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Sciopero generale del 30 novembre 2004

Comizio di Franco Martini in Brianza

 

 

     Hanno detto di questo sciopero che era dovuto, un rito del sindacato ad ogni presentazione di Legge Finanziaria, soprattutto da parte di questo Governo. Fatto lo sciopero bandiere e striscioni saranno ripiegati e la vita andrà avanti come prima e forse più di prima.

 

Ma non sono queste le intenzioni del sindacato! Forse del Governo che in tutti questi anni ha dimostrato quanto tenere di conto delle opinioni nostre e di tutte le parti sociali, cioè, niente!

 

Con questo sciopero riparte la mobilitazione sindacale per lo sviluppo. Dopo lo sciopero di oggi il prossimo mese terremo una importante manifestazione a sostegno del Mezzogiorno, completamente abbandonato dalle politiche del Governo e nel mese di febbraio, a Milano, torneremo nuovamente in campo per una manifestazione per denunciare la grave crisi che sta attraversando l’industria italiana.

E non staremo fermi neanche durante la discussione in Parlamento sulla Legge Finanziaria, perché saremo presenti anche noi, lì, con i nostri picchetti e i presidi dei lavoratori e dei pensionati, a sostegno delle nostre proposte, contro scelte che stanno portando il Paese verso una delle crisi più gravi degli ultimi decenni.

 

Hanno anche detto che il nostro è uno sciopero politico, strumentale, contro il Governo perché ispirato da una logica da opposizione politica e mentre dicevano questo non si sono accorti che molte delle cose che denunciano i sindacati sono oggetto di una critica pesante che viene da tante parti della società: le istituzioni, l’Anci, le Province, le Regioni –indistintamente dal colore delle Amministrazioni che le governano- e poi le associazioni di categoria, i commercianti, le piccole imprese, fino alla Confindustria. Pensate, sono così prigionieri del loro riflesso condizionato che quando il Presidente Montezemolo l’altro giorno a Bergamo ha criticato la manovra fiscale del Governo (dopo che aveva già criticato la Legge Finanziaria) non hanno saputo dire altro che il suo era un discorso da leader dell’opposizione! Pensate, Montezemolo uno dei capi dell’opposizione!

 

Non c’è che dire, una grande capacità d’ascolto! Quella incapacità di comprendere che ha fatto dire ancora che questo è uno sciopero contro la riduzione delle tasse, contro –cioè- una delle decisioni più attese dagli italiani, quindi, una iniziativa lontanissima dalla sensibilità delle persone, che non sa parlare ai bisogni della gente.

 

Ed invece, se noi siamo qui è proprio per dire alla nostra gente e non solo alla nostra gente, ma a tutto il Paese, che dietro i trucchi e le mistificazioni alle quali stiamo assistendo in questi giorni è sempre più in gioco il futuro del Paese.

COSTRUIRE IL NOSTRO FUTURO è lo slogan di questa giornata, come lo era in occasione dello sciopero di marzo, perché questa è la vera partita che stiamo giocando oggi nel Paese.

Non è uno slogan ma una convinzione che nasce dai fatti concreti, da quello che sta accadendo giorno dopo giorno, dalle conseguenze gravi di un apolitica che non viene scelta in base al futuro da dare al Paese, ma più semplicemente agli interessi di pochi che già occupano posizioni di privilegio.

 

Ci piace ragionare sui fatti e lo facciamo utilizzando queste manifestazioni per rispondere a chi fa un uso distorto e strumentale degli strumenti della grande comunicazione di massa.

 

Partiamo dalle ultime decisioni del Governo, quella che è stata presentata come una decisione storica, epocale, la riduzione delle tasse. E’ proprio vero che noi siamo contro la riduzione delle tasse?

La battaglia fiscale è sempre stata una delle battaglie storiche del sindacato, questa si una cosa storica. E ci siamo sempre battuti per un fisco equo e solidale. Ci ha sempre mossi la convinzione che il fisco è uno degli strumenti fondamentali della politica sociale e della politica dei redditi. Il fisco serve per finanziare i servizi sociali, i bisogni soprattutto delle persone più deboli e poi tutte quelle funzioni che fanno parte di una moderna democrazia, i diritti di cittadinanza, a partire dal diritto all’istruzione, alla tutela della salute.

