>dove siamo  >chi siamo  >Contrattazione  >Documenti  >Dipartimenti  >Agenda  >News  >Uff.Stampa >Mappa sito >Le nostre foto >Valle Giulia >Disclaimer

 

Stampa questo documento

Direttivo Nazionale Fillea Cgil – Roma 18 luglio 2007                        

 

Relazione introduttiva di Franco MARTINI

 

 

1. L’inchiesta mafia-appalti in Calabria

 

Prima di entrare nel merito delle questioni oggetto del nostro Direttivo debbo necessariamente proporvi una riflessione sulle vicende che in questi giorni hanno occupato la cronaca calabrese e nazionale in ordine all’inchiesta della Magistratura di Gioia Tauro sull’intreccio mafia-appalti. Come molti di voi sapranno, tra gli arrestati figura un nostro dirigente della Fillea comprensoriale, membro della segreteria e dirigente di lunga data della Fillea e della Cgil di quel territorio.

 

Come immediatamente è stato fatto dalla nostra struttura, Noè Vazzana è stato prima sospeso da ogni incarico e successivamente espulso, data la pesantezza degli indizi a suo carico.

 

La notizia è di quelle in grado di tramortire un gruppo dirigente, poiché il Vazzana era considerato un “quadro storico” della categoria e della Camera del Lavoro comprensoriale, uno di quei quadri nei confronti dei quali mai e poi mai avrebbe potuto essere avanzato un ben che minimo sospetto. Una situazione per certi versi analoga a quella nella quale si sono trovate altre strutture di fronte ai risultati sconvolgenti delle indagini sul terrorismo, quando queste hanno visto coinvolti quadri dirigenti e militanti della nostra organizzazione.

 

Il modo con il quale abbiamo gestito fin dalle prime ore questo fatto sconvolgente non offre alcun margine a dubbi o imbarazzi. In primo luogo, lo abbiamo considerato molto grave per una organizzazione che ha fatto della lotta alla trasparenza degli appalti e contro la criminalità organizzata l’asse centrale della propria iniziativa al Sud, quanto nel Paese. Quasi una beffa, dato che in questi anni la Fillea Nazionale, Meridionale e Calabrese hanno presidiato questo fronte senza tentennamenti, mettendo in campo iniziative sia in relazione alla realizzazione della Salerno-Reggio Calabria, sia rispetto al mercato più generale degli appalti (basti ricordare alle iniziative sui temi della ricostruzione nei territori colpiti dal terremoto).

 

Ciò nonostante abbiamo voluto esprimere forte apprezzamento e soddisfazione per l’operato della Magistratura, delle forze dell’ordine e per l’esito dell’inchiesta, della quale si chiede la rapida conclusione. Essa conferma i rischi da tempo denunciati dal sindacato e dalla stessa Fillea Cgil e ripropone la necessità di adottare regole sempre più rigide nella gestione delle commesse e soprattutto rendere trasparenti e controllabili tutti i passaggi della catena dell’appalto, dalla fase di gara,

 

In secondo luogo, abbiamo riaffermato la determinazione della nostra lotta contro i poteri criminali negli appalti. Tutto ciò anche in relazione al fatto che quel male endemico che continua a colpire soprattutto il Meridione, ma non solo, non è sufficientemente contrastato da una normativa che deve essere rivisitata e resa più rigorosa. Lunardi ci aveva insegnato che con la mafia bisogna convivere. Il Governo Berlusconi aveva poi messo mano alla legge sugli appalti non certo per stringere le maglie dei controlli e della regolarità. Noi abbiamo risposto rivendicando e chiedendo di sperimentare a livello locale  strumenti di contrasto, come i protocolli di legalità ed altro. Evidentemente, questa rete non agisce ancora con sufficiente efficacia. I fenomeni di corruzione si stanno nuovamente presentando dal Sud al Nord e dove essi sono gestiti dalle mafie assumono anche una dimensione criminosa. Il fatto che l’inchiesta abbia fatto venire alla luce l’esistenza di una regia autorevolmente esercitata dalle cosche mafiose dell’area, proprio in relazione ad un’opera infrastrutturale  per la realizzazione della quale erano stati siglati protocolli di legalità con il General Contractor, mette in luce l’attuale debolezza di tali strumenti ed impone una verifica immediata sulla necessità di intensificare e di rendere efficaci gli strumenti di controllo democratico sulle attività dei cantieri.

