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1° maggio

 

Testo del comizio di Franco Martini a Bergamo. 1° maggio 2007

 

Celebrare il lavoro dovrebbe significare celebrare un diritto fondamentale delle persone, quello che nel nostro Paese è considerato addirittura il primo diritto: la nostra è una Repubblica che considera il lavoro l’elemento fondante della carta Costituzionale.

Ma il Presidente della Repubblica è intervenuto in questi mesi ed ancora in questi giorni non per segnalare il rispetto di questo diritto, ma per richiamare l’attenzione di tutto il Paese, della politica, delle istituzioni, delle imprese sul fatto che lavoro oggi sempre più rischia di essere sinonimo di morte, di precarietà, di insicurezza, di assenza di futuro, per chi questo futuro cerca attraverso la prima condizione di emancipazione offerta proprio da un impiego stabile e qualificato.

 

Si è parlato in questi mesi e settimane di guerra sul lavoro, si è detto che siamo davanti ad una vera e propria emergenza, che vi sono stati più morti nei luoghi di lavoro che nella guerra in Irak. Del resto, la cronaca non risparmia nulla delle tragedie che quotidianamente si compiono nei luoghi di lavoro.

Giuseppe Di Vincenzo aveva appena 17 anni e tanta voglia di vivere. Aveva abbandonato gli studi cercando nel lavoro la via più immediata per sentirsi libero e grande. E’ bruciato vivo, dopo l’esplosione di un impianto a gas che stava collaudando.

Anche Mattia Cagnotto era giovane, appena 19 anni, sbalzato fuori e travolto dal muletto nell’impresa dove lavorava, nel Varesotto.

 

Redzep Semovski di anni ne aveva 22 ed era arrivato in Italia dalla Macedonia, attraverso quegli itinerari della disperazione che la televisione ci ha fatto tristemente conoscere ad ogni sbarco clandestino, per cercare un futuro che nel suo Paese era negato. Gli è crollato un muro addosso ed anche i suoi sogni sono crollati.

 

E come dimenticare Giovanna Curcio, che di anni ne aveva solo 15, bruciata viva nel materassificio nel salernitano, dove lavorava clandestinamente e in condizioni che solo lontanamente possiamo immaginarci, se non guardando le immagini che spesso ci arrivano dal terzo mondo.

 

Sono solo alcuni dei tanti casi che riempiono l’elenco delle vittime sul lavoro e che impongono a tutti coloro che credono nel valore primario della dignità e dell’integrità delle persone un moto di ribellione, di indignazione per una malattia del  nostro sistema produttivo che non è frutto, come spesso si sente dire, della fatalità, del destino, ma ha delle precise responsabilità, la prima delle quali risiede nell’idea che il lavoro manuale delle persone non sia più una componente essenziale dello sviluppo.

 

Dalle piazze di questo Primo Maggio, levando alta e forte la nostra denuncia, dobbiamo però fare molta chiarezza sul significato delle morti sul lavoro, perché spesso, pur apprezzando l’impegno che gli stessi organi di informazione da un po’ di tempo hanno assunto, si rischia di non rappresentare esattamente le cose come stanno.

Per noi che tutti i giorni frequentiamo i luoghi di lavoro, i cantieri edili, le aziende manifatturiere, quelle agricole, le aziende di trasporto ed altri settori ancora gli infortuni rappresentano una ordinaria emergenza quotidiana, non è da oggi che denunciamo la gravità del fenomeno ed occorre per questo essere chiari su un primo aspetto: in questi anni si è teso a dire che il problema andava ridimensionandosi, che noi eravamo i soliti “bastian contrari”, sempre pronti a polemizzare e speculare, quando denunciavamo le morti sul lavoro, dato che gli infortuni, statisticamente parlando, erano in diminuzione.

 

Figurarsi se noi siamo dispiaciuti se gli infortuni diminuiscono..!

Ma noi in questi anni andavamo dicendo un’altra cosa: prima di tutto le statistiche ufficiali parlano del lavoro ufficiale, quello che si vede, quello regolare, l’Inail statistica gli infortuni denunciati. Però sappiamo che tanti infortuni si verificano in quella parte del lavoro che non si vede, che non appare, perché fatto di irregolarità, di nero, dove denunciare un infortunio significa il più delle volte rischiare di perdere il posto di lavoro e nel caso  di un immigrato, tornare a casa, venire espulso da questo Paese. Gli infortuni che si verificano in questa parte del mondo del lavoro non vengono conteggiati e sono tanti!