Per questo abbiamo sempre considerato il fisco una cosa seria, uno dei principali banchi di prova di una democrazia avanzata, perché è giusto che ognuno contribuisca per quello che ha, in base al proprio reddito e la battaglia storica del sindacato è sempre stata quella di far pagare di più chi poteva e non lo faceva, di combattere i furbi, di riequilibrare la pressione fiscale combattendo le gravi evasioni ed elusioni, coinvolgendo di più la parte ricca in un dovere che prima ancora di essere un dovere morale è una condizione di civiltà.

 

La nostra riforma fiscale è sempre stata quella di dare di più ai deboli prendendo di più ai ricchi, come è giusto che sia e come sempre è stato nella storia dei giusti.

 

Questa “cosiddetta” riforma fiscale non ci piace perché è esattamente il contrario, toglie ai meno abbienti per dare ai più ricchi, una scelta rovesciata secondo il principio di equità sociale e come se non bastasse lo fa attraverso scelte di bilancio che metteranno ancor più in ginocchio il Paese, incidendo negativamente sul suo futuro.

Un inganno e un’offesa all’intelligenza del Paese, un inganno perché si vuol dare da intendere quello che non c’è e un’offesa perché si pensa che i gravi problemi che hanno oggi le famiglie o i singoli cittadini possano essere pagati con un piatto di lenticchie!

 

I nostri conti danno risultati abbastanza diversi da quelli fatti dalla propaganda Governativa e come è noto ognuno di noi sa fare benissimo i conti in tasca propria, anche se in questi giorni si è fatto di tutto per confondere le idee dei contribuenti con pioggia di tabelle, esempi, simulazioni in molti casi con difficile riscontro con la realtà.

La torta da riduzione dell’Irpef, che teoricamente ammonta a 6,5 Miliardi (ma che poi abbiamo scoperto si riduce a 4,3 per il 2005) verrà così mangiata (facendo finta di essere in quattro seduti davanti alla torta): tre persone mangeranno poco più di un terzo della torta, il resto andrà ad una persona sola. Il che significa che le prime tre persone a mala pena sentiranno l’odore della riduzione, mentre per la quarta possiamo dire tranquillamente che sarà torta che si aggiunge a pance già piene.

Per essere ancor più precisi, da alcuni conti fatti in questi giorni risulta che alla metà delle famiglie italiane andrebbe il 17%  degli sconti, alla metà più ricca l’83%; al 10% più ricco della popolazione andranno 2,5 miliardi (il 40%), agli operai , che sono il 15% della platea poco più del 7%, mentre ai professionisti e imprenditori, che sono l’8%, andrà il 25% dell’intera riduzione.

Per cominciare ad assaporare una qualche riduzione bisogna avere almeno un reddito di 20.000 euro annuo, ovviamente una riduzione con la quale consumare una pizza in più al mese!

 

Si tratta, quindi, di una manovra di riduzione che premia chi meno aveva bisogno di essere premiato e che già lo era stato nel corso di questi anni (basti pensare all’abolizione della tassa di successione sulle grandi ricchezze, al falso in bilancio, ecc…). Le fasce di reddito che più sentono il morso della crisi avranno il loro piatto di lenticchie. Se poi aggiungiamo il fatto che i vantaggi andranno al Sud solo per il 17% e che i pensionati neanche saranno sfiorati è chiaro quanto questa manovra risulti poco equa sul piano sociale e assolutamente indifferente allo sviluppo.

Come si fa a dire che da questa manovra verrà un grande impulso alla ripresa dei consumi e dunque dell’economia? La bugia è apparsa troppo grande se lo stesso Presidente del Consiglio ha avuto qualche imbarazzo a sostenere la grande efficacia di una manovra che lui stesso ha dichiarato non del tutto confacente a quella che aveva in mente. Del resto lo dicono anche i commercianti che

 

Ma se fino a qui sta l’inganno di una riduzione delle tasse poco più che simbolica a questa si aggiunge la beffa, perché chi la paga questa manovra?

 

Anche in questo caso i conti sono presto fatti. Una parte del costo della manovra verrà pagato con il classico gioco delle tre carte, spostando negli esercizi futuri spese che dovevano essere fatte quest’anno e mettendo in entrata ricavati tutti da dimostrare, quindi per niente scontati. Il resto è taglio alla spesa sociale, ciò che in gergo si dice paga pantalone.

Ed è avvilente oltrechè inaccettabile l’ironia con la quale qualche Ministro ha commentato l’aumento del costo dei tabacchi sostenendo che fumare è una scelta individuale, come dire non obbligatoria. Il problema è che dietro le sigarette si nasconde una nuova operazione di “macelleria sociale”, perché oltre a ripagare la riduzione delle tasse con aumento di tabacchi, tasse su bolli e concessioni, sarà il taglio delle spese a beni e servizi a incidere sulla vita delle persone.

 

Parliamo di sanità, di scuola, di sicurezza. Parliamo di una scuola pubblica che dopo aver già perso dal 2002 al 2004 20 mila insegnanti e 10 mila amministrativi dovrebbe subire, secondo le decisioni del Governo, un ulteriore taglio di 17 mila addetti. Pensate, si parla addirittura di 7 mila insegnanti di inglese in meno. Ma lo studio dell’inglese non era una delle famose tre “i” dalle quali dipendeva secondo il Presidente del Consiglio il futuro competitivo del nostro Paese?

A quanto pare dev’essere talmente vero che hanno dovuto ritardare di alcune ore l’approvazione dell’emendamento fiscale in Consiglio dei Ministri per sedare la rabbia del Ministro Moratti, giunta prossima alle dimissioni per una operazione sfacciatamente avversa al ruolo della scuola pubblica.

 

Ma in quel taglio di spese vi saranno meno addetti per la sicurezza, forse di polizia, carabinieri nel momento in cui il problema della sicurezza torna ad essere uno dei problemi più emergenti. Ma anche questo non deve meravigliare, visto che le stravaganze di questo governo hanno portato alcuni suoi ministri a teorizzare il vero e proprio Far-West, con tanto di taglie e chissà, tra un po’ con pistole e fucili al posto dei telefonini, al cinturone anche dei ragazzi!

Anche in questo caso emerge  una idea che è negazione o riduzione della funzione pubblica dello Stato. Del resto come commentare la decisione di bloccare il turn-over tra i dipendenti della pubblica amministrazione? L’idea è che i pubblici dipendenti siano troppi e troppo vagabondi e forse pagati anche troppo, visto che la manovra del Governo destina al rinnovo dei contratti pubblici una somma che non basta neanche per recuperare il potere d’acquisto perso in questi anni!

 

Si mette nel conto una riduzione di 75 mila dipendenti pubblici senza minimamente intervenire sui meccanismi di efficienza e di efficacia dei servizi, senza accettare la sfida della qualità e della produttività.

Si interviene come al solito indiscriminatamente. Il taglio riguarderà servizi importanti, come la protezione civile, come i servizi ispettivi, dei quali si è chiesto il potenziamento per combattere il drammatico fenomeno degli infortuni sui luoghi di lavoro. E bloccherà la promozione dei giovani nella ricerca e nelle carriere universitarie, determinando un invecchiamento delle categorie professionali.

 

Il taglio di 600 milioni di euro nel ’05 per beni e servizi, al quale seguirà quello di 1,2 miliardi negli esercizi successivi, significa minori attrezzature sanitarie e maggiori prestazioni a pagamento.

 

Questa è la riforma fiscale che noi combattiamo: una riforma che dà più ai ricchi che ai bisognosi e che viene finanziata togliendo alle fasce che hanno più bisogno di sentire un aiuto dello Stato. Si toglie a chi più ha bisogno per dare a chi non solo non ha bisogno ma ha già avuto in questi anni!

 

Eppure lo si fa! Lo si fa con impudenza, nel più totale disprezzo delle regole più elementari del rigore e dell’equità, senza accettare il confronto con le parti sociali, andando avanti a colpi di voti di fiducia in un Parlamento sempre più svilito nelle sue funzioni.

Perché lo si fa se non sono gli interessi generali del Paese ad essere premiati?

 

In questi giorni si è scritto che i sondaggi erano molto sfavorevoli al Governo e che Il Presidente del Consiglio abbia voluto forzare sul taglio delle tasse per rimontare l’opinione pubblica molto scontenta delle continue mancate promesse.

Non sappiamo se è così e comunque non ci interessa perché non è un argomento sindacale e noi usiamo solo argomenti sindacali. E l’argomento sindacale che più ci convince è che con questa operazione sulle tasse il Governo ha tentato o sta tentando di far passare in secondo piano o di distrarre l’attenzione sulla questione ancor più generale di una manovra finanziaria completamente criticabile e criticata dal sindacato e non solo dal sindacato.

 

La riforma delle tasse costerà a regime circa 6,5 MLD e il Governo si è affannato a dimostrare che esiste la copertura finanziaria. A parte il fatto che non ha convinto nessuno, il fatto è che questi miliardi si aggiungono a quelli di cui si era discusso fino a giovedì della scorsa settimana e cioè: i 5 MLD della manovra aggiuntiva di luglio e i 24 MLD della finanziaria presentata. Stiamo, cioè, parlando di spese per 36 MLD di Euro, ossia, circa 72.000 miliardi di vecchie lire. Una cifra da capogiro, che ricorda gli anni più neri della nostra economia, una cifra da bancarotta, una cifra che riporta l’Italia sull’orlo di un precipizio pericoloso, dal quale ci eravamo allontanati dopo gli anni del risanamento finanziario, al quale anche i lavoratori e i pensionati avevano contribuito con i loro sacrifici.

 

Un Governo serio, soprattutto nella volontà di rapportarsi con gli interlocutori sociali, non solo non avrebbe minimamente dovuto pensare ad onorare promesse impossibili, ma avrebbe dovuto preoccuparsi di orientare il proprio bilancio verso tutte quelle iniziative utili a rilanciare l’economia, perché c’è un modo solo per pagare questa cifra enorme: aiutare la crescita del Paese, rimettere le fabbriche nella condizione di produrre, aiutare i processi di innovazione, sviluppare le nuove tecnologie, sostenere i prodotti italiani nella sfida della globalizzazione.

 

Niente di tutto ciò esiste nella finanziaria del Governo, che ha impostato la manovra ricorrendo per un terzo alle solite entrate “una tantum”, per un altro terzo ad anticipi di competenze (sarebbe fare la spesa di novembre con lo stipendio di dicembre…), e per il restante attraverso il taglio delle spese per servizi e inasprimenti fiscali che rendono davvero beffarda la manovra sull’Irpef!

 

Il problema che ha davanti a sé il Paese è il motore dell’economia che non gira più, a partire dai suoi ingranaggi principali. Tutto il sistema Italia è in crisi e rischia di restare emarginato da una ripresa che sembra premiare altre economie mondiali ed europee: dai settori manifatturieri a quelli della ricerca, dal turismo –una delle ricchezze del Paese- ai settori legati ai processi di innovazione.

Non c’è niente nella manovra del Governo che parli di questo, che sia ispirato alla priorità del rilancio dello sviluppo e dell’occupazione, a partire dalle aree più depresse.

 

Il Mezzogiorno è completamente abbandonato a se stesso e per giunta la manovra del Governo taglia ulteriori risorse da destinare a queste aree. Non a caso su un tema centrale come questo, dal quale dipende in parte la nostra forza competitiva si è addirittura presentato un documento congiunto sindacati-Confindustria, che finora il Governo –come è facile immaginare- non ha minimamente preso in considerazione.

 

Ma si è riusciti addirittura a fare il miracolo di frenare uno dei pochi settori che fino ad oggi aveva contribuito alla crescita del Pil, quello delle costruzioni. Doveva essere il Paese delle grandi opere strategiche (ricordate la lavagna!) ed invece neanche le risorse per la Legge Obiettivo sono state previste in misura necessaria per assicurare la realizzazione delle opere inserite. E per giunta, l’effetto spugna di questa legge ha seccato il mercato delle opere ordinarie, quelle che hanno tirato il mercato delle costruzioni in questi anni e che ancor di più risentirà del taglio del 2% delle spese dei comuni: saranno strutture pubbliche in meno che verranno realizzate, scuole che non verranno messe a norma, opere di prevenzione territoriale e ambientale che non verranno realizzate, beni monumentali ed artistici che non verranno restaurati.

 

Questa assenza di strategia industriale rischia poi di mettere in ginocchio settori importanti dell’economia italiana che hanno conosciuto il loro sviluppo anche nelle aree del centro e del Nord, quei settori che fanno apprezzare all’estero il valore del nostro lavoro, delle nostre capacità professionali ed imprenditoriali.

 

Qui nella Brianza è diffuso uno di questi settori, quello del legno che ha costituito ed ancora costituisce uno dei pilastri dello sviluppo territoriale. Un settore che come altri del Made in Italy subisce la pesante concorrenza soprattutto dei Paesi asiatici e di quelli che cercano un posto nel mercato globale.

