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Direttivo Fillea Cgil - Relazione di Franco Martini  

                                                                                                                

 A Tirrenia il Comitato Direttivo Nazionale della Fillea

 

Si è riunito a Tirrenia nei giorni 6 e 7 novembre 2006 il Comitato Direttivo nazionale della Fillea Cgil. Gli argomenti all’ordine del giorno sono stati la Finanziaria 2007 e  la Conferenza di Organizzazione della Cgil.

I lavori del Direttivo sono stati conclusi da Carla Cantone, Segretaria Confederale CGIL.

 


 

Relazione di Franco Martini

Segretario Generale Fillea Cgil

 

 

Direttivo Nazionale Fillea Cgil – Tirrenia 6-7 Novembre 2006-11-06  

 

Con la sessione odierna del Comitato Direttivo intendiamo avviare un percorso di riflessione, confronto e azioni concrete che dovranno portare la nostra categoria all’appuntamento di metà mandato congressuale che avrà per oggetto la politica organizzativa della Cgil. Lo stesso congresso della Confederazione ha individuato nella Conferenza d’Organizzazione da tenersi tra poco più di un anno l’appuntamento che dovrà sancire le scelte sulle quali confermare e rinnovare il nostro modo di essere.

 

Abbiamo voluto essere tra le prime strutture ad impegnarci nell’impostazione di questo percorso perché, indipendentemente dalle scelte che la Cgil avrebbe potuto fare –ed ha fatto bene a mettere in agenda speriamo in modo più convincente del passato la Conferenza d’Organizzazione- per la nostra categoria sarà indispensabile immaginare in quel periodo una scadenza importante di verifica poiché equivarrà ad una sorta di bilancio consuntivo del lavoro svolto da questo gruppo dirigente (una parte del quale sarà ormai prossimo alle scadenze di mandato) che nel 2000 ha ricevuto in consegna la categoria, proprio dalle mani di Carla che non a caso è oggi qui con noi, con l’impegno di promuoverne una fase nuova. E sulla base di quel bilancio consuntivo definire le linee per quello preventivo, cioè gli orientamenti sulla base dei quali prefigurare lo sviluppo ulteriore della categoria per gli anni a venire.

 

Naturalmente questa nostra discussione non può astrarsi dal contesto in cui si svolge, dato che la realtà nella quale il sindacato si muove non è parte secondaria del ruolo e delle caratteristiche che assume la sua azione ed il suo modo di essere.

Per questo, prima di affrontare le questioni che accennavo vorrei svolgere alcune considerazioni sulla fase politica che stiamo vivendo, caratterizzata essenzialmente dalle vicende legate alla Finanziaria 2007.

 

Non ripeterò giudizi e commenti della Cgil già noti perché già discussi all’ultimo direttivo nazionale della Confederazione e successivamente oggetto di numerosi interventi dei nostri dirigenti nazionali. Né intendo annoiarvi con considerazioni descrittive sulla composizione della manovra, un po’ perché anche queste sono più che note, un po’ perché –come diceva qualcuno di noi nel corso delle riunioni di questi giorni- è difficile essere certi che la mattina le cifre della Finanziaria siano ancora le stesse di quelle conosciute la sera prima.

 

Del resto, proprio l’andamento ondivago dei vari timonieri rappresenta uno dei problemi più rilevanti per l’attuale Governo, pagato in termini di credibilità ed affidabilità messa quotidianamente in dubbio, soprattutto da chi cerca certezze.

Io credo, tuttavia, che nel coro numeroso di coloro che rinnegano paternità e maternità e più ancora di quelli che fin dall’inizio hanno dileggiato o aspramente criticato la proposta del Governo –l’opposizione, la Confindustria, le Associazioni di categoria- occorra da parte nostra fare uno sforzo per evitare, da un lato, che bambino ed acqua sporca vengano gettati in una prova maiuscola di autolesionismo e dall’altro che venga esercitata spudoratamente la fuga ipocrita dalle responsabilità di chi ha contribuito a ridurre il Paese nello stato in cui si trova.

 

Ovviamente non serve nascondere le difficoltà del Governo, che sono reali, serie, tali da mantenere un ragionevole dubbio sulla possibilità alla fine di uscire indenni da questa prova. E tuttavia, questa difficoltà non deve essere interpretata come fattore condizionante la nostra autonomia, che deve esercitarsi nel fare ciò che sempre abbiamo fatto in questi casi, sostenere ciò che condividiamo, chiedere di modificare ciò che non condividiamo, esattamente quello che fanno tutti gli altri soggetti ed attori in campo.

Ma al tempo stesso, la difesa dell’autonomia non deve esonerarci dalle doverose considerazioni politiche sui rischi che il Paese correrebbe a fronte di una crisi del Governo Prodi, dietro la quale difficilmente sostenibili sarebbero certi bizantinismi della politica. Il Paese ha bisogno di interventi strutturali oggi, subito e non con i tempi di una politica che disegna le sue fasi, lo ha già dimostrato in passato, a prescindere dagli interressi reali del Paese e delle persone in carne ed ossa molte delle quali noi rappresentiamo.

 

Per queste ragioni occorre fare delle posizioni espresse dalla Cgil un terreno di azione per consolidare e non per minare il processo che si è avviato con la presentazione della Finanziaria. Il che non significa fare azione di supplenza, anche se il Governo ne avrebbe bisogno dati i limiti mostrati fin dall’inizio nel rappresentare con efficacia il contesto ereditato da chi lo ha preceduto.

 

Il disastro Tremonti, che qualcuno ha ribattezzato la tassa di successione Tremonti, è la realtà con la quale l’Italia è oggi chiamata a fare i conti e questo era chiaro a tutti, fin dall’inizio della campagna elettorale. Fare finta che il disastro non esista o sia di dimensioni contenute non serve a nessuno, a partire da noi. L’inversione di tendenza sulla spesa pubblica, l’azzeramento dell’avanzo primario, la crisi della crescita economica, l’allontanamento conseguente dai parametri di Mastrich non sono fotogrammi di una crisi passeggera, congiunturale, non sono i segni di un raffreddore dell’economia ma le cifre di un pericoloso declassamento del nostro Paese le cui vittime più diffuse non sono e non sarebbero i ricchi ma la parte più vasta della società, quella che lavora, i pensionati, i giovani che cercano un futuro. Questo quadro probabilmente non è stato rappresentato con sufficiente determinazione, dandolo per scontato nella consapevolezza di tutti e autorizzando così ognuno a ritenere possibile allungare la coperta per tirarla verso tutti i lati richiesti.