 

Poi, resta il fatto che un milione di infortuni l’anno, quattro morti ogni giorno sono ancora tanti, sono cifre da Paese non certo sviluppato e per noi anche un solo morto è di troppo, perché non si può uscire di casa al mattino per andare a costruire il proprio futuro e non tornare più, per ragioni inaccettabili. Infatti, se si va a vedere come muoiono questi poveri lavoratori si scopre che continuano a morire come morivano i loro padri ed in alcuni casi i loro nonni. In alcuni settori, in particolare, si continua a morire come 50 anni fa, anche 100 in alcuni casi. Prendete le prime cause di morti in edilizia che l’Inail stessa denuncia: sono esattamente quelle di mezzo secolo fa, si cade dalle impalcature, si viene schiacciati dal ribaltamento dei mezzi meccanici, tante morti banali, che potrebbero essere risparmiate se solo fossero applicate le più elementari norme sulla sicurezza!

 

Per questo abbiamo sempre contestato il tentativo di diffondere un messaggio troppo ottimistico e non per mortificare l’impegno che deve coinvolgere ognuno di noi, al contrario, per non abbassare la guardia, per intensificare gli sforzi che ci devono vedere coinvolti in questa battaglia senza tregua.

 

Vedete, spesso gli infortuni sul lavoro vengono spiegati come la conseguenza di una economia debole, povera, come la faccia sporca della congiuntura economica sfavorevole: “c’è poco lavoro, allora si lavora tirando a campare, puntando  a realizzare il massimo!” Per questo, si pensa che le zone più esposte a questo male del lavoro siano quelle più deboli, il Sud in particolare.

 

E invece non è così! I dati confermano che si muore e ci si fa male soprattutto al Centro-Nord, dove la ricchezza produttiva è più concentrata. Nel 2006 i morti sul lavoro in Lombardia sono stati il doppio che in Campania ed ancora in questa prima parte dell’anno è sempre la Lombardia a detenere il triste primato delle morti sul lavoro.

Questo è un dato che deve far riflettere, perché sta a significare che non esiste un rapporto automatico tra crescita e qualità dello sviluppo. Non è vero che  per rendere sicuro il lavoro occorre avere più ricchezza prodotta, perché là dove la si è prodotta questa ricchezza in più, non ha preso automaticamente la strada di una maggiore sicurezza e  qualità del lavoro.

 

Qualità e sicurezza del lavoro debbono essere scelte consapevoli, scelte discriminanti di un modo di produrre e di governare lo sviluppo!

 

Non è un caso che mentre gli infortuni ufficiali erano dati in calo, al contrario essi aumentavano (e continuano ad aumentare) tra i lavoratori stranieri, tra gli immigrati, che sono la fetta più consistente delle nuove assunzioni, proprio nelle zone del Nord e del Centro Italia. Come sapete bene, proprio a Bergamo la maggior parte degli infortuni mortali ha coinvolto proprio lavoratori immigrati.

 

E allora, per tutto questo, abbiamo voluto fare di questo Primo maggio l’occasione per lanciare un messaggio forte al Governo e al mondo delle imprese:

non esiste risanamento possibile dell’economia e del Paese che non assuma la priorità assoluta del lavoro, quale risorsa fondamentale per la crescita e lo sviluppo! E questo vincolo deve rappresentare la discriminante nei comportamenti e nelle scelte ai tavoli nei quali è stata rilanciata la concertazione tra Governo e parti sociali.

 

Sul tema della sicurezza sono stati già compiuti primi passi che indicano una giusta direzione di marcia. In particolare nei settori più esposti agli infortuni sono state adottate misure che già hanno prodotto alcuni primi effetti, attraverso la denuncia di imprese fasulle e tanti lavoratori clandestini.