 

Come difendersi in questa sfida, come affrontare il tema della nuova competitività dei nostri prodotti, come difendere la nostra industria e il nostro tessuto produttivo? Sono domande che in questo momento neanche sfiorano la mente di chi ha responsabilità di governo della nostra economia e del Paese. Le stesse imprese, che pure hanno le loro responsabilità, sono abbandonate alla deriva di un rischio-declino senza poter contare su strategie industriali concertate, fondate sugli investimenti per ricerca e innovazione (la parola investimenti non esiste quasi più nel documento di programmazione economica), sulla qualità della produzione, dei fattori organizzativi e delle risorse umane.

 

L’assenza di questa strategia è un incentivo per le aziende ad imboccare sempre più la competizione basata sulla riduzione dei costi, secondo l’illusoria convinzione che rincorrere i paesi concorrenti sul terreno dell’abbassamento dei costi e non della maggiore qualità possa rappresentare una risposta vincente.

Ma i fatti dimostrano il contrario: su quella via non c’è futuro, sarebbe una rincorsa a perdere. L’unica vera conseguenza sarebbe, ed in parte già lo è dove lo si è praticato, un peggioramento delle condizioni di lavoro e una riduzione dei diritti dei lavoratori.

 

La parte più retriva del padronato, in accordo con il Governo, in questi anni ci ha provato, attaccando i diritti delle persone che lavorano, scambiando la flessibilità con la precarietà, facendo diventare il lavoro una sorta di supermercato “usa e getta”, mortificando qualità, intelligenze, professionalità ed anche consolidate tradizioni.

Si è pensato che spremendo il lavoro potesse uscire quel succo necessario per fornire ad una economia in crisi le vitamine necessarie. Ma il lavoro non va spremuto, va esaltato nelle sue qualità e potenzialità, difeso e tutelato nei suoi diritti. Se non è questo, se è solo spremere, peggiorando le condizioni altro che succo, il più delle volte esce il sangue, come dimostra la dinamica infortunistica italiana che oltre a rappresentare ancora da sola un quarto di tutti gli infortuni europei, in questi ultimi mesi ha manifestato anche una escalation drammatica, segno di un imbarbarimento dei rapporti di lavoro.

Quando si arriva ad abbandonare vicino ad un cassonetto della spazzatura un compagno di lavoro caduto da una impalcatura, credendolo morto o, come nel caso di Napoli, facendolo morire per dissanguamento, significa che siamo di fronte ad una caduta verticale di valori, alla crisi drammatica di una cultura del lavoro, al fallimento della civiltà del lavoro fondata sul valore primario della persona.

 

Per questo dentro la piattaforma dello sciopero di oggi poniamo anche il problema di una modifica del Testo Unico sulla sicurezza presentato dal Governo, che contiene a nostro giudizio un ulteriore spinta alla deresponsabilizzazione delle imprese sugli obblighi alla sicurezza, togliendo potere alle rappresentanze sindacali, con il rischio di consolidare il messaggio che sui costi della sicurezza si può risparmiare.

Cgil, Cisl e Uil ritengono il progetto del Governo fortemente lesivo dei diritti dei lavoratori e delle stese garanzie costituzionali che li sorreggono ed esprimeranno la sollecitazione più forte al Parlamento e alle Regioni perché pronuncino sul progetto un parere assolutamente negativo, modificandolo radicalmente in alcune sue parti essenziali.

 

 

Come vedete non sono ragioni politiche quelle che hanno portato alla mobilitazione sindacale, se non per il fatto che le condizioni dei lavoratori, dei pensionati, delle persone che rappresentiamo, degli interessi generali del Paese esigono politiche giuste, mirate, ispirate all’obiettivo di favorire lo sviluppo ed il benessere di tutti, a partire dai ceti più deboli.

Questa è la nostra politica! Quella che abbiamo scritto nella piattaforma di lotta, contro una politica sbagliata, ingiusta, inutile, che non porterà il Paese da nessuna parte.

La crisi della finanza pubblica, che nessuno può più nascondere, non ha bisogno di tagli indiscriminati come ne deriverebbe dallo stesso limite del 2% delle spese, ma di una economia orientata verso obiettivi di crescita e di sviluppo.

La manovra di politica economica e finanziaria deve avere quali priorità la piena occupazione ed il lavoro di qualità, la difesa e la qualificazione dello stato sociale.

Il Mezzogiorno deve essere destinatario delle risorse necessarie, anche per combattere attraverso lo sviluppo e l’occupazione i gravi fenomeni sociali, dai quali trova alimento la stessa criminalità organizzata.

La riforma fiscale deve rappresentare una leva per lo sviluppo, la leva dell’equità sociale e dell’efficacia. Quella decisa dal Governo è sbagliata anche perché non è parte di una politica dei redditi che rafforzi strutturalmente il potere d’acquisto delle retribuzioni e delle pensioni.