 

Ciò che è accaduto a Gioia Tauro non scalfisce minimamente questa nostra coerenza e per ribadirla abbiamo deciso di prevedere alla immediata ripresa dell’attività dopo la pausa estiva una grande iniziativa nazionale in Calabria per chiarire il nostro pensiero ed il nostro impegno.

 

Quando capitano vicende come quella denunciata dobbiamo chiederci se i nostri gruppi dirigenti hanno delle responsabilità, sia nell’essere stati sordi a dei segnali premonitori, sia nell’aver sottovalutato la gravita della situazione. E’ ciò che abbiamo cominciato a fare e che continueremo a fare con rigore, pur sapendo che il metro di misura di tale riflessione non può essere quello di confondere il mestiere del sindacato con quello delle forze dell’ordine, nè della magistratura. Ma non ci sottrarremo a questo compito. Quello che non può essere accettato è la caccia alle streghe o il gioco dello scaricabarile. Voglio ricordare che la persona inquisita frequenta gli ambienti della Cgil, ossia della Camera del Lavoro di Gioia Tauro anche in qualità di componente degli organismi dirigenti, da quando i nostri massimi responsabili della Fillea calabrese ancora non avevano iniziato le scuole elementari ed altri ancora non erano nemmeno nati. Non è dunque accettabile il fuggi, fuggi al quale sembra di assistere in questi giorni e la tendenza a scaricare sull’ultimo anello della catena eventuali responsabilità che non possono che essere collettive, se mai vi fossero. Questo la categoria lo deve dire chiaro e tondo, perché diversamente, oltre a non dare bella prova di unità e solidarietà del gruppo dirigente, non aiuteremmo la stessa organizzazione a trarre da questa vicenda ulteriore stimolo per avanzare verso il forte rinnovamento di cui anche quelle strutture territoriali necessitano.

 

Vorrei anche ricordare che lo sforzo fatto dalla Fillea in questi ultimi 5-6 anni è stato quello del completo rinnovamento, anche generazionale, dei gruppi dirigenti calabresi. Quasi la metà dei segretari generali a mala pena arriva ai trent’anni di età; a Gioia Tauro abbiamo una donna alla direzione della categoria. Abbiamo fatto scelte coraggiose, per lasciarci alle spalle un passato che non aiutava la nostra organizzazione a crescere. Probabilmente, stiamo pagando oggi il prezzo di questa forte innovazione, attraverso un assestamento organizzativo che presenta luci ed ombre. Ma siamo convinti che non avevamo scelta per dare al gruppo dirigente calabrese un volto nuovo, energie nuove e questa scelta vogliamo difendere. Prima di tutto esprimendo tutta la nostra convinta solidarietà al nostro Segretario Regionale e alla Segretaria Generale di Gioia Tauro chiamati a dover gestire in prima persona l’impatto territoriale con la vicenda e poi a tutti gli altri compagni della regione.

 

Ma vogliamo difendere questa scelta anche chiamando la Confederazione calabrese a verificare la coerenza con la quale tale processo viene sostenuto, sapendo che in alcune province le scelte operate, con nostra grande perplessità, hanno mostrato scarsa attenzione alle peculiarità del lavoro nel settore, che spesso è lavoro sul fronte, ed hanno oggi come conseguenza il progressivo indebolimento della nostra forza rappresentata sul territorio. Per questo, andremo ad un confronto nei prossimi giorni con la Cgil calabrese per rilanciare un progetto comune di rafforzamento politico ed organizzativo della nostra categoria su tutto il territorio della regione.

 

 

2. Il confronto col Governo

 

Venendo al punto centrale di questa nostra discussione, come saprete, proprio in queste ore è in atto il tentativo di concludere il confronto col Governo sul tema delle pensioni.

Abbiamo già avuto modo di dire nei giorni scorsi che è sicuramente preferibile cercare l’accordo prima della pausa estiva, anche se non potremo farlo proprio agli ultimi minuti prima della chiusura delle aziende, impedendo così l’inizio di un confronto con i lavoratori. L’ipotesi del rinvio a settembre, che potrebbe concretizzarsi a fronte dell’assenza di una intesa nei prossimi giorni, non ci collocherebbe in una posizione certamente più favorevole. Saremmo a quel punto ancor più vicini all’entrata in vigore dello scalone previsto dalla Riforma Maroni, mettendo sempre più il sindacato sul piede di guerra, ed in questo quadro le tensioni all’interno del Governo, già abbondanti in questo periodo, non farebbero altro che implementare e rendere l’Esecutivo sempre meno affidabile.

Quindi, è chiaro che fare un accordo in queste ore resta la nostra priorità. Ovviamente, questo non significa che faremo un accordo qualunque, il nostro obiettivo è fare un buon accordo, coerente con gli obiettivi contenuti nella piattaforma che unitariamente abbiamo approvato con Cisl e Uil.

 

Proprio per questo, conviene cogliere questa occasione per liberare la discussione da troppi luoghi comuni che non aiutano a capire l’insieme delle questioni che sono state e sono oggetto del confronto col Governo. Questo non è il confronto sul superamento dello scalone, che certo rappresenta un punto importante, ma ha al centro un insieme di politiche che devono aiutare la crescita e lo sviluppo del Paese e all’interno di queste qualificare lo stato sociale, nella direzione di una maggiore equità ed inclusività.

In questo senso, alcuni primi risultati sono stati ottenuti, ma molto ancora resta da fare e sarebbe sbagliato mettere il coperchio dello scalone sui nostri obiettivi, che parlano dell’Italia del futuro molto più di quanto possa farlo una modifica, assolutamente necessaria, alla controriforma voluta dal precedente Governo in materia previdenziale.

 

Sono i temi che affronteremo ancora in occasione del confronto sul DPEF, che pure ispirato ad un obiettivo di crescita economica e di consolidamento della finanza pubblica, non rende pienamente esplicite le scelte attraverso le quali questa crescita verrà destinata ad un rilancio dello sviluppo e dell’occupazione, a partire dal potenziamento delle scelte strategiche legate alla ricerca ed all’economia della conoscenza.

Sono le scelte legate alla modernizzazione ed alla efficienza della Pubblica Amministrazione, che non è sinonimo di licenziamento dei fannulloni, ma valorizzazione della funzione sociale del lavoro pubblico.

 

E’ la centralità della lotta alla precarietà del lavoro attraverso la definizione di un piano di legislatura per la stabilità e la buona occupazione, che ai fini della stabilità del sistema previdenziale vale molto più di qualche ritocco dei coefficienti o di qualche scalino in più. Se non c’è lavoro stabile non può esserci futuro pensionistico, né per i giovani, né per i meno giovani. Il 2006 si è chiuso con 2,2 milioni di lavoratori temporanei, il 13,1% del totale degli occupati dipendenti.  Questo è il vero agente corrosivo del sistema previdenziale, assieme alle altre iniquità che l’incompiuta riforma continua a mantenere,  e non può rischiare di passare in secondo piano spostando l’asse delle priorità.

 

Poi, certamente, c’è la questione previdenziale, ma che ci parla di molto altro: di separazione della spesa assistenziale da quella previdenziale; di armonizzazione delle regole; di estensione di diritti e tutele a chi oggi ne è escluso; di parasubordinazione; di migranti; di usuranti, ecc…

 

Affermare questa impostazione non è sfuggire da alcuni nodi ai quali è incardinato l’attuale confronto, ma semplicemente affermare un ordine di priorità. Cito alcuni dei luoghi comuni più diffusi in questo periodo, che noi dobbiamo combattere.

 

Si dice che il sindacato non guarda ai giovani, chiudendosi in una visione corporativa e garantista verso i propri associati tradizionali. Intanto una cosa l’abbiamo già detta prima e potremmo ridirla in altro modo: chiedete a quel 2,2 milioni di lavoratori temporanei se si sentano più assicurati per la loro vecchiaia dal mantenimento oggi dello scalone, oppure dalla possibilità di costruire la loro pensione non sottraendo ad altri un diritto maturato, bensì attraverso la stabilità del loro lavoro; e se sia coerente politica giovanile tenere di più gli anziani a lavorare (anche se poi le aziende ad una certa età provano a disfarsene), precludendo l’ingresso ad una nuova generazione di lavoratori, reclusa nel mondo della precarietà “a tempo indeterminato”.

 

Il vero patto intergenerazionale, dunque, non si costruisce sul terreno previdenziale, ma su quello delle politiche attive del lavoro e per questo abbiamo condiviso e sostenuto l’impegno del Governo ad affrontare concretamente e non con semplici dichiarazioni sulla famigerata legge 30, la lotta alla precarietà, già a partire dalla finalizzazione del cuneo fiscale.

 

L’altro luogo comune è che noi saremmo ciechi di fronte al fenomeno dell’invecchiamento attivo ed al conseguentemente innalzamento dell’età pensionabile, come avvenuto in tutti gli altri Paesi europei. Si rappresenta la situazione come se tutti i lavoratori a 57 anni andassero in pensione. Non si dice mai che l’età media effettiva (non legale) di pensionamento in Italia è già oltre i sessant’anni (60,4), cioè, tante persone che potrebbero già essere andate in pensione scelgono di proseguire l’attività lavorativa. Sono luoghi comuni costruiti ad arte per dirottare l’attenzione dai problemi veri che andrebbero affrontati e che non possono essere affrontati solo nella logica del “fare cassa”.

 

E’ stato questo l’approccio che la stessa nostra categoria ha dato alla questione che stiamo discutendo e che abbiamo ribadito fino a questi ultimi giorni, per provare a trovare delle soluzioni compatibili con l’equilibrio che un accordo generale deve avere. Partendo proprio da questo ultimo problema, dell’elevamento dell’età pensionabile, che ha ispirato lo scalone di Maroni. Poi Epifani potrà fare riferimento alle ipotesi sulle quali si sta lavorando, ad esempio lo scalino dei 58 anni, che lui stesso ha considerato un importante contributo del sindacato per sbloccare un impasse nel quale il confronto si era cacciato.

 

Perché siamo contrari allo scalone e siamo molto prudenti sugli scalini, tant’è che non siamo proprio sicuri che oltre i 58 anni ve ne debbano essere altri? Per la semplice ragione che scaloni e scalini trattano i lavoratori come se fossero tutti uguali, cosa che invece non è! Determinano un allineamento dell’età pensionabile attraverso la tecnica della media del pollo. Si dice che l’aspettativa media di vita si sia elevata nel corso degli anni, dunque, che il sistema previdenziale dovrà erogare pensioni per un numero maggiore di anni. Ma questo è uguale per tutti? Ovvio che no! L’aspettativa media di vita di un edile, ad esempio, è al dodicesimo posto sotto la media nazionale. Conseguentemente, se è giusto che un edile goda della pensione per un periodo approssimativamente simile a quello di chi campa più a lungo gioco forza dovrà andare in pensione un po’ prima. E l’esempio vale per altre categorie, ovviamente.

 

Il problema, dunque, non è contestare il fatto che oggi si possa lavorare di più, sia per lo stato complessivo della salute nazionale che è migliorato nel corso degli anni, che per il conseguente allungamento dell’aspettativa media di vita. Il problema è che ciò non vale per tutti allo stesso modo ed uno Stato che faccia dell’equità uno dei cardini della cittadinanza sociale deve prevedere la possibilità che un lavoratore, il quale giunto a 57 (o 58) anni non sia più nella condizione di svolgere un lavoro fisicamente o psichicamente duro e logorante, possa accedere alla pensione. Badate bene, questo è il tema degli usuranti, ma non è solo il tema degli usuranti. Noi non ce la faremo ad utilizzare il capitolo degli usuranti per affrontare un problema molto più diffuso di quello rappresentato dalle tabelle ministeriali redatte al momento dell’approvazione della norma e molto poco aggiornate nel corso degli anni.

 

Sugli usuranti dobbiamo cercare di avere una visione la più laica e moderna possibile. Abbiamo già dato prova di incapacità al nostro interno di sostenere una discussione realmente selettiva, quindici anni fa. Oggi dovremmo saper esprimere una maggiore maturità, senza inseguire visioni di nicchia o egoismi corporativi. Noi, ad esempio, non dobbiamo avere reticenze nell’affermare che l’usura non è fenomeno esclusivamente connesso alla fatica fisica e, quindi, vi sono categorie dell’impiego pubblico o dei servizi che a pieno titolo possono e debbono rivendicare il riconoscimento di lavoro usurante. Così come non dobbiamo confondere l’infortunio con l’usura. Certo, un alto tasso di infortuni contribuisce all’usura, ma se il nostro mestiere è usurante lo è per altri motivi, per il fatto che l’edilizia è un settore nel quale la tecnologia ha potuto ridurre di poco la fatica fisica, che viene ad essere esercitata in condizioni spesso avverse, sia sul piano climatico, che delle condizioni di lavoro (basti guardare alla media impresa/addetti).

Tuttavia, come andiamo dicendo in Fillea da mesi, non dobbiamo farci soverchie illusioni sull’effettivo e concreto miglioramento della normativa. Dovremo, lì, provare a fare passi in avanti (ad esempio, per quanto ci riguarda, la norma esclude le figure classiche dei muratori e dei carpentieri). Ma il problema di fondo, per chi resterà fuori dagli usuranti, rimane quello di un’età di accesso al diritto di pensione che non vada oltre i 58 anni e che possa venire innalzato attraverso meccanismi di incentivazione non di penalizzazione. Avevamo apprezzato della riforma Dini il meccanismo di accesso flessibile alla pensione. Per il nostro settore resta un criterio assolutamente importante, del quale tenere conto nella ricerca in queste ore delle soluzioni tecniche.

 

Si inserisce qui l’altro grosso problema che ha la nostra categoria, assieme ad altre, quello della discontinuità del lavoro. Inutile negare che tra le categorie di lavoratori siamo una di quelle che dovrebbe provare a quadrare il cerchio, dato che dobbiamo difendere il diritto di accesso flessibile alla pensione, ma sul piano contributivo abbiamo problemi enormi. Lo andiamo dicendo da mesi: i nostri lavoratori a sessant’anni di età hanno maturato mediamente 28 anni di contributi. Allora per noi non esiste solo il nodo dell’età, ma anche quello del valore della pensione e questo spiega l’importanza del tavolo contiguo a quello della previdenza, sul quale abbiamo provato a spingere verso una riforma degli ammortizzatori che contribuisse, anche se solo in parte, a risolvere questo deficit. Ed è per questo che non possiamo e non dobbiamo sottovalutare quello che abbiamo ottenuto a quel tavolo, che per qualcuno può sembrare poco, ma poco non lo è per noi, a partire dall’aumento dell’indennità di disoccupazione e il suo valore ai fini pensionistici: vuol dire poter recuperare due, tre anni nel corso della vita lavorativa.

 

Ovviamente, ciò non esaurisce le ipotesi sulle quali la categoria a chiesto alla Confederazione di lavorare, proposte che abbiamo consegnato all’inizio del confronto, sia alla compagna Piccinini che al compagno Fammoni. Ma in quello che abbiamo ottenuto ritroviamo la volontà di considerare la condizione specifica di alcuni settori, quale il nostro, in misura maggiore di quanto non sia stato fatto negli anni passati. Da questi risultati ripartiremo, per tentare di estendere le coperture possibili sul piano previdenziale.

 

Voglio dire che questo è un settore che non si tira indietro nel provare a costruire soluzioni che non bussino solo alle casse degli altri. Su questo nodo del valore della pensione degli edili, ne ha discusso la Direzione ieri, abbiamo previsto anche la possibilità di costruire una soluzione contrattuale, uno strumento che, sulla scia dell’esperienza svolta in questi mesi sul fondo di previdenza complementare, possa contribuire nel giro di pochi anni e con i dovuti supporti legislativi, che vanno creati, ad “arricchire” il valore della pensione. Qualche compagno di più lunghe campagne in categoria, ha ricordato quanto questa avrebbe potuto essere una scelta opportuna nel momento in cui fu smontata l’anzianità professionale nell’imminenza del decollo della previdenza complementare, avvenuta poi, con dieci anni di ritardo.

 

Queste sono le considerazioni che come categoria abbiamo fatto sulla questione previdenziale, fin dal Direttivo dello scorso febbraio in Veneto, e con le quali abbiamo cercato di contribuire al confronto generale tenendo insieme visione generale e peculiarità di settore. Tralascio per brevità ogni altra considerazione che appartiene alla cronaca di questi giorni, poiché sarebbero ripetitive di cose già dette in altre sedi e sicuramente meno aggiornate di quelle che farà Epifani, che in queste ore sta seguendo il confronto con il Governo per provare a fare l’accordo.

 

Prima di dedicare l’ultima parte dell’introduzione agli altri due temi che erano all’ordine del giorno, anche se lo farò in modo proprio telegrafico, dato il tempo che ho già preso, vorrei concludere questo capitolo ricordando che del confronto con il Governo, per quanto ci riguarda, fanno parte altre questioni, che a settembre dovranno essere riprese.

Le questioni legate alla lotta contro il lavoro nero e irregolare che, dopo i primi positivi provvedimenti del Governo, deve essere consolidata. La recente denuncia del Prefetto Serra e della nostra categoria sulla situazione nella Capitale è solo un esempio (al quale potremmo aggiungere quella che riguarda Genova e gli intrecci tra appalti e illegalità)  di quanto ancora diffusissimo sia il dato della irregolarità e marchi una differenza netta tra quanto si afferma anche da parte dei costruttori nelle occasioni ufficiali e quanto siano diversi i comportamenti concreti.

 

Vi sono poi le questioni legate alla sicurezza. Ancora ieri la presa di posizione del Presidente della Camera Bertinotti di fronte agli ennesimi tre infortuni mortali di lunedì. Il bollettino gi guerra non cambia granchè. Ciò nonostante, Bombassei ha trovato il modo di attaccare il Testo Unico sulla sicurezza, considerandolo troppo punitivo per le imprese…

Vi sono poi le questioni legate alle opere infrastrutturali e al più generale mercato degli appalti, che pare entrato in una fase meno soleggiante di quella che abbiamo vissuto in questi anni. Vi sono qui due questioni che ci devono vedere impegnate: affermare il carattere sostenibile della grande infrastrutturazione, perché ciò è possibile, e dotare il Paese di una normativa adeguata a combattere la destrutturazione dei cantieri. Il Ministro Di Pietro pare impegnato su entrambi questi fronti, ma spetta a noi presidiarli fin da settembre.

Tra i Ministeri di nostra competenza, l’unico con il quale non si riesce nemmeno a dialogare è quello dei Beni Culturali. Dopo la vertenza sul restauro il disinteresse del Ministro Rutelli è proseguito (evidentemente occupato dalle grandi questioni politiche) e noi dobbiamo decidere come proseguire questa vertenza, che parla di un pezzo importante della nostra precarietà.

 

Tanto su questo problema che su quello delle infrastrutture avvertiamo la necessità di un maggior coordinamento tra le categorie interessate e gli stessi dipartimenti confederali. Basti dire che mentre il dibattito sulla riforma della contrattazione parla dell’ipotesi di accorpamenti fra grandi comparti, nel settore dei Beni Culturali la Funzione Pubblica ha siglato un Contratto Nazionale per un gruppo di poche centinaia di lavoratori che si occupa del restauro e della manutenzione di alcuni beni di proprietà della Chiesa, senza alcun dialogo con chi questa categoria la rappresenta già in un contratto collettivo nazionale, il nostro, creando evidenti contraddizioni nella stessa vertenza in corso.

 

 

3. La stagione dei contratti

 

La Direzione di ieri ha discusso dello stato di avanzamento dei cantieri contrattuali, sia in edilizia, che negli impianti fissi. Possiamo dire che il grosso del lavoro sulle piattaforme è stato fatto, anche con risultati apprezzabili. Mi limito qui a fare tre considerazioni, utili anche a contestualizzare il nostro lavoro con la discussione generale.

 

Nell’agenda delle questioni che vedono impegnato il sindacato con Governo e Confindustria da tempo è iscritta la revisione del modello contrattuale, nel quadro di un aggiornamento del protocollo sulla politica dei redditi. In questo quadro, si continua a rappresentare il sistema contrattuale come eccessivamente squilibrato a svantaggio del secondo livello di contrattazione, considerato da una parte degli osservatori, il livello più efficace per una giusta redistribuzione del reddito che premi il lavoro. Anche in questo caso insistiamo nel dire che rappresentare il mondo del lavoro come un universo indistinto oltre che essere sbagliato, non aiuta a capire come risolvere concretamente i problemi. Nel nostro caso, ad esempio, un conto è parlare del manifatturiero (impianti fissi), altro è parlare dell’edilizia. In questo secondo caso, ancor più del primo, appurato che nel reddito da ridistribuire non può esserci solo recupero del potere d’acquisto ma anche crescita dei salari, il Ccnl resta il principale strumento di distribuizione del reddito, poiché non esiste un secondo livello che possa intercettare e ridistribuire una produttività, già difficilmente misurabile. In edilizia si può anche aumentare la produttività, ma in ogni caso, essendo oggi lontani dall’epoca della revisione dei prezzi, ciò che può essere diviso nell’impresa è ciò che già la gara d’appalto ti ha assegnato attraverso l’offerta presentata, spesso al massimo ribasso.

E poi, con una media di poco inferiore ai tre addetti per azienda, l’unico secondo livello possibile in questo settore è quello provinciale, dove i vantaggi per i lavoratori non vengono distribuiti solo attraverso il salario (eet), non a caso definito dentro il Ccnl come tetto, ma anche con le prestazioni.

Questo modello ha funzionato e difficilmente potremmo immaginarne di più efficaci.

 

Per il nostro manufatