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Cgil

 

 

Protocollo Welfare

Intervento di Franco Martini al direttivo Cgil e dichiarazione di Gugliemo Epifani

 

Intervento di Franco Martini al Direttivo Cgil

Roma 23 ottobre 2007

 

“E’ importante, innanzitutto, tornare sulla partecipazione al voto referendario, oltre che al risultato, poiché ci consegna un problema di particolare rilevanza.

Nel nostro settore hanno votato, rispetto al 1995, più del doppio dei lavoratori interessati. E’ vero che nel ’95 le costruzioni erano nel pieno della bufera di Tangentopoli, con le evidenti difficoltà di tenuta delle imprese e del lavoro. E’ anche vero, tuttavia, che proprio quella crisi, purtroppo, ha fatto si che il processo di destrutturazione andasse ancora avanti, consegnandoci oggi un sistema di imprese il cui rapporto addetti/impresa non arriva a tre dipendenti, il 40% inferiore del ’95. In questo quadro abbiamo più che raddoppiato la partecipazione del ’95!

Questo dà la misura dello sforzo compiuto dalle nostre strutture, dai nostri gruppi dirigenti, che hanno creduto nella scommessa della consultazione, vi hanno investito molto ed hanno ricevuto dai lavoratori un forte apprezzamento, tradotto in un recupero di fiducia verso il sindacato, le cui tracce vanno ricercate anche nel consenso alto ottenuto sul protocollo, oltre il 90%,  nel nostro settore.

Adesso abbiamo il problema di non disperdere questo patrimonio democratico, come capitalizzarlo nello sviluppo dell’iniziativa futura.

Ciò pone anche l’esigenza di rimettere all’ordine del giorno il tema della rappresentanza, sul quale già alcuni partiti hanno preannunciato la presentazione di proposte di legge.

Occorre, poi, analizzare il risultato, l’ampio consenso ottenuto dal protocollo sottoposto al referendum. Credo importante che in questa discussione si sia iniziato a fare giustizia di letture troppo a caldo, forse troppo condizionate da reazioni stizzite della prima ora, tra le quali troneggia quella secondo la quale la linea di demarcazione che divide il SI dal NO sarebbe quella del disagio.

E’ ovvio che il disagio appartiene a tutti i settori perché è la fotografia di una condizione del lavoro e dei lavoratori che vede ancora irrisolte troppe contraddizioni, così come paradossale sarebbe attribuirne la quota maggiore ai lavoratori delle grandi imprese manifatturiere, dato che non di meno viene denunciata la condizione di chi opera nelle imprese minori, nel subappalto, nell’artigianato.

Del resto, questa categoria, che ha raccolto oltre il 90% di consensi, si è confrontata con dei lavoratori che in quanto a disagio non sono certo secondi a nessuno: abbiamo dovuto dire loro che la soluzione sugli usuranti continua ad escluderli e non erano certo contenti; abbiamo dovuto parlare del superamento dello scalone cosa che li riguarda che in minima parte, dato che, come è noto, la quota di lavoratori edili in grado di raggiungere i requisiti del pensionamento anticipato è una esigua minoranza; abbiamo dovuto informarli delle pessime soluzioni raggiunte, ad esempio, sul tempo determinato, quando a loro da sempre si applica il diritto al licenziamento (per fine cantiere). Altro che disagio….

Com’è possibile allora che abbiamo condiviso il protocollo?

Semplicemente perché non siamo andati a dire loro che portavamo la “soluzione finale” di tutti i problemi, ma semplicemente un avanzamento importante, per continuare a migliorare la loro condizione. E soprattutto, perché abbiamo detto loro che non sottoponevamo alla loro approvazione un accordo che riguardava solo gli edili, ma tante altre categorie sociali.

Sono stati apprezzati risultati importanti per la condizione di lavoro del settore. Forse, per i tanti che hanno ridotto questo confronto al superamento dello scalone non fa tanta importanza –ad esempio- il miglioramento ottenuto nella normativa sugli ammortizzatori, ma per un edile significa accorciare di 2-3 anni i tempi di attesa per la pensione.

Così come sono stati apprezzati i piccoli passi in avanti compiuti per i giovani, perché tutti coloro che lavorano hanno un figlio, un nipote, che vive forse la condizione sociale più disagiata, quella dell’assenza di prospettive, di certezze per il futuro.