La domanda va sostenuta rafforzando il potere d’acquisto e attraverso una politica di contenimento e di riduzione di prezzi e tariffe. Inutile dare poche decine di euro di riduzione dell’Irpef con una mano e  con l’altra prenderne ancora di più con un caro vita che ha rimesso tanta parte di persone che vivono in questo Paese di fronte ad un problema che richiama epoche lontane: come arrivare alla fine del mese.

 

Di tutto ciò non c’è traccia nelle decisioni del Governo.

Ma se noi siamo scesi in piazza non è solo per combattere posizioni che non condividiamo e per sostenere posizioni e proposte alternative. Lo facciamo anche per essere ascoltati, per combattere una visione della democrazia che nega la funzione degli attori sociali. Questo Governo procede a colpi di maggioranza e di voti di fiducia, ovviamente sempre più frequenti perché la stessa maggioranza manifesta problemi crescenti di tenuta ogni qualvolta si tende ad imporre interessi esclusivi.

 

Questo è sbagliato non tanto perché ci sentiamo messi da parte, è sbagliato perché è pericoloso per la stessa democrazia italiana!

Non esiste la possibilità di salvare il Paese dalla crisi in cui sta precipitando (e naturalmente noi parliamo del Paese reale, non quello virtuale che riempie gli spot televisivi della propaganda, il Paese che vive sulla carne e sulla pelle dei cittadini) senza coinvolgere tutte le forze sane, le forze vive, quelle che lavorano e producono. Solo così negli anni ’90 l’Italia è riuscita a venir fuori dalla crisi che rischiava di lasciarla fuori dalla grande sfida europea, solo con la concertazione, con il coinvolgimento e la responsabilizzazione di tutti gli attori sociali.

L’idea che la democrazia si esaurisca nel rapporto diretto tra il Premier e i cittadini, assumendo quali sensori del sentire comune, i sondaggi elettorali è una idea malsana di democrazia, molto pericolosa, che taglia di netto le grandi potenzialità della partecipazione e della rappresentanza sociale.

 

Il sindacato chiede di essere ascoltato e di essere coinvolto non perché deve difendere un proprio ruolo autoreferenziale, ma perché se si tappa la bocca al sindacato si tappa la bocca a milioni  di lavoratrici,  lavoratori e pensionati che sono il nerbo della democrazia. E non è vero come hanno voluto far credere in questi anni che di sindacato non c’è più bisogno in questo Paese. E’ una tesi smentita dalla crescita dei nostri iscritti, dai risultati delle elezioni là dove si sono fatte e che ha visto premiato il sindacalismo confederale, dalla gestione delle più difficili vertenze che hanno messo a rischio imprese strategiche e migliaia di posti di lavoro.

 

Ed è questa grande intelligenza collettiva la forza che ha consentito a questo sindacato di ritrovare nei momenti più difficili la voglia di unità, la forza di camminare insieme, per mettere al servizio del Paese la spinta progressiva che sempre hanno rappresentato le lotte sindacali, sia per l’emancipazione dei lavoratori che per la democrazia del Paese.

Questo è il sindacato che ha combattuto per il progresso economico e sociale, che ha contribuito a sviluppare una grande forza industriale, che ha contribuito a realizzare un avanzato sistema di protezioni sociali, ispirato al valore della solidarietà, il sindacato che ha combattuto contro il terrorismo, del quale è stato vittima e bersaglio costante, che ha fatto della pace il valore principale per difendere e promuovere gli interessi dei lavoratori, a partire dai paesi teatro di infinite guerre che non hanno mai rappresentato la soluzione dei problemi.

 

C’è un solo motivo per il quale si vuole tenere fuori questa grande forza, questa grande energia innovativa e democratica: la contrapposizione degli interessi, la difesa di interessi esclusivi, di pochi, di interessi lontani dalle ragioni del lavoro e della solidarietà. E se si fa questo, bisogna gridarlo forte, non si fa un torto al sindacato e neanche solamente ai lavoratori, si fa un torto e un danno al Paese intero.

 

Per questo ci battiamo e non ci fermeremo con lo sciopero di oggi. Il Governo deve saperlo e noi glielo ripeteremo con tutta la nostra forza, oggi da queste piazze, nei prossimi giorni con le altre iniziative di mobilitazione già decise unitariamente.

 

Brianza 30 novembre 2004

 

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