 

Ciò nonostante il sindacato, proprio di fronte ad una situazione di così acuta crisi, ha ribadito quello che sempre ha rappresentato l’asse di ogni nostro ragionamento, l’impossibilità di separare il risanamento dallo sviluppo. Abbiamo pertanto rivendicato fin dall’inizio che questo binomio fosse assicurato attraverso una manovra che rendesse consistente tali scelte ed al tempo stesso abbiamo ribadito che tale equilibrio questa volta avrebbe dovuto avere un chiaro taglio sociale, a vantaggio di chi in questi anni ha perso, chiedendo invece alla parte che più ha guadagnato uno sforzo maggiore, applicando un semplice criterio di equità e giustizia sociale.

 

Si può discutere l’efficacia o meno delle scelte adottate, ma non si può contestare il carattere di fondo della manovra. Per la prima volta dopo molti anni a fronte di sacrifici che vengono chiesti al Paese il baricentro è spostato a vantaggio dei ceti più svantaggiati. Questo nella manovra è assolutamente chiaro ed è quello che sul versante del risanamento ci ha fatto esprimere un giudizio di condivisione, assolutamente coerente con l’approccio iniziale che avevamo espresso.

Ripeto, si può discutere se tecnicamente la rimodulazione dell’Irpef così come è stata inizialmente scritta sia quella più efficace, ma questo è altro discorso. Abbiamo rilevato anche noi delle sfasature dentro la fascia dei redditi sotto soglia 40 mila euro. Ma sono incongruenze affrontabili e risolvibili tecnicamente. Ciò che non è accettabile è nascondere dietro le incongruenze tecniche, ma anche –se permettete- dietro una legittima discussione di natura sociologica su chi sono i ricchi, cos’è il ceto medio, ecc la corporativa difesa di condizioni di privilegio o la manifestazione di egoismi sociali incompatibili con la situazione nella quale proprio quella cultura della quale il Paese si è inebriato in questi 5 anni ci ha gettati.

 

E’ fuori discussione che la società italiana e le trasformazioni che l’hanno caratterizzata debbono essere oggetto di una attenta riflessione. Essa è profondamente cambiata in questi anni a partire dal mondo del lavoro. Finalmente qualcuno se ne va accorgendo. Probabilmente occorreva toccare i nervi scoperti della parte più alta della società per capire che queste trasformazioni hanno investito anche la parte più bassa e che tale fenomeno è qualcosa di molto più complesso del banale e quanto mai smentito teorema della fine della classe operaia…

 

In ogni caso, figurarsi se dobbiamo o voliamo essere contro gli artigiani o i commercianti, oppure vendicativi contro gli stra-ricchi. Rappresentare così il confronto è assolutamente fuorviante. Soprattutto strumentalizzando il ruolo di una manovra che rappresenta la prima tappa di un percorso non privo di ostacoli e dolori. Come se la finanziaria 2007 fosse l’ultima spiaggia e non l’inizio di una lavoro di ricostruzione economia e sociale, dopo il ciclone che ha imperversato in questi anni.

Dico questo non perché anche verso le categorie produttive o i redditi medio alti non possano essere immaginati correttivi che eliminino l’eventuale componente vessatoria che può essere intravista in alcuni provvedimenti, quanto per evitare che alla fine la manovra venga snaturata proprio nel suo carattere sociale che abbiamo condiviso o, per dirla in gergo, che venga stravolta da destra (che è altra cosa da un sano concetto di equilibrio o moderatismo). Dobbiamo cioè sostenere l’azione di miglioramento che può essere prodotta (sapendo che alla fine i saldi devono tornare) e respingere ai mittenti le pressioni strumentali che tendono a conseguire altri obiettivi, inaccetabili per noi.

 

La Confindustria è tra i soggetti che dovrebbe più degli altri ripensare la propria posizione dato che quella espressa fino ad oggi è apparsa fin dall’inizio chiaramente pervasa da strumentalità (tant’è che i commenti oggi si sprecano più sui disegni di Montezemolo sul dopo-Prodi che sulle considerazioni di merito). E’ paradossale che la categoria economica e dunque anche sociale che più ha incassato dalla manovra, anche rispetto al Governo più amico di tutti che ha avuto in questi anni, sfugga da una valutazione complessiva, che tenga conto del dare e dell’avere, meccanismo tipico di un imprenditore. Le misure del dare-avere tra Cuneo e Tfr non sono neanche lontanamente comparabili sul piano della contabilità aziendale, eppure si è fatto un gran polverone, la cui fondatezza tra l’altro è risultata smentita proprio sulle pagine del quotidiano confindustriale proprio sugli effetti che avrebbe sulla piccola impresa, molto contenuta rispetto a quanto si è contestato in queste settimane.

 

Noi comunque proseguiremo sulla strada intrapresa con le valutazioni fatte nel Direttivo e unitariamente, lavorando giorno dopo giorno per migliorare ciò che si può e si deve migliorare. L’intesa realizzata sabato sui contratti pubblici è una dimostrazione di come si debba lavorare per ottenere risultati, mettendo in campo l’iniziativa autonoma del sindacato, come sarebbe stato lo sciopero dichiarato per essere fatto, senza rinunciare al confronto e al negoziato, che poi a sbloccato la situazione. Altrettanta soddisfazione non può essere espressa su altri comparti pubblici, come Università e Ricerca e anche in questo caso questo mese è prevista una iniziativa di mobilitazione, come lo è stata quella dei pensionati, per mettere in evidenza una insufficienza della manovra, in particolare verso gli incapienti e gli ultra 75enni.

Ma un altro terreno sul quale dobbiamo rivendicare misure adeguate riguarda il tema dell’immigrazione. Il Ministro Ferrero ha già detto che dopo la Finanziaria si aprirà il tavolo per il superamento della Bossi-Fini attraverso una nuova legislazione. Tuttavia abbiamo chiesto interventi urgenti collegati alla lotta al lavoro nero, che riguardano la possibilità di un permesso di soggiorno temporaneo per i lavoratori che denuncino la loro condizione senza subire la beffa dell’immediato rimpatrio. Su questo punto la Cgil ha lanciato una petizione rivolta al presidente del Consiglio, sulla quale la nostra categoria deve sentirsi ovviamente impegnata in prima fila.

 

 

 

 

 

La precarietà

 

Vorrei però a questo punto dedicare qualche altra riflessione su alcune questioni che stanno caratterizzando la discussione politica e sindacale di questi giorni, sia in relazione alla Finanziaria, sia per il nesso che questa fase avrà con quella immediatamente successiva. Soprattutto per capire come il nostro settore, la nostra categoria stanno dentro questa discussione e quale contributo possono portare. In particolare vorrei proporvi qualche considerazione su due temi, la precarietà e le pensioni, che come capirete bene sono direttamente o indirettamente connesse alla manovra e comunque rappresentano terreni assolutamente intrecciati con la Finanziaria, tanto da considerare inevitabili linee di coerenza tra loro.

 

Due giorni fa si è svolta a Roma la manifestazione contro il precariato caratterizzata da una grande partecipazione. Non mi interessa in questa sede riprendere gli aspetti polemici che hanno riempito i commenti prima, durante e dopo la manifestazione.

 

Indubbiamente ve ne sono in abbondanza prima di tutto per il Governo. E’ difficile non rilevare nella partecipazione alla manifestazione di suoi esponenti, addirittura del Ministero fatto oggetto di pesanti critiche, del quale si sono richieste le dimissioni, una palese contraddizione ed un rischio di indebolimento della coesione di cui sempre più necessiterebbe la coalizione. Nei commenti immediatamente successivi si è fatto riferimento al diritto di appartenenza politica oltre che al ruolo istituzionale, diritto che ovviamente non è negato a nessuno. Ma tale diritto quando produce l’evidente contraddizione tra ruolo istituzionale e quello della rappresentanza non si può non valutarne le implicazioni, tanto più in una situazione governativa che vive di una risicata maggioranza e che richiederebbe uno sforzo di responsabilità per sostenere a pieno scelte fatte proprie dal Governo stesso e semmai in quella sede battersi per evolverle quando le si ritenessero insufficienti.

Ma il danno non è solo per il Governo, quanto per l’immagine più generale della politica, che ne esce con una danno di credibilità ancor maggiore e questo è un danno per tutto il Paese. Pensate che ieri, Italo Ciucci, noto commentatore sportivo, per fare un esempio di ciò che di negativo è diventato il calcio con tutti i suoi scandali e le sue vicende giocate fuori dai campi sportivi ha fatto proprio l’esempio della politica…

 

Ma ve ne sono anche per noi, per la Cgil, dove l’idea che le regole non siano uguali per tutti comincia a pesare sempre più e con sempre maggior fastidio nell’opinione diffusa dei nostri gruppi dirigenti. Intendiamoci, nessuno intende negare il diritto di opinione individuale, ma ognuno di noi riveste un ruolo con la responsabilità che ha, rappresenta una organizzazione, tra l’altro gloriosa e secolare e tra queste regole come non riferirsi innanzitutto al senso di appartenenza all’organizzazione della quale facciamo parte, che presuppone l’uso della stessa per una causa condivisa, condivisa attraverso i processi democratici che ne regolano la vita interna. E francamente sempre più spesso sembra che di ciò non tutti se ne facciano carico in egual misura, producendo anche in questo caso non certo un rinsaldamento della coesione e della solidarietà interna.

 

Tuttavia e indipendentemente dalla manifestazione di sabato il tema della precarietà è tema che ci appartiene e sul quale per altro la nostra iniziativa è da tempo caratterizzata. L’occasione è buona per riflettere su un paio di questioni.

La precarietà è certamente un tratto inconfondibile e consistente della crisi della nostra società, è un male sempre più dilagante e non si misura solamente attraverso statistiche che parlano di tassi di attività o indici occupazionali, prendendo a riferimento i Paesi europei dove tali scelte sono state ugualmente condivise (Ichino).

 

La precarietà ci parla del tratto forse più critico del nostro futuro, l’assenza di futuro soprattutto per i giovani, la mortificazione delle professionalità, l’assenza dei diritti e dunque della dignità sul lavoro. La precarietà ci parla di un mondo lavorativo dove il divario tra forti e deboli cresce ed i conflitti investono la stessa parte da noi rappresentata, la stessa classe sociale, garantiti e precari, appunto. Della lotta alla precarietà è giusto fare l’aspetto più forte, più convinto della nostra iniziativa ed è la scelta che noi da tempo abbiamo fatto. Occorre domandarsi allora se questa scelta sia sufficientemente chiara, visibile, se risulti convincente innanzitutto a quelle migliaia e migliaia di persone, in gran parte giovani, che anche sabato erano a Roma a manifestare. Probabilmente molti di loro vi sarebbero stati in ogni caso poiché in quel movimento sono rappresentate istanze che esprimono orientamenti ed appartenenze che anche in passato difficilmente hanno incrociato la nostra rappresentanza. Ma dobbiamo chiederci ugualmente se tutto ciò che mettiamo in campo sia sufficiente per dare il senso di una inversione di tendenza che di fatto sta distruggendo un patrimonio ingente di risorse umane e professionali, oltre alle opportunità per il futuro dei giovani.

 

Intanto possiamo affermare con certezza alcuni dati importanti.

Da un lato ci siamo noi, io dico a partire da noi della Fillea, del sindacato delle costruzioni, per il quale la lotta alle precarietà è stata imbastita da qualche tempo prima. Noi l’abbiamo scoperta già da tempo la precarietà perché ci conviviamo tutti i giorni e sappiamo che la precarietà del lavoro nel nostro settore è qualcosa che viene da molto prima la Legge 30 e dunque non è solo Legge 30, che peraltro in edilizia soprattutto è scarsamente utilizzata, eppure la precarietà è molto diffusa. La precarietà sta certamente nella tipologia dei contratti di lavoro ed il fatto che nel mercato del lavoro italiano quelli a tempo determinato abbiano sorpassato quelli a tempo indeterminato non fa altro che confermare ciò che da tempo andavamo denunciando, cioè, l’uso strumentale della flessibilità per sostenere una strategia fondata sulla semplice riduzione di costi. Ma questa deriva viene da lontano ed il Governo Berlusconi con la Legge 30 l’ha ulteriormente aggravata.