Abbiamo dovuto attendere anni per dei provvedimenti che rasentano la banalità! Non occorreva essere molto esperti di lavoro per capire che tutte quelle morti che si verificavano il primo giorno di lavoro altro non erano che l’indizio di una diffusa irregolarità, così come non era necessario essere faziosi o contro l’impresa per capire che far lavorare un’impresa con una alta percentuale di lavoro irregolare significava aumentare le probabilità che in quella stessa impresa ci sarebbe scappato il morto!

 

Abbiamo per questo apprezzato le prime misure adottate dal Governo, sulla scia delle stragi che hanno mosso l’opinione pubblica e le più alte autorità dello Stato già l’estate scorsa, dopo quel tragico agosto che registrò un record di morti, proprio il mese delle vacanze, quando anche i lavoratori dovrebbero giustamente riposare..!

 

Ma adesso occorre essere conseguenti con quelle scelte, a partire dal potenziamento dei mezzi e degli strumenti per intensificare i controlli e ci sembra francamente assurda, per non dire di peggio, questa discussione sul come spendere le maggiori risorse incassate dallo Stato per quell’extra-gettito fiscale, che tutti ormai conoscono come il “tesoretto” dell’Italia.

 

Se vogliamo essere coerenti con gli appelli del Presidente della Repubblica e con quanto detto dai Presidenti delle Camere, dai vari Ministri e dal coro di denunce levate in questi mesi dobbiamo cancellare quella assurda vergogna che vede tanti ispettori ed operatori preposti ai controlli bloccati negli uffici perché lo Stato non paga nemmeno la benzina per effettuare le missioni presso i luoghi di lavoro (anche per questo vogliamo ringraziare le centinaia e migliaia di operatori che svolgono il loro lavoro, al limite dell’impegno volontario, perché mossi dalla consapevolezza dell’importanza della loro missione)! Così non si controlla proprio un bel niente, così si incentiva il comportamento di tutte quelle imprese che scelgono il rischio della irregolarità, anche grave, per il fatto che mai nessuno potrà controllarli, per il fatto che la media dei controlli è di uno ogni sette anni: in questi casi è ovvio che la multa costa molto meno della regolarità!

 

E guardate che noi non intendiamo la lotta per la sicurezza come una caccia alle streghe, anzi, riteniamo che lo sforzo maggiore vada fatto sul versante della prevenzione, per prevenire gli infortuni, anche perché la prevenzione consente allo Stato di risparmiare molte risorse, che ogni anno vengono spese per indennizzare gli eventi infortunistici.

Ma il rispetto delle regole, dei diritti sanciti dai contratti di lavoro e dalle leggi è questione di principio dalla quale non possiamo e non vogliamo derogare! Chi vuole fare l’imprenditore deve saper che non può farlo come se vivesse nel lontano Far West, ma deve farlo con una visione dell’impresa che non può rinunciare ad una funzione che è anche di promozione dello sviluppo e di valorizzazione delle risorse umane.

 

Noi viviamo in un Paese dove per diventare operai bisogna lavorare per 5 – 6 anni come apprendisti e poi si è riconosciuti lavoratori a pieno titolo.

Ma per diventare impresa è sufficiente passare dalla camera di Commercio, parcheggiare la macchina una mezz’oretta, presentarsi senza tanti diplomi o curricoli e ci si iscrive, anche senza aver dimostrato grandi capacità ed esperienza, anche senza aver dimostrato di sapere cosa sia la 626 e tutto il resto!

 

Questa non è una ingiustizia in senso classista, ma è un danno per il Paese e per l’economia! Ed è ciò che ci ha portati a proporre una sorta di patente per le imprese. Chi sbaglia perde i punti e perde la possibilità, nel caso dell’edilizia ad esempio, di partecipare alle gare di appalto. Non è perché ce l’abbiamo con le imprese, ma semplicemente perché vogliamo difendere il diritto dei lavoratori a non fare del loro lavoro una lotteria dalla quale potrebbe uscire un rischio eccessivo per la loro vita o per la loro salute e sappiamo bene che quando un’impresa si vede costretta a stare sul mercato tagliando i costi, comincia proprio da quelli per la sicurezza, che non da tutte sono considerati un vincolo.