Questi passi in avanti, assieme agli altri contenuti nel protocollo, sono stati valutati assieme a quelli che abbiamo prodotto in questo primo anno di legislatura, che riguardano la lotta al lavoro nero, contro gli infortuni ed una maggiore sicurezza, e tutto quanto si è fatto, con difficoltà, con il Ministero del lavoro.

Questi risultati, poiché si toccano con mano, hanno restituito una quota di fiducia al sindacato, che si è tradotto nel consenso dato al protocollo, ma che ci consegnano un impegno serio, quello a dare continuità al nostro lavoro. Nelle assemblee abbiamo detto che su diversi punti occorreva andare avanti, ed è quello che dobbiamo fare.

Si tratta delle questioni previdenziali degli immigrati, si tratta del precariato che mantiene una connotazione ancora insopportabile, per la nostra categoria riguarda anche la questione del pensionamento anticipato degli edili, non ancora risolto adeguatamente. Sono gli appuntamenti per le prossime settimane, che deve vederci impegnati con proposte in campo, che sappiano incrociare anche la stagione contrattuale.

L’altro punto del nostro ragionamento riguarda le ragioni dello stare insieme tra noi, che è qualcosa più che le regole della nostra convivenza.

La questione delle regole, in fondo, non è la più difficile, è quella del rispetto reciproco e della coesione. Quello che diventa sempre più insopportabile è l’idea che all’interno della nostra organizzazione vi siano “zone franche”, “regimi di immunità”, per cui a qualcuno tutto è permesso, ad altri no. E’ qualcosa più che una questione disciplinare, poiché questo sospetto non porta altro che alla destrutturazione del patto coesivo che ci tiene insieme. Spesso, si è detto che, nonostante l’evidenza, in fondo “senza la Fiom la Cgil non può esistere”, come se la Cgil potesse esistere senza la Filcams, la Scuola o la stessa Fillea….!

Ma il vero problema è politico, la natura del nostro sindacato, della Cgil, il suo carattere confederale. Quello che più preoccupa è il rischio di un mutamento strisciante ed inconsapevole di questa natura, che, se permettete, è qualcosa di molto più complesso della posizione sulla Legge 30.

Nelle vicende che stiamo discutendo io trovo innanzitutto una caduta di autonomia sindacale.

Si ha un bel dire che  nei SI e nei NO vi è tutto merito sindacale, ma onestamente si fa un po’ fatica a crederlo. Io credo –senza voler generalizzare- che vi sia più merito sindacale nel SI che nel NO.

Innanzitutto, trovo una evidente sproporzione tra i limiti presenti nell’accordo e la reazione negativa, che ha portato addirittura a consumare quella scelta inedita del Comitato Centrale della Fiom. E’ proprio vero che altre volte abbiamo fatto di peggio! Credo, quindi, che vi sia un “di più” in questa reazione che non si spiega solo col merito sindacale. Tra l’altro, tanto i contratti a part time, che sugli straordinari, pur mantenendo il giudizio negativo che abbiamo dato, sono materie sulle quali la contrattazione avrebbe potuto e potrà provare a metterci una pezza…

Il merito sindacale rivendica anche alternative praticabili. Nei NO che abbiamo incontrato noi c’era soprattutto una delusione per quello che Prodi non aveva ancora fatto in tutto questo anno, “da Prodi mi aspettavo di più”, argomento legittimo, ma che esulava la valutazione su un accordo specifico. Al quale nessuno, in ogni caso, era in grado di offrire una alternativa.

Non può sfuggire a noi che esiste anche il problema della responsabilità, che io vedo anche dopo la manifestazione del 20, che pone il problema a chi la promossa di capitalizzare quelle aspettative. E nessuno può non vedere la precarietà del quadro politico, che rende assolutamente impensabile tradurre quelle aspettative in soluzioni “sindacali” diverse e praticabili.

Invece, la risposta del SI, “sennò cade il Governo”, è molto più sindacale, poiché tiene conto dei risultati, tutti sindacali, che in questo anno siamo riusciti ad ottenere, come dicevo, sul versante della sicurezza, della lotta al lavoro nero, della regolarità delle imprese: non so se è chiaro a qualcuno, ma l’ipotesi della caduta del Governo comporta il rischio più che probabile che venga letteralmente cancellato questo insieme di risultati, con un arretramento pericoloso nei settori più esposti, come il nostro! Interessa a qualcuno, questo?

E io vedo nella caduta di autonomia, anche una crisi della confederalità, quello che fa dire a me “il NO mi appartiene”, ma nella stessa misura che fa dire all’altro che non la pensa come me “il SI mi appartiene”, cosa che sinceramente sento un po’ meno.

Questa crisi della confederalità è nelle cose che si sentono e si fanno (o che non si fanno).

In quel dire, assolutamente senza senso, che il voto dei lavoratori delle grandi imprese vale più che quelli delle piccole, non solo c’è l’assurdità mediatica del momento, ma il seme del sindacato corporativo. Chi pensa quello ha in testa un sindacato corporativo, che non è il nostro!

Ciò dipende anche da una lettura del mondo del lavoro assolutamente sfalsata rispetto alla realtà, che vede ancora un baricentro del grande manifatturiero, che non esiste più. E’ singolare che della crisi dei sindacati industriali ci viene chiesto di interrogarci, cosa giusta, quando i primi a farlo dovrebbero essere proprio coloro che forse non riescono a trovare le risposte adatte. Allo scarica barile sarebbe preferibile sostituire un coinvolgimento comune nella ricerca delle soluzioni.

Ma soprattutto le politiche contrattuali. La vera crisi della confederalità la vedo nella incapacità di far parlare le categorie tra loro, là dove dobbiamo esercitare il compito di tutela dei lavoratori. Ed il paradosso è che ciò avviene proprio dove maggiore è la precarietà, cioè, quella emergenza della quale le nostre discussioni si sciacquano molto la bocca! E’ il caso dei cantieri dove lavorano operai in subappalto dell’edilizia, della meccanica e di altri settori, senza che i rispettivi sindacati di categoria riescano a costruire una azione comune. Forse perché sono lavoratori di imprese molto sotto i 500 dipendenti….

Il precariato, il nostro precariato non è solo la L.30 e si combatte non solo abolendo la L.30, ma contrattando i processi organizzativi, cosa che no riusciamo a fare, nonostante nessuna legge ce lo impedisca.

Vedete, in edilizia dopo un anno di lavoro col Governo per rendere il più regolare possibile il lavoro, le imprese hanno trovato la soluzione, facendo schizzare le iscrizioni presso le casse edili di lavoratori a part time, tipologia di lavoro che no nc’entra nulla con l’edilizia. Una condizione di precarietà determinata da un contratto di lavoro, che abbiamo addirittura valorizzato nel recente protocollo.

Quando mi chiedo come uscire da questa discussione penso che il modo migliore sarebbe chiedere alla Fiom di compiere un passo indietro, ma non dalle proprie idee e posizioni, quanto nel modo come renderlo patrimonio comune. E per essere ancora più chiari, dico che qui dentro o si è tutti indipendenti o non lo si è nessuno! E se lo si è tutti, allora questa organizzazione non ci sarà più, non ci sarà più il sindacato confederale.

Se invece vogliamo difendere la nostra confederalità, se vogliamo ritrovare le ragioni dello stare insieme bisogna convenire sul fatto che quella scelta è incompatibile, quella dell’indipendenza è incompatibile con il valore della confederalità. Non so se la Fiom avrà bisogno di un congresso per rimetterla in discussione, ma certamente sarebbe un segnale politico importante se l suo gruppo dirigente cominciasse da subito a discuterla, per offrire un nuovo terreno sul quale ricostruire i rapporti e l’unità tra noi.”