Ma la precarietà nasce anche da una organizzazione del lavoro espressione di un sistema produttivo destrutturato, pensate ad esempio al sistema degli appalti e delle sub-forniture, nasce dalla logica del massimo ribasso e nel ricatto del caporalato, vecchio e nuovo. Per assurdo, se domani mattina il Governo facesse un decreto per abolire la Legge 30 e noi ne saremmo certo molto felici, ciò sposterebbe solo di pochi centimetri la nostra trincea quotidiana.

 

Ecco perché, ed è il secondo dato, non abbiamo che potuto condividere il pacchetto delle misure che questo Governo ha adottato dopo l’agosto di sangue nei cantieri e che assume appunto l’obiettivo della lotta al lavoro nero ed irregolare cove lato speculare della lotta contro gli infortuni, esattamente la posizione che da anni noi sosteniamo e lo fa con provvedimenti che sono esattamente le richieste che noi da sempre abbiamo avanzato (provvedimenti noti al Direttivo).

Anche in questo caso, un conto è dire che tali provvedimenti debbono essere resi efficaci nella loro traduzione legislativa e nella loro gestione territoriale ed è quello che abbiamo fatto fin dalle prime ore e stiamo facendo, altro conto è riconoscere che si tratta della prima volta dopo anni e anni che un Governo ed un Ministro assumono provvedimenti che sono quelli da noi voluti. Pensare che fossero atti dovuti è semplicemente un errore, perché vorrei ricordare che neanche al tempo di Amato, Prodi I e D’Alema sulle cose del nostro settore siamo mai riusciti ad ottenere tali misure. Perché non dobbiamo dire che il Governo ha scelto noi questa volta, non tanto per fare un favore a Prodi o ad un ex-sindacalista della Cgil che sta al Ministero, quanto per valorizzare la stessa nostra azione ed il fatto che una buona concertazione, come in questo caso, ma non sempre espressa da questo Governo, ha prodotto risultati importanti.

L’efficacia di quel pacchetto di misure non è meno importante dell’abolizione della Legge 30, per chi si intende un po’ di lavoro!

 

Poi, naturalmente, c’è il problema di ridisegnare le regole del mercato del lavoro, destrutturato dalle normative del Governo Berlusconi. Il problema in questo caso è andare oltre i totem. Credo che gli atti concreti valgano molto più delle dichiarazioni. Il Governo dovrà presentare una nuova legislatura sul lavoro, poi ognuno potrà dilettarsi nel dire che si tratta dell’abolizione della Legge 30, della sua modifica, evoluzione o quant’altro. Però, nel frattempo ci sono stati segnalati alcuni criteri sui quali non credo si possa sorvolare come fosse anche in questo caso un atto dovuto. Quello più rilevante è la scelta fatta di invertire la tendenza in atto e fare del contratto a tempo indeterminato il contratto principale al quale le imprese debbano riferirsi. Ne sono già conseguite alcune decisioni ed un appuntamento a breve: le decisioni riguardano il cuneo fiscale, i cui vantaggi vanno a premiare l’occupazione stabile e l’aumento dei contributi per il lavoro parasubordinato; l’appuntamento riguarda l’invito rivolto alle parti sociali a convenire attraverso un avviso comune le nuove regole per i contratti a termine.

 

Non so se è chiaro a tutti noi la portata di questa sfida, dal momento che ci troveremo dentro un conflitto che non ci opporrà solo all’opposizione ed agli interessi da essa rappresentata, oppure a tutte le associazioni di categoria, ma ci vedrà impegnati in un confronto serrato anche dentro al nostro stesso campo dove già fior fiori di economisti hanno cominciato a dire che col tempo indeterminato la sinistra guarda all’indietro. E’ una battaglia culturale innanzitutto che dobbiamo ingaggiare con determinazione perché non ha niente a che fare con la cultura garantista che ci si vorrebbe attribuire, né con il rifiuto della modernità, che si vorrebbe attribuire alle dinamiche flessibile dell’economia.

Anche per questo credo che nella piena autonomia nostra sarebbe controproducente, autolesionistico non difendere decisioni già adottate ed altre anticipate dal Ministro Damiano, il che anche in questo caso non significa che ognuna delle stesse non possa e non debba essere perfezionata e resa la più efficace possibile.

 

Su questo primo punto della precarietà, dunque, io credo che la Fillea possa portare tutto il contributo della propria esperienza, che è esperienza di elaborazione e di capacità negoziale. Vorrei ricordare che sulle misure contro il lavoro nero molti accordi territoriali hanno implementato l’efficacia delle misure predisposte dal Governo (Pisa) ed in alcuni casi sono state recepite in atti istituzionali, come quello recente della Regione Puglia. Ma vorrei anche ricordare che la sperimentazione sull’interinale prevista dal Contratto del 2000 è rimasta bloccata per due anni finchè non abbiamo ottenuto uguaglianza di diritti in cantiere per tutti i lavoratori, il che ha significato per le imprese lavoro flessibile più costoso di quello a tempo indeterminato, esattamente quello che dice oggi il Ministro!

 

 

Le pensioni

 

L’altro appuntamento riguarda le pensioni. Qui posso farla più breve dato che il problema non è nuovo. Su questo problema veramente la categoria deve giocare un ruolo determinante. Come avrete capito il tema della discussione che avremo dopo la Finanziaria sarà come portare a verifica la Dini a fronte delle novità emerse in questo decennio, a partire dall’innalzamento dell’aspettativa media di vita della popolazione, che molti traducono automaticamente in innalzamento dell’età pensionabile o in riduzione dei rendimenti pensionistici.

In realtà, di novità ce n’è una seconda, che è la presenza esplosiva dei lavoratori stranieri, fenomeno di scarsa consistenza dieci anni fa,che oggi però ha assunto le dimensioni di un fenomeno epocale.

 

Credo che la miglior discussione non sia quella che neghi la realtà con tutte le possibili novità intervenute. Noi abbiamo un altro problema da rappresentare, il fatto cioè che i nostri lavoratori non possono andare in pensione a 60 o peggio ancora a 62 anni, ciò che non rappresenta un rischio ma semplicemente la realtà, se la Legge Maroni non viene modificata (perché molti si dimenticano che la Dini già è cambiata!).

Questo concetto molti di noi lo traducono in lavori usuranti, ed è giusto, poiché quello che noi rappresentiamo è un lavoro usurante sul serio, non per finta. Del resto lo stesso Ministro Damiano –sostenendo che non tutti i lavori sono uguali- ha più volte fatto capire che la definizione dei lavori usuranti sarebbe il viatico principale per procedere ad una rivisitazione della Dini in relazione all’età pensionabile.

 

Noi sappiamo quali sono i rischi di questa discussione, perché li abbiamo già vissuti l’altra volta, portando a casa un po’ di delusione. Naturalmente è una battaglia che dobbiamo condurre anche questa volta, avendo più di un elemento per dimostrare che il nostro non è un bluff. Tuttavia, noi dobbiamo andare al confronto col Governo e con le altre categorie attrezzati di proposte utili alla soluzione del problema, anche per evitare una guerra tra noi, che alla fine sarebbe una guerra tra poveri.

L’obiettivo è chiaro: gli edili innanzitutto, ma non solo loro, penso ad esempio ai cavatori, debbono poter andare in pensione a 57 anni, come la Dini aveva stabilito. Se questo è l’obiettivo noi dovremmo poterlo conseguire sia con un intervento legislativo che includa il nostro settore tra gli usuranti oppure in altro modo, non escludendo in tutto o in parte una soluzione contrattuale che introduca tale opportunità per la categoria. Intendo dire, cioè, che la validità della causa per la quale dovremmo batterci, in pensione a 57, è talmente sacrosanta che dovrebbe indurci a dire: o il Governo è in grado di riconoscerci questo diritto oppure dovremmo conquistarcelo da soli nel rapporto con il sistema delle imprese, agendo sulla leva della previdenza complementare con soluzioni mirate e sostenute dal Governo sottoforma di strumenti ed atti di incentivazione.

Il problema è serio, ma dobbiamo metterci subito al lavoro per evitare di trovarci nell’ingorgo di tutti coloro che andranno a chiedere di veder riconosciuta la specificità del settore, con il rischio che il lungo corteo di coloro che vogliono riscuotere risolva la questione come sempre, che non riscuote nessuno o…gli stessi!

 

Naturalmente questo significa considerare la leva della previdenza complementare strumento assolutamente decisivo per il futuro della categoria. Nei prossimi giorni faremo un nuovo punto della situazione, ma non v’è dubbio che la decisione adottata dal Governo di esonerare dal provvedimento TFR le imprese con meno di 50 dipendenti (per quanto il provvedimento contenga una piccola contraddizione) esclude tutto il settore e noi comunque dovremo continuare a combattere sul campo per conquistare la maggior parte della platea allo strumento essenziale rappresentato dai fondi contrattuali ed è positivo che l’anticipo della previdenza complementare sia stato accompagnato dall’accordo siglato da sindacati e Confindustria sul TFR.

Ora però non si scherza più e sempre meno potremo dare la colpa agli altri se l’operazione non dovesse conseguire i risultati per i quali è stata immaginata.

 

L’ultima considerazione che vorrei fare sul quadro politico e la Finanziaria riguarda il tema dello sviluppo e le riforme. In parte ho già detto per quelle che riguardano il mercato del lavoro e la lotta per la regolarità. Come settore abbiamo oltre a quello del lavoro alcuni altri tavoli importanti, che riguardano quello sul Testo Unico alla Sicurezza (Il Governo si è impegnato a presentare entro questo mese la delega in Parlamento) e quello relativo al Codice degli Appalti. Non ho bisogno qui di dire molto altro dato che è stato per anni è lo è stato in queste settimane il nostro pane quotidiano. Con i relativi Ministeri abbiamo già avuto l’opportunità di inaugurare un primo livello di confronto o direttamente come categoria o tramite le Confederazioni. Naturalmente sappiamo che il Governo dovrà prima chiudere la partita della Finanziaria per dare continuità ai confronti avviati su tali questioni. Le nostre posizioni e proposte sono fin troppo chiare ed è con quelle che andremo al confronto.

 

Ma nel rapporto col Ministero delle Infrastrutture, anche a seguito delle scelte della Finanziaria, noi rischiamo di trovarci nelle prossime settimane qualche problema in più sul versante occupazionale, data la ristrettezza delle risorse destinate alle opere, che rappresentano tuttavia un passo in avanti rispetto alla precedente legislatura, caratterizzata da molte promesse e gioco delle tre carte. L’Ance stessa riconosce uno stanziamento del 25,1% in più di investimenti rispetto al 2006, pari a 4.000 milioni di euro in più. Ciò nonostante avremo molti cantieri a rischio ed altri dolori potranno arrivare per le imprese dedite alla manutenzione stradale del gruppo Autostrade, Pavimental e Gavio, in seguito0 agli effetti del decreto legge 262.

 

 

Dei tavoli di confronto governativo quello sul quale si addensano le maggiori difficoltà è quello relativo ai beni culturali sul quale abbiamo posto le annose questioni del restauro. Vorrei fosse chiaro a tutto il Direttivo che in questo caso parliamo di un settore che rappresenta in modo forse più clamoroso di tanti altri la contraddizione data dalle forti potenzialità presenti nel settore vanificate da altrettante gravi contraddizioni. Le potenzialità sono quelle di un settore che in modo forse un pò volgare si è detto rappresenta il nostro petrolio, una leva dello sviluppo economico che altri paesi ci invidiano per ricchezza storica ed artistica e sua diffusione territoriale. Le contraddizioni sono quelle di un settore che vive sulla e della precarietà, precarietà nell’uso delle professioni, dato che in molti casi si tratta di vero e proprio sfruttamento, precarietà delle condizioni di lavoro.

 

Abbiamo da tempo chiesto al Ministero di aprire un tavolo per risolvere almeno il diritto delle migliaia di giovani restauratori ed archeologi di poter sostenere l’esame per l’abilitazione alla professione, ma il Governo scegliendo di rappresentare interessi ristretti, vere e proprie lobbyes settoriali prosegue con un atteggiamento elusivo e inconcludente. Al tempo stesso le politiche del settore e per il settore, le risorse destinate al suo sviluppo restano al palo rispetto agli anni precedenti.

 

Per queste ragioni è stato deciso unitariamente di dare luogo ad una prima giornata di mobilitazione nazionale, credo la prima in assoluto o dopo tanti anni, che avrà luogo sabato 18 novembre a Roma. Purtroppo la giornata è andata a coincidere con la manifestazione sulla pace a Milano, ma avendola spostata già una prima volta è risultato impossibile proporre un nuovo slittamento, anche in funzione dei tempi tecnici entro i quali il Governo dovrebbe emanare il decreto legge contenente le richieste da noi avanzate.