 

Bene ha fatto il Ministro del Lavoro a preannunciare un provvedimento che impedisce nelle gare di appalto il taglio dei costi alla sicurezza. Noi vigileremo sui tempi con i quali gli annunci diventeranno realtà, questo vale per il testo Unico sulla sicurezza che deve diventare legge, come per gli altri provvedimenti annunciati: evitiamo di attendere un’altra strage sul lavoro, per dire che quelle cose vanno fatte subito, non c’è bisogno che ci scappi qualche altro morto che faccia notizia!

Un Governo che predica il cambiamento deve partire da qui per dimostrare che il cambiamento lo fa veramente, deve partire dal lavoro, ancora troppo insicuro e mal pagato nel nostro Paese.

Noi abbiamo scelto il lavoro e gli interessi della parte debole del Paese come metro per misurare la credibilità riformatrice del Governo.

 

*  *  *  *  *

 

Ad un anno dall’insediamento del nuovo Governo dobbiamo rilevare che il disagio ed il malcontento nel Paese sono ancora molto diffusi. Sapevamo che l’eredità ricevuta dalla passata legislatura era delle più complicate, soprattutto per i conti pubblici. Abbiamo ritenuto necessario, quindi, che i primi atti del Governo fossero dedicati al tentativo di rimettere in sesto questi conti. Ma oggi, soprattutto a fronte delle maggiori entrate, deve essere chiaro e netto il carattere sociale dell’azione del Governo.

 

La nostra posizione, quella espressa unitariamente da Cgil-Cisl-Uil è che i principali destinatari della spesa pubblica, come in questo primo anno sono state le imprese, oggi debbono essere lavoratori e pensionati, che poco hanno ricevuto dal Governo e che quel poco ricevuto è stato ripreso con l’altra mano dall’inasprimento della pressione fiscale e tariffaria dei Comuni e delle Regioni.

Non si possono ridurre le tasse a Roma e poi aumentarle a Bergamo, per lasciare le cose come stanno o in alcuni casi un po’ peggio!

 

Ed allora occorre essere chiari su alcune questioni, che sono sui tavoli di confronto col Governo.

Per prima cosa, per parlare ancora di lavoro, vogliamo dire che affermare la centralità del lavoro significa assumere la priorità della lotta alla precarietà.

La precarietà non è solo fonte di rischio sul lavoro, non è solo causa di tanti infortuni, è soprattutto assenza di futuro, soprattutto dei nostri giovani! Se in tutti questi anni si è confusa la precarietà con la flessibilità, che è altra cosa, allora è venuto il momento di rimettere le cose al loro posto. Noi siamo contro il lavoro senza diritti e dietro tanta finta flessibilità c’è proprio la negazione dei diritti, c’è appunto la precarietà.

 

C’è un solo modo per chiarire come stanno le cose, per rimettere le cose al loro posto: se il lavoro normale deve essere quello a tempo indeterminato, allora ogni altra forma di lavoro flessibile, che porta un vantaggio alle imprese, deve costare di più e non di meno alle stesse imprese, altrimenti è un’altra cosa, è un espediente per spendere meno, a danno dei lavoratori.

Sono cose che ha detto lo stesso Ministro del Lavoro, sono cose che vanno tradotte in appositi provvedimenti di legge, subito, non fra qualche anno.

 

Anche perché, alla precarietà si lega un altro tavolo, quello delle pensioni.

Si dice che i padri, che oggi campano più a lungo, per fortuna, di ieri ma che non vorrebbero lavorare più a lungo di quanto già previsto dalla riforma attuale, sarebbero degli egoisti, non penserebbero alla pensione dei propri figli..!

Vedete, in questo modo di dire e di rappresentare la nostra posizione si fa una grande confusione, ovviamente non a caso, tra problemi diversi tra loro.

Se vale la regola che ciò che costruisce la pensione è il lavoro, allora è altrettanto ovvio che a lavoro precario non può che corrispondere una pensione precaria!

 

Se i nostri figli tardano ad entrare nel mondo del lavoro (oggi con più di dieci anni rispetto a ieri) e quando ci entrano ci stanno nel modo che sappiamo, un anno di qua, sei mesi di là, un po’ a termine, un altro po’ a progetto, con tutte le conseguenze inevitabili sul piano della fragilità contributiva è ovvio che alla fine non avranno una pensione dignitosa, ma neanche con quattro previdenze complementari!

 

La prima e vera riforma delle pensioni è la riforma del lavoro, è dare lavoro stabile e qualificato ai giovani, altro che storie, è –dunque- la lotta alla precarietà!

Il problema non è dividere il pane che già abbiamo, questa è cosa che non dobbiamo imparare da nessuno, perché conosciamo il valore della solidarietà, anche generazionale. Il problema è seminare nuovi campi di grano, far crescere un nuovo mercato del lavoro, in grado di reggere un sistema previdenziale per il domani e per il dopodomani.

 

Poi c’è il problema dell’allungamento della vita. Ci mancherebbe altro che fosse considerato un problema per lo Stato e per l’Inps!

Oggi si può lavorare di più, data questa importante novità?

La risposta è delle più semplici che esistono: in un sistema previdenziale flessibile se qualcuno vuol lavorare di più sceglie di farlo! Ma il punto non è questo, peraltro già previsto nella riforma Dini e che lo scalone di Maroni aveva cancellato.

Il vero problema, che alcune orecchie non vogliono ascoltare, è che non tutti possono lavorare di più, perché non tutti i lavori sono uguali!

Ci sono lavori che potranno essere svolti fino a 60, 62 e forse anche fino a 65 anni, ma ci sono lavori che non solo non possono essere svolti oltre l’età pensionistica prevista dalla riforma Dini, ma che è bene evitare che vengano svolti!

 

Vincenzo Piccirillo, edile napoletano, aveva 73 anni e stava ristrutturando un appartamento al secondo piano quando è precipitato sfracellandosi al suolo. Lavorava in nero e senza protezioni. Ma tanti sono i lavoratori che muoiono a 60, 65 anni, perché svolgono lavori che fisicamente non possono più essere svolti a quell’età.

 

Quando diciamo che i lavori non sono tutti uguali non facciamo demagogia, diciamo una cosa di una verità elementare, come elementare è ricordare a chi pensa di andare alla parificazione dell’età pensionistica tra uomini e donne come fosse mangiare una caramella,  che le donne svolgono tanti altri lavori quando sono  a casa, quando sono in famiglia, lavori di cura, la maternità e questa è una condizione di cui tutti dobbiamo farci carico!

 

Ecco perché siamo per l’abolizione dello scalone e contro l’innalzamento indiscriminato dell’età pensionabile.

E non è solo il problema dell’età. I lavoratori che lavorano oltre i sessant’anni in molti casi lo fanno perché in alcuni settori a 60 anni mediamente si è maturato non più di 28 anni di contributi!

Quindi, non solo non si può far lavorare oltre una certa età certi lavoratori, ma occorre anche garantire una pensione dignitosa a chi ha la sfortuna di svolgere mestieri che hanno una grande discontinuità.

 

Non è demagogia dire che oggi bisogna guardare a questa parte del Paese, che meno ha ricevuto, che più ha bisogno. E se diciamo che le risorse destinate allo Stato Sociale sono ancora poche, insufficienti, come lo sono quei 2,5 miliardi destinati dal Governo, è perché occorre investire di più sul sistema degli ammortizzatori sociali, perché contributi figurativi, disoccupazione speciale, Cassa Integrazione, oggi in tanti casi abbassano il valore della pensione.

 

Allora non si può confondere la nostra posizione sulle pensioni, che è posizione di equità, con resistenza al cambiamento. Il problema non è fare la riforma, ma completarla, con gli indispensabili aggiustamenti.

 

Completarla significa che l’assistenza è una cosa e la previdenza un’altra; che le regole devono essere uguali per tutti, che nessuno può pagare meno contributi e ricevere più pensione; che gli stessi diritti vanno assicurati per tutte le forme di lavoro parasubordinato; che i lavori usuranti debbono veder completata la loro normativa; e che le pensioni in essere debbono essere rivalutate, perché il loro valore è fermo ormai da più di dieci anni!

 

Chi dice che l’unica riforma vera delle pensioni è aumentarne l’età è perché non vuole la vera riforma delle pensioni, una riforma equa, socialmente giusta, capace di parlare al Paese reale e di parlare con il linguaggio del futuro!

 

E mentre al tavolo col Governo ci batteremo per affermare questa posizione, nel Paese ci impegneremo a far crescere anche la consapevolezza di quanto sia importante il pieno decollo della previdenza complementare.

Il senso di responsabilità lo abbiamo già dimostrato in occasione della riforma Dini. Difendere oggi un sistema equo e solidale significa chiedere al Paese, attraverso un fisco che chieda di più a chi più ha, di farsi carico di uno stato sociale che sostenga diritti e opportunità.

 

Anche per questo guardiamo con attenzione e serietà al tema fiscale. Ridurre le tasse è obiettivo condivisibile, ma non può passare un messaggio secondo il quale pagare le tasse è sbagliato. Le tasse vanno alleggerite a partire da chi già le paga e le ha sempre pagate. Ma le tasse debbono pagarle tutti perché è indice di civiltà, perché le tasse servono a finanziare i servizi pubblici per chi non può usare la carta di credito per curarsi, per mandare i figli a scuola, per godere di altre prestazioni sociali.

Anche qui, riformare il fisco nella direzione di una politica equa e solidale significa combattere l’evasione e favorire i redditi meno abbienti ed anche su questo attendiamo il Governo alla prova.

 

*  *  *  *  *

 

Abbiamo intitolato questo Primo Maggio con lo slogan l’Italia riparte dal Lavoro.

E’ un messaggio di ottimismo quello che abbiamo voluto lanciare al Paese.

 

Ripartire dal lavoro significa guardare ad un nuovo sviluppo, uno sviluppo che dia al Paese le infrastrutture necessarie, che faccia del Mezzogiorno una risorsa e non una palla al piede, che investa sulle immense ricchezze di questo Paese, non solo rappresentate dal potenziale industriale ma anche dalla cultura e dall’ambiente che tutto il mondo ci invidia, significa credere ai nostri cervelli, al valore della ricerca e della formazione.

 

Ripartire dal lavoro significa premiare chi ha dato e sta dando un forte contributo alla crescita, alla ripresa dell’economia, significa dare stipendi e salari giusti, significa sostenere la valorizzazione professionale nei luoghi di lavoro, attraverso i giusti riconoscimenti contrattuali.

 

Ripartire dal lavoro significa anche riconoscere il grande apporto che alla nostra economia arriva da quei lavoratori che vengono da altri paesi, alle migliaia e migliaia di immigrati di cui le nostre imprese hanno bisogno, che non possono essere considerati dei limoni da strizzare, ma cittadini del mondo, persone con tutti i loro diritti, che devono incontrare nel nostro Paese terra di incontro e inclusione, patria del multiculturalismo, che è simbolo di una visione pacifica della globalizzaizone.

 

L’Italia è un Paese che ce la può fare, se riparte dal lavoro. E’ un messaggio forte che vogliamo lanciare innanzitutto alle imprese, agli imprenditori, che per troppi anni hanno cercato di galleggiare nella crisi, proprio mortificando il lavoro, le sue potenzialità. Nel panorama economico ci sono segnali di ripresa, anche in alcuni settori che erano dati per spacciati, per colpa della concorrenza asiatica.

Ebbene, abbiamo scoperto che quelle imprese, quei settori, quelle realtà territoriali che registrano oggi un buon andamento della produzione sono proprio quelli che hanno creduto nella qualità, che hanno capito per tempo che la penalizzazione del lavoro non porta da nessuna parte, è solo sopravvivenza, destinata a soccombere.

 

Tra pochi mesi ripartiranno i rinnovi contrattuali in diversi settori importanti del mondo del lavoro. A quei tavoli i sindacati si presenteranno per chiedere giuste retribuzioni a fronte della riduzione del potere d’acquisto dei salari e migliori condizioni di lavoro, che diano maggiore sicurezza e maggiore valorizzazione delle capacità professionali. Se le imprese risponderanno con la richiesta di nuova flessibilità per rendere ancora più precario e destrutturato il lavoro noi ci opporremo e non solo per gli interessi che rappresentiamo, ma perchè quella è la strada sbagliata per rimettere in carreggiata il nostro sistema produttivo.

 

Ed anche per questo il nostro messaggio è rivolto con grande chiarezza alla politica, che in queste settimane si sta cimentando in nuovi tentativi di ridefinire i propri assetti. Chiediamo che le istanze del lavoro e dello sviluppo siano il vero terreno del confronto.

