tra di esse costituiscono la comunità locale.
In questo quadro la stessa azione contrattuale del sindacato non appare come la normale difesa di interessi legittimi della parte più debole del processo produttivo: può diventare invece la valorizzazione in termini economici di quei nuovi meccanismi di sviluppo di cui il distretto ha bisogno.
La verità semplice è che ogni situazione di sviluppo economico arriva a momenti di effettiva stasi, come appunto il nostro distretto, e gli imprenditori reagiscono cercando di irrigidire il sistema esistente, difendendo lo status quo fino al punto di cercare le soluzioni più che altro nel sostegno pubblico fino a chiedere azioni protezionistiche o pretendendo sgravi e sconti.
Il sindacato, con la spinta rivendicativa delle donne e degli uomini che lavorano e che nel lavoro hanno la loro prospettiva di vita, devono rompere la rigidità espressa dai soggetti imprenditoriali in questa fase di stasi del distretto.
Di fronte all’estrema flessibilità della forza lavoro che ha permesso a questo distretto di nascere e crescere , ora è l’impresa a produrre la rigidità, perché rimane statica nel mercato, non rilancia in avanti l’economia verso nuovi prodotti e nuovi processi produttivi.
C’è la necessità quindi di un salto di qualità della cultura imprenditoriale prevalente, che rischia di insistere su produzioni tradizionali, con scarso valore aggiunto, di scarsa qualità, indirizzate a mercati medio-bassi e meno ricchi con una scarsa organizzazione commerciale soprattutto verso l’estero. Invece solo prodotti di qualità più alta, ci apriranno nuove ed importanti prospettive. Bisogna insistere sui punti di forza del distretto, che consistono nella produzione di mobili, con un buon rapporto qualità/prezzo, con un buon design, con consegne rapide per rispondere alle esigenze del mercato, e pensare anche all’utilizzo di materiali innovativi ed ad una certificazione di garanzia dei prodotti che identifichino il territorio di provenienza (made in Pesaro) per essere protetti dalle contraffazioni. In questo quadro può essere di rilievo il ruolo dei centri servizi ed in particolare il Cosmob, a condizione che si concretizzi meglio e si supporti strutturalmente la sua attività incentrata sulla certificazione di qualità e sul trasferimento tecnologico alle imprese.
Il sindacato non può non interrogarsi su questa staticità e rigidità degli imprenditori, mentre la flessibilità viene normalmente richiesta solo ai lavoratori.
La scelta obbligata del sindacato è quella di perseguire gli obiettivi sopraindicati, dove i lavoratori sono attori importanti dell’intero processo produttivo. E’ solo attraverso la contrattazione sia nazionale che territoriale che va perseguito l’obiettivo di ottenere diritti, tutele, nell’ambito lavorativo e sociale.
Nel ragionamento che si sta tentando di sviluppare si è ripetutamente affermato come la scelta migliore sia quella di considerare non esaurita l’esperienza del distretto, ma allora cosa occorre garantire per rilanciarne il ruolo?
Cercherò di enunciare in maniera schematica alcune proposte che per il sindacato sono essenziali. 1. Per prima cosa è necessaria una corretta individuazione di tutti i protagonisti, in modo che tutti esprimano in maniera corretta la rappresentanza. Questo è un problema sia del sindacato dei lavoratori, ma anche delle associazioni imprenditoriali. La “querelle” per esempio sulla Fiera non può non porci alcuni interrogativi. E’ sotto gli occhi di tutti che la mostra del Mobile negli anni ha perso progressivamente valore. Emerge chiaramente un dato: queste vicende hanno diviso il destino dei principali cucinieri dal resto dei produttori, che preferiscono la Fiera di Milano a quella di Pesaro che invece potrebbe rappresentare per tutti gli operatori nazionali ed internazionali una vetrina del nostro territorio produttivo. Va inoltre ripensato il ruolo e le forme per la gestione stessa della Fiera anche in relazione ai notevoli problemi finanziari a questa connessi.
2. E’ necessario un nuovo ruolo strategico delle istituzioni locali, dalle quali a tutti i livelli dai Comuni, alla Provincia, fino alla Regione, si pretende un ruolo di governo generale della partecipazione, capace di imporre ai soggetti sociali regole e modalità per la rappresentanza. Inoltre noi consideriamo essenziale la capacità di costruire una rete solida delle istituzioni locali che siano l’interlocutore unico della rete di soggetti che il sistema esprime (partendo quindi dalle scuole e l’università, fino ad arrivare alla Camera di Commercio). Questo ruolo va garantito sull’intera area che il distretto occupa o con la quale ha relazioni forti, senza vincoli assurdi creati dai confini istituzionali (arrivare a Rimini o ad Ancona, fino a coinvolgere, ogni volta che occorre anche il soggetto regionale).
Le istituzioni locali giocano un ruolo rilevante perché sono in grado di contribuire alla modernizzazione delle condizioni di contesto nelle quali operano le imprese con infrastrutture, piani regolatori, sistemi di distribuzione, reti di servizi alle imprese, eccetera.
3. Dalle istituzioni locali deve anche essere realizzata una razionalizzazione ed un governo unitario degli interventi di politica industriale. In questo senso va resa effettivamente operativa la funzione del Comitato di distretto (COICO) incentrata sulla capacità di selezionare progetti di sistema e di favorirne concretamente la realizzazione.
4. In questa logica, è più che mai utile quindi l’adozione di un vincolo prioritario: se vogliamo davvero scommettere sulla sopravvivenza del distretto, le politiche per le imprese (aiuti, contributi, programmi di intervento di ogni tipo) vanno riferite prevalentemente al sistema distrettuale, alla rete di imprese non alla singola impresa, né artigiana, né industriale. Il concetto di fondo utile per leggere la globalizzazione è che ogni tessera del sistema produttivo locale vive perché è in rete e resisterà se continuerà a rimanere in rete.
E’ necessario individuare quali sono i punti deboli e i ritardi del sistema distrettuale, per poter poi trovare le soluzioni più adeguate per risolverli. Provo a citarne qualcuno. La nostra provincia ha un alto tasso di infortuni sul lavoro, e questo è un chiaro indicatore della scarsa qualità nell’organizzazione del lavoro delle nostre aziende. Per questo è necessario puntare a forme di certificazione che riguardino l’intero sistema delle imprese. E’ arrivato il momento di affrontare in termini corretti il problema della flessibilità del lavoro nella sua dimensione distrettuale. Lo abbiamo detto all’inizio che la nostra flessibilità supera di gran lunga quella americana, pertanto sommare la tradizionale flessibilità a quella più creativa della legge 30 comporta di per sé l’annullamento di risorse strategiche.
Oggi assistiamo al venir meno del tradizionale rapporto tra lavoratore e sistema produttivo, e ad una resistenza da parte dell’imprenditore a qualificare la mano d’opera, temendo di doverla retribuire di più ed inoltre con la forte mobilità che esiste di poter favorire i propri concorrenti, con l’unico risultato di avere una scarsa organizzazione del lavoro.
Noi chiediamo che le politiche locali di sostegno alle imprese devono favorire e migliorare il raggiungimento di standard di qualità (sulla sicurezza e ambiente, orari, mobilità territoriale, innovazione tecnologica e dei prodotti).
Tutto ciò impone di definire nuovi meccanismi di diffusione del nuovo sapere, tenendo conto di quanta spontaneità ed automatismo c’è stato nella nascita e sviluppo del distretto (c.d. sapere informale), e quanta formalità invece richiede il nuovo sapere: penso per esempio alla ricerca, all’innovazione, e all’inglese, e all’informatica. Ciò che va fatto in maniera tempestiva è la creazione di forti intrecci tra i soggetti locali: tra l’Università e tutte le Scuole, per qualificare attraverso il reciproco riconoscimento ed affidamento quello che già stanno facendo. Per esempio la ricerca nell’Università, quella che si fa, ma non si conosce perché è fatta ad Urbino o ad Ancona ed i committenti sono altrove, va diffusa. L’istruzione nelle scuole, dove l’integrazione scuola – lavoro deve essere un’esperienza di qualità, e non solo semplici stages in aziende disponibili. Gli enti locali, e i diversi attori sociali dovrebbero qualificare e coordinare i diversi centri di monitoraggio già esistenti con lo scopo di tenere sotto osservazione i diversi indicatori economici e sociali compresa la qualità della contrattazione che si sviluppa.
Infine se abbiamo riconosciuto che è stata la qualità sociale della nostra comunità a far nascere il distretto, e saranno sempre le qualità sociali nuove e moderne a permettere l’ulteriore sviluppo, ciò fa sorgere spontaneamente una domanda.
Se ieri i contadini sono diventati imprenditori e moderni lavoratori, chi sono, oggi, i soggetti disponibili a garantire una nuova dinamicità al distretto e a produrre la nuova mobilità necessaria? Chi sono i soggetti che sono in grado davvero di mettersi in discussione, che hanno voglia di ricominciare a scalare il mondo?
La forza lavoro femminile che ‘50 anni fa era una forza solo sotterranea è oggi giudicata anche dalle aziende determinante soprattutto tra le fasce più giovani. Allora il welfare locale deve fornirci delle soluzioni concrete sugli asili nido e i servizi alla famiglia, si deve sviluppare l’uso dei congedi familiari e delle pari opportunità. E’ vero che questi possono essere degli obblighi fastidiosi per la singola impresa, ma sono una grande opportunità per il sistema distrettuale nel suo complesso.
Anche gli immigrati che nel nostro settore abbondano, devono essere considerati una risorsa e pertanto la qualità delle politiche di accoglienza ed integrazione deve essere migliorata. Questi sono lavoratori dotati spesso di competenze qualificate ma assolutamente inutilizzate, pertanto è necessario pensare a come tradurre queste competenze in professionalità spendibili per il nostro mercato del lavoro anche attraverso una formazione continua che non gli releghi a diventare degli addetti ai lavori rifiutati. Anche le politiche abitative sono molto carenti, infatti i comuni, le associazioni imprenditoriali e la stessa contrattazione sindacale territoriale potrebbero concertare forme di allargamento del patrimonio abitativo, forme di finanziamento ulteriori per rendere “più flessibile” il mercato degli affitti e “più mobile” la forza lavoro sul modello dell’Agenzia per la casa.
Per ultimo ma non meno importante, l’intero sistema produttivo deve scommettere fino in fondo sulla formazione. Da una ricerca di Unioncamere di Milano emerge che le aziende sotto i 400 dipendenti non possono fare né ricerca, né formazione. Ciò significa che le nostre aziende avranno sempre mano d’opera scarsamente qualificata? Il problema vero è che ci dobbiamo porre in una dimensione più ampia, dove le soluzioni devono essere date al sistema delle imprese del territorio e non solo alle singole imprese.
Pesaro è una delle poche realtà in Italia che ha sperimentato la formazione contrattata nata da una comunione di intenti tra le organizzazioni sindacali, Assindustria, Consorzio del mobile e Provincia per rafforzare le competenze specialistiche legate alla produzione del territorio, per innalzare il livello delle competenze trasversali dei lavoratori, e per far acquisire e diffondere il concetto di qualità nel processo e nel prodotto. Questa esperienza ha coinvolto 290 lavoratori, e 19 aziende che operano nel mobile, nella cantieristica, nella metalmeccanica e nel vetro. L’elemento innovativo di questo tipo di formazione sta nel fatto che si è costituita una rete di soggetti che condividono un piano organico di azioni formative che riguardano l’intero territorio. In questi giorni sta partendo la seconda annualità del piano formativo, e come sindacato ci auguriamo che questa metodologia sia sperimentata anche in altre azioni formative ed in altri comparti produttivi del territorio, accrescendo così una cultura alla formazione diffusa, che individua nella rete di strutture e nelle tecnologie avanzate il nuovo modello produttivo locale. Un’opportunità significativa in questa direzione viene data dall’ormai prossimo avvio dei fondi interprofessionali. Anche a Pesaro dovremo attivarci per definire progetti formativi aziendali o interaziendali.
Un’adeguata offerta formativa deve essere fatta agli operai specializzati, una formazione realizzata in forma massiccia sulle materie più attuali, che sia capace di trasformare gli ex studenti e operai in tecnici capaci di intraprendere un nuovo percorso professionale.
L’offerta formativa indirizzata alla qualità, all’innovazione, e alla nuova organizzazione del lavoro non deve dimenticare neppure quelle figure che nelle nostre aziende rivestono funzioni sia imprenditoriali che manageriali.
Infine vorrei spendere alcune parole riguarda le relazioni sindacali. E’ necessario migliorare e qualificare maggiormente le relazioni sindacali (sia con l’industria che con l’artigianato) che devono intervenire, non in modo sporadico, per conoscere ed approfondire le dinamiche che avvengono all’interno del territorio per esempio sull’andamento del settore, sull’evoluzione dell’occupazione, la formazione, eccetera. Tutti i temi sopracitati come la formazione, l’organizzazione del lavoro, la sicurezza, il salario collegato alla produttività ed alla professionalità, devono trovare spazio nella contrattazione aziendale che va qualificata ma soprattutto estesa. Questi sono gli obbiettivi contenuti anche nella piattaforma per il rinnovo del contratto nazionale, purtroppo ormai scaduto da mesi, e ancora non rinnovato sia nell’industria che nell’artigianato.
Concludo ribadendo che il nostro distretto non è tramontato nonostante l’offensiva della globalizzazione, ha però bisogno di aggiustamenti perché è proprio nel modello di integrazione reticolare che si deve trovare la base di partenza per il rilancio della nostra economia locale.
Venerdi 4 giugno Pesaro |
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