 

Dobbiamo dunque fare del 18 novembre un appuntamento di tutta l’organizzazione sulla base degli obiettivi che già da oggi vi verranno distribuiti.

Terremo un presidio sotto il Ministero dei Beni Culturali al quale dovranno partecipare lavoratrici e lavoratori del settore e una parte significativa della nostra organizzazione. Un appuntamento che dovrà essere preparato fin dalle prossime ore, anche attraverso una azione di orientamento e diffusione degli obiettivi a livello territoriale, per fare arrivare la nostra voce a queste migliaia di lavoratori sparsi in cantieri spesso introvabili e obbligati a condizioni di lavoro che non ne facilitano l’individuazione, ma che chiedono di avere un soggetto a cui riferirsi per provare ad uscire da una condizione di vero e proprio sfruttamento.

Vorrei evitare di ricordare a tutti noi che l’importanza di questo impegno non può essere misurato esclusivamente sulla base di un tornaconto immediato per l’organizzazione, altrimenti non verrebbero colte le peculiarità del settore e di chi vi opera, a partire dal tormentato rapporto o la tormentata immagine che molti giovani hanno col o del sindacato. Là dove ci si è creduto sono arrivate anche le deleghe sindacali…

 

 

*   *   *   *   *

 

Come dicevo in apertura vogliamo con questa sessione del Direttivo Nazionale avviare un percorso di riflessione e di lavoro che porterà la categoria alla verifica di metà mandato, attraverso lo svolgimento della Conferenza di Organizzazione.

Ho anche detto che per noi si tratterà di un appuntamento importante perché servirà a fare un bilancio di 6-7 anni di lavoro, a quel punto nell’imminenza di un passaggio importante nella direzione della categoria. Credo di aver colto nelle pieghe della vita dei nostri gruppi dirigenti l’avvio di qualche legittimo interrogativo su ciò che accadrà domani nella Fillea. Ma se l’interrogativo può apparire legittimo per l’interesse che in ognuno di noi alberga circa il futuro della categoria altrettanto doveroso è affermare che la gran parte delle risposte risiedono in noi stessi e nel modo come riteniamo di dover o voler dare continuità all’esperienza messa in campo in questi anni.

 

La Fillea che ci è stata data in eredità da Carla è molto cambiata in questi anni ed è cambiata proprio in ragione del fatto che a noi era stata data in consegna una missione precisa, quella del rinnovamento politico ed organizzativo della categoria alla luce della fase nuova che andava vivendo il settore.

 

Il cambiamento della categoria è fotografato innanzitutto dal cambiamento dei suoi gruppi dirigenti. Basti pensare che dei venti segretari generali regionali e dei venti segretari generali provinciali capoluoghi di regione in carica a luglio del 2000 se ne contano oggi meno delle dita di una mano. Di questo profondo cambiamento fanno fede la composizione degli organismi dirigenti profondamente rinnovati e caratterizzati da un sensibile abbassamento dell’età media. L’obiettivo di un ricambio generazionale è stato il primo obiettivo perseguito in questi anni con tenacia, consapevoli che il vuoto generazionale che separa la generazione dei trentenni da quella dei cinquantenni rappresenta il principale vulnus del sindacato e sicuramente della Cgil.

In questa opera di ricambio generazionale il nostro sforzo si è concentrato nell’obiettivo di rappresentare la grande novità che caratterizza il nostro settore, la vasta e crescente presenza dei lavoratori stranieri ed al tempo stesso rappresentare la differenza di genere anche oltre le possibilità “fisiologiche” che le caratteristiche del settore consentono. Anche in questi casi i risultati sono davanti agli occhi di tutti: la Fillea è senza dubbio la categoria con il maggior numero di stranieri tra i funzionari sindacali e negli organismi esecutivi; la Fillea vanta una presenza delle donne tra le più alte di tutta la Cgil, anche rispetto alle categorie che potrebbero meglio di noi rappresentarle (rispetto al 2000 non bastano le dita delle due mani per contare le segretarie generali provinciali) e soprattutto è caratterizzata da un gruppo dirigente molto giovane.

 

Questo processo che nei primi anni ha subito il forte imput del gruppo dirigente nazionale è stato poi rapidamente metabolizzato da tutta l’organizzazione, diventando fattore importante e riconosciuto dell’identità (e dell’orgoglio) della nostra categoria. Se dovessi adottare una terminologia “militare” direi che oggi le “sacche di resistenza”, in parte comprensibili, in parte assolutamente ingiustificate e prive di motivazioni politiche valide, sono ridotte al lumicino.

 

I risultati ottenuti lungo questo percorso ci fanno dire che questo processo è per noi irreversibile, che al rinnovamento non c’è alternativa, che il rischio della scommessa è ampiamente ricompensato dalla certezza dell’innovazione nel modo di essere dell’organizzazione. Chi ancora tarda a comprendere questa verità di fatto non fa altro che isolarsi dal processo virtuoso che coinvolge l’insieme della categoria.

 

Alla luce di tutto ciò credo legittimo affermare l’ambizione della Fillea a rappresentare un laboratorio avanzato nel processo avviato al congresso della Cgil, che punta alla riprogettazione del Paese riprogettando lo stesso sindacato ed è altrettanto doveroso per noi impegnarci a svolgere un ruolo protagonista nel dibattito sulla riforma organizzativa della Cgil.

 

Al nostro ultimo congresso abbiamo definito le linee del nostro progetto organizzativo che riteniamo parti integranti delle linee abbozzate da Carla nel suo recente articolo su Rassegna Sindacale.

Ci preme qui segnalare alcuni punti critici che la Conferenza d’Organizzazione dovrà contribuire a elaborare positivamente.

 

Uno di questi è senza dubbio il rapporto con le strutture Confederali a partire dalle Camere del Lavoro. In un quadro di rapporti ampiamente positivi non sfugge però che in più di una situazione tali rapporti risultano ancora troppo condizionati da un modello organizzativo e da una struttura orizzontale che poco rappresenta i bisogni reali di categorie come la nostra. I settori non sono tutti uguali, dunque, le categorie non possono essere misurate con un metro di misura indistinto. La Fillea è vista oggi in molti territori come uno sportello bancomat per garantire le necessarie coperture finanziarie per la spesa corrente delle Camere del Lavoro. In tanta parte della Cgil si continua a fare opera di dileggio verso la bilateralità, quote di servizio ed altro, salvo poi rivendicarne i benefici per sostenere gli esercizi finanziari, sostanzialmente deficitari di tutte le strutture.

 

Fin qui niente di sconvolgente (data anche la natura confederale della Fillea) se non fosse per il fatto che molto più difficile è incontrare adeguate sensibilità attorno ai bisogni organizzativi della categoria. Si fa fatica a percepire la diversa dinamica dell’attività di tesseramento e reinsediamento in un settore come l’edilizia rispetto ad uno manifatturiero. Conseguentemente si incontrano difficoltà in molti casi a capire la ragione per la quale gli apparati Fillea debbono essere progettati giocando d’anticipo sugli obiettivi della crescita organizzativa, soprattutto a fronte della spietata concorrenza delle altre organizzazioni.

 

La Conferenza di Organizzazione deve pertanto contribuire a ridefinire un nuovo baricentro nella ridistribuzione delle risorse dove la media del pollo deve lasciare il passo ad un uso più mirato delle stesse, perché 100 iscritti dentro un capannone non sono la stessa cosa di 100 iscritti in 60-70 cantieri, 30-40 dei quali ogni anno debbono essere rincorsi nella loro fisiologica mobilità. E quando parliamo di risorse intendiamo tanto quelle finanziarie che quelle umane. Non v’è dubbio che nel corso degli anni gli apparati confederali sono diventati ridondanti, inutilmente abbondanti ed è altrettanto naturale che la nostra categoria non può sottrarsi alla necessità di contribuire ad un giusto riequilibrio in funzione del risanamento finanziario delle strutture. Ma quando affermiamo in più di una occasione che “non tutti i quadri sono adatti per la Fillea” non intendiamo negare questo contributo, né esprimere un atteggiamento di sufficienza o superiorità. E’ la realtà, perché il lavoro in categoria e qui tutti lo sappiamo bene presuppone una forte disponibilità e un alto tasso di motivazione e non è giusto prospettare l’eldorado a chi pensa di aver già maturato una vita sindacale compiuta. Tanto più che la concorrenza agguerrita delle altre organizzazioni sindacali deve misurarsi con il nostro sistema di distribuzione delle risorse, la canalizzazione che altri non hanno come noi, che deve necessariamente produrre attraverso qualche forma, compresa appunto la mobilità dei quadri, un qualche ritorno concreto in categoria.

 

Questa è la ragione per la quale la Fillea non può rinunciare ad un pezzo decisivo della politica dei quadri seguita in questi anni, i progetti di reinsediamento corposamente finanziati dalle risorse nazionali, che hanno rappresentato e rappresentano una fucina importante per il ricambio del gruppo dirigente. Sappiamo che spesso questi progetti sono un di più rispetto alle piante organiche ottimali, ma occorre che le strutture confederali capiscano bene la necessità di agire su una leva per noi assolutamente irrinunciabile.

 

A maggior ragione non vi rinunceremo, anzi né incentiveremo il ricorso soprattutto nei casi in cui essi riguarderanno quadri femminili e lavoratori immigrati. Su questo non vi è da ribadire quello che già abbiamo detto al Congresso di Pesaro.

 

Nel caso della norma antidiscriminatoria credo che la Confederazione continuerà a guardare alla nostra categoria sapendo che la norma antidiscriminatoria deve scontare una presenza femminile nel settore ridotta ai minimi termini. Anche per questo abbiamo fatto la scelta della promozione dei quadri femminili nei gruppi dirigenti ed ai massimi livelli di responsabilità là dove se ne presenti la possibilità, sia pescando nei settori ad alta presenza femminile (legno e restauro), sia pescando fuori, proponendo a giovani ragazze una esperienza innovativa dentro il sindacato. I risultati di questa politica sono davanti a noi. Oggi le compagne segretarie generali di strutture provinciali sono più delle dita delle due mani (nel 2000 era una sola) e vorrei chiarire a tutti noi che non si tratta di pure invenzioni, quanto del riconoscimento del valore reale delle compagne, che nulla hanno in più da dimostrare ai compagni.

 

Ma proprio per questo non possiamo tornare indietro circa l’opzione di promuovere a nuove responsabilità le compagne là dove se ne presenti la possibilità e di fronte a valori riconosciuti. Vorrei chiarire che questa è una scelta di tutta l’organizzazione non il pallino di qualcuno, non renderla concreta dove essa si presenta possibile, soprattutto in assenza di motivazioni politicamente valide, significa fare una scelta contraria alle decisione congressuali della categoria, significa ostacolare un processo che tutti insieme abbiamo deciso di perseguire.

 

Ancor più il vincolo vale per i quadri stranieri. La nostra Conferenza di Organizzazione dovrà rappresentare la prima tappa di verifica della consistenza assunta dall’obiettivo del nostro XVI Congresso di fare della Fillea il primo Sindacato Multietnico. Quello che dicevo in precedenza sulle peculiarità della nostra politica dei quadri vale ancor più per i lavoratori stranieri. Chi pensasse di poter distaccare al sindacato lavoratori stranieri già “confezionati per l’uso” non coglierebbe la profonda novità che questo fenomeno comporta per lo stesso cambiamento di mentalità della nostra organizzazione. E comunque è impossibile pretendere che diverse culture dalla nostra, diverse mentalità, esperienze (soprattutto di partecipazione civile e democratica assolutamente non paragonabili a quella del nostro Paese) possa dare luogo ad una immediata sintonia di chi, straniero, entra nel sindacato. Quel modo di dire “quello non è adatto per il sindacato” in questi casi comporta un supplemento di attenzione e di sensibilità. Le strutture che vantano il maggior numero di immigrati tra le loro fila potranno testimoniare che nessuno di loro oggi è lì per il colore della pelle o la diversità linguistica, bensì per meriti riconosciuti e non per tutti è stato così. Eppure non per tutti quelli che poi sono rimasti l’inizio dell’esperienza sindacale si presentava così semplice e scontata.

 

Occorre su questo punto, dunque, più coraggio e determinazione. Già molto abbiamo fatto (Moulai), ma non dobbiamo accontentarci. Anche perché questo nostro impegno non è solo di natura organizzativa. Il sindacato multietnico, come dicevamo a Pesaro è un soggetto che ha una sua politica internazionale sui grandi temi della globalizzazione e del multiuculturalismo. Tant’è che siamo già in grado di presentare a questo direttivo un progetto nazionale sulle politiche della, cooperazione internazionale, della multiculturalità di cui vi parlerà nel corso dei lavori il compagno Moulai.

 

Di questo grosso capitolo sulla politica dei quadri e dei gruppi dirigenti non possiamo che confermare il ruolo centrale della formazione sindacale. Dopo anni di lavoro possiamo oggi affermare di aver ricostruito un importante presidio della formazione in categoria, che si consoliderà con l’avvio proprio in questi giorni dell’importantissimo corso per formatori e giovani dirigenti presso il Politecnico di Milano. Anche in questo caso abbiamo superato le vaste aree di scetticismo che erano presenti all’inizio del nostro lavoro, non tutte per la verità perché in qualche caso si continua ad incontrare una strana e non giustificata resistenza nel consentire l’iscrizione ai moduli formativi, ma sicuramente molta strada è stata fatta.

La Conferenza di Organizzazione dovrà rendere ancor più cogente il nesso che abbiamo deciso di creare tra formazione – inserimento quadri nei gruppi dirigenti – distribuzione delle risorse. Non vorrei che qualcuno scoprisse con ritardo che i libretti formativi che abbiamo stampato altro non sono che una sorta di cartelle del fisco, nel senso che le strutture che dichiareranno o che, anzi, saranno colte in regime di evasione dall’obbligo formativo perderanno ogni diritto alle forme di incentivazione che la nostra politica finanziaria prevede e voi sapete quanto in misura massiccia verso le strutture territoriali.

 

 

Il secondo grosso capitolo di questa nostra discussione discende da una verifica dei rapporti unitari dei quali abbiamo individuato anche una sede precisa, la verifica dell’accordo di Grottaferrata.

 

Di questo capitolo fanno parte questioni alle quali già abbiamo fatto cenno in precedenti occasioni, ma che dovranno trovare la possibilità di individuare sbocchi per soluzioni più avanzate.

Esse in estrema sintesi riguardano.

 

Le politiche del proselitismo, diventate oggi luoghi di arrembaggio all’arma bianca tra i sindacati di categoria. Si pone qui, come per altri campi tra i quali al primo posto la bilateralità, l’esigenza di individuare regole di comportamento etico veramente efficaci nel contrastare la deriva dentro la quale rischiamo di essere trascinati.

Gli ultimi dati confermano che questa competizione, spesso “sporca”, non ha portato un solo iscritto in più ai sindacati, ma è solo redistribuzione tra le sigle, con noi sensibilmente penalizzati rispetto alle altre.

Regole per fare deleghe e disdette che incentivino la nuova sindacalizzazione e che invertano la tendenza nel rapporto tra delega e quota di servizio. Regole che qualifichino ruolo e funzioni della bilateralità. Dobbiamo aprire e lo faremo questo fronte perché il problema non è combattere qualcuno ma affermare un principio etico che serva per far crescere tutto il sindacato.

 

Un terzo capitolo riguarda il peso che sempre più assumerà la dimensione internazionale dell’agire sindacale e dunque il nostro rapporto con le federazioni internazionali.

Come avrete letto proprio in questi giorni a Vienna è nata la nuova organizzazione mondiale (l’ITUC) con 166 milioni di iscritti in 156 paesi.

Nel corso di questi anni come sindacati italiani abbiamo un po’ sottovalutato il ruolo delle istanze internazionali concedendo ad altri Paesi un primato non sempre corrispondente al peso e l’importanza dei sindacati nei rispettivi paesi. Questo ha creato anche un marcato dissenso tra noi, un’altra parte dei sindacati europei ed una maggioranza costituita dal Centro e Nord Europa. Dopo aver considerato per diverso tempo inutile questo lavoro ci rendiamo conto che lo stesso peso che vanno assumendo gli atti legislativi comunitari impongono una azione comune dei sindacati e dunque una nostra presenza più convinta nelle federazioni rispettivamente quella europea e quella mondiale. Una nostro diverso peso che dovremo coltivare anche attraverso rapporti bilaterali tra sindacati, a partire dal consolidamento di quello importante che già abbiamo col sindacato tedesco. Già diverse strutture si stanno cimentando attraverso viaggi esplorativi in questa attività, che abbiamo volutamente ricondotto nel progetto al quale ho accennato poco fa, per dare un senso compiuto all’impegno di tutta l’organizzazione.

 

 

L’insieme delle nostre politiche organizzative, che altro non sono che il mezzo, lo strumento per il conseguimento della politica che ci siamo dati, ci consentiranno di arrivare all’appuntamento di verifica dell’anno prossimo con una organizzazione io credo ancora più forte, motivata, convinta delle proprie potenzialità e dell’identità che la caratterizza nel panorama della Confederazione. Anche per questo vorrei concludere rinnovando l’invito a tutto il gruppo dirigente a non preoccuparsi d’altro in questi mesi che della migliore realizzazione degli obiettivi che ci siamo dati. Non fanno per noi le discussioni intestine su ciò che accadrà o che non accadrà domani. Ciò che a reso negli anni originale la categoria e l’esperienza di questi anni ne ha consolidato il tratto, è la collegialità, il coinvolgimento del gruppo dirigente nelle decisioni importanti. Il futuro non è nelle mani di qualcuno in particolare, ma nelle mani di tutti noi. Questo”intellettuale collettivo” è colui che si presenterà alla Cgil per rivendicare la giusta continuità dell’esperienza che abbiamo messo in campo e se non abbiamo avuto motivi per lamentarci di come la Confederazione ci ha trattati nel consegnarci l’eredità di Carla, tanto meno dobbiamo averne oggi, non solo perché, guarda caso, Carla sarà ancora tra noi e il vostro futuro ma soprattutto perché la categoria, per il lavoro che ha fatto e che continuerà a fare in questi mesi, potrà esibire tutti i titoli richiesti per avere voce in capitolo. Ma solo se continueremo a crescere del lavoro che ci ha portati ad essere, come noi umilmente riteniamo, un importante punto di riferimento della Cgil.

 

 

Tirrenia, 6 novembre 2006

 

 

 


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