Il Paese non ha bisogno di ridefinire i contenitori della politica, ma ancor di più i suoi contenuti!

Ed è per questo che entro l’estate tireremo le somme del confronto avviato col Governo. Abbiamo salutato la ripresa della concertazione con le parti sociali come una necessità del Paese, ma occorre che adesso vengano le risposte che il Paese attende.

 

Sicurezza del lavoro e nel lavoro, dunque, lotta alla precarietà e agli infortuni; stato sociale che distribuisca  a vantaggio dei più deboli e degli incapienti; pensioni eque e dignitose; sviluppo forte del Paese fondato sull’economia della conoscenza, della ricerca e della innovazione.

Sono questi i terreni sui quali misureremo la volontà innovativa del Governo e sui quali ci batteremo fino in fondo.

 

Il sindacato è unito in questo obiettivo. Noi non abbiamo Governi amici o nemici, noi abbiamo di fronte Governi con i quali ci misuriamo e a fronte dei risultati del confronto agiremo di conseguenza.

In queste settimane andremo in tutti i luoghi di lavoro a confrontarci con i lavoratori e vi torneremo per discutere dei risultati che otterremo nel confronto col Governo.

Come già è accaduto in passato tutte le prove difficili che si presentano nella vita del Paese non possono che rafforzare l’unità dei lavoratori e con essa quella dei sindacati, perché il lavoro e la sua rappresentanza è la ragione d’essere del sindacato.

 

Ed è ancora più importante dirlo in questi giorni dove, puntuale come sempre, la provocazione del terrorismo rifà la sua comparsa ogni volta che il Paese è chiamato a prove difficili, che chiedono, per essere superate, di unità e di maggiore democrazia.

Vogliamo esprimere anche da questa piazza la solidarietà di tutto il mondo del lavoro e di tutti i democratici al Monsignor Angelo Bagnasco ed al Sindaco di Bologna Sergio Cofferati, fatti oggetto di minacce da parte delle sedicenti Brigate Rosse.

Di fronte a queste provocazioni non possiamo che ribadire due cose: la prima, che la democrazia italiana è forte, è figlia di una guerra di Liberazione dal nazifascismo ed è consolidata nelle lotte per il progresso, che nel corso di questi anni ha visti protagonisti le forze del lavoro e dunque non soccomberà di fronte alle suggestioni del passato, anche di un passato recente; la seconda, che il sindacato continuerà a rappresentare un baluardo nella lotta al terrorismo, del quale noi siamo i primi nemici e per questo abbiamo pagato il nostro tributo di sangue. Non ci faremo intimidire, neanche dal tentativo di insinuare dentro le nostre organizzazioni la presenza di esponenti e militanti del terrorismo.

 

Ripartire dal lavoro significa disegnare un futuro anche per il sindacato, dove le speranze per un profondo cambiamento siano di gran lunga superiori alla rassegnazione che anche in noi a volte prevale.

 

Dobbiamo dare speranze al futuro, dobbiamo darle per tutti coloro che rappresentiamo, dobbiamo darle per un Paese che da anni cerca la via di un nuovo progresso economico e sociale, ma dobbiamo farlo soprattutto per quei lavoratori che oggi non potranno festeggiare questo primo maggio insieme a noi, per Amedeo, Giovanni, Armando, Guglielmo, Elia, Marco, Diego. Yonas, Bilbil, Almany, per tutti i caduti sul lavoro, che non dovranno mai diventare militi ignoti di una guerra senza frontiere.

 

Vogliamo dire da tutte le piazze d’Italia, oggi,  che la loro morte non è stata vana, perché rafforza in noi la convinzione che difendere il lavoro, significa difendere il valore delle persone, significa difendere i valori di una civiltà nella quale la modernità non può essere confusa con le nuove barbarie, significa dire al Paese che a cento anni di distanza il lavoro è ciò che più e meglio parla del futuro di cui abbiamo bisogno.

 

Ed anche per questo il Primo Maggio resta per noi una festa, perché ci trasmette un messaggio di ottimismo. Ed anche per questo ci piace rinnovare l’antico appello:

 

W il Primo Maggio, W la festa dei lavoratori!

 

 

 

 

Bergamo, 1 maggio 2007

 

 

 

 

 

 

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