 

 

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Dichiarazione di Guglielmo Epifani

Roma  22 ottobre 2007

“Il direttivo della Cgil deve essere l’occasione di discutere in modo trasparente e netto i risultati del referendum e le conseguenze che determinano. Risultati che confermano il giudizio positivo espresso a luglio, mentre la trascrizione finale del testo corrisponde e in alcuni casi chiarisce meglio i contenuti del protocollo, consentendo anche di superare alcune delle riserve espresse al momento dell’accordo.
La richiesta è ora che il Parlamento approvi il provvedimento entro la fine dell’anno e che in nessun modo peggiori il testo, né tenti di alterarne gli equilibri interni. Il Parlamento è naturalmente sovrano, ma dobbiamo sapere che, dati i rapporti nella maggioranza, saranno difficili soluzioni ulteriormente migliorative: abbiamo aggiunto le migliori soluzioni possibili nelle condizioni date. In queste ultime ore emergono prospettive più difficili per il governo: se il protocollo non sarà approvato entro l’anno si tornerà davvero indietro riguardo le condizioni di vita e di lavoro della gente che rappresentiamo.
Per questo ci dobbiamo augurare che il governo non cada, che sia messo in condizioni di proseguire il lavoro, che non prevalgano ipotesi di segno moderato o operazioni di cambi di maggioranza nel segno del trasformismo o addirittura della compravendita dei voti di parlamentari, come si sente dire in questi giorni.
L’esito del referendum è inequivocabile, è un risultato mai raggiunto nelle precedenti consultazioni, i sì hanno prevalso ovunque, anche se non sfugge il malessere che esprimono alcune grandi aziende metalmeccaniche, in particolare del gruppo Fiat. Ma il disagio dei lavoratori non è espresso solo dal no al referendum, il disagio, le difficoltà legate ai salari, ai ritmi, alle organizzazioni del lavoro, alla delusione per le politiche del governo di centrosinistra è anche dietro i molti sì. Ma se è necessario interrogarsi sulle ragioni del no, tutti (a cominciare da chi è stato contrario all’accordo) devono interrogarsi sui tantissimi sì.
I sì esprimono prima di tutto la condivisone sui contenuti dell’accordo, ma anche la fiducia nel sindacato, volontà di dare ad esso forze e autorità, fiducia nelle possibilità di cambiamento, riconoscimento di aver fatto quanto possibile. Ha vinto un’idea alta di responsabilità, autonomia e unità, solidarietà, coraggio di rischiare, un’idea alta di confederalità. Inoltre, il referendum ha avuto un significato importante in sé: la partecipazione al voto di oltre 5 milioni di lavoratori e pensionati ha segnato un’inversione di tendenza nel clima di crescente antipolitica che si andava alimentando. Quello che e’ venuto dopo, la grande affluenza alle primarie per il partito democratico e la partecipatissima manifestazione di sabato scorso, parte da questa inversione di tendenza.
Questo direttivo deve essere la sede di un dibattito senza remore, perché senza il confronto le divisioni emerse possono rafforzarsi e diventare più difficili da colmare.
Nel merito dei comportamenti assunti da aree dell’organizzazione, confermo di considerare un errore la partecipazione alla manifestazione di Firenze del 29 settembre da parte di chi partecipa alla maggioranza congressuale. E’ una questione di cui dobbiamo discutere senza finzioni e ambiguità. Non c’entrano le legittime questioni di pluralismo e di difesa del dissenso, quale che siano le conseguenze il pluralismo sarà comunque garantito.
La Fiom ha compiuto una scelta mai fatta prima esprimendosi per il no e con questa formalizzazione il referendum è diventato di fatto anche una contrapposizione fra una categoria e le confederazioni.

Cosa ha determinato una posizione così netta mentre sono stati accettati in passato accordi ben più incidenti sulle condizioni delle persone? Se si accentueranno le divaricazioni con la Fiom ci saranno problemi crescenti fra la categoria e la Cgil. La particolare sensibilità della Fiom rappresenta una ricchezza per la Cgil ma guai se si allenta lo spirito di confederalità e se non si affronta subito questo nodo le questioni si a graveranno.
Infine, la cosa più inaccettabile in queste settimane sono state le accuse di brogli. Innescare questa polemica è stata una scelta studiata e costruita tanto dentro che fuori la Cgil. E’ cominciata all’interno già durante le assemblee, ha avuto il suo culmine con le accuse esterne. Era chiaro il tentativo di delegittimare il voto e se i risultati fossero stati meno netti tutta la discussione sarebbe stata sui presunti brogli. E’ una responsabilità grave, che resta tutta a carico di chi, per sostenere interessi di parte, non ha voluto pensare al bene dei lavoratori e dei pensionati.”

 

 

 

 

 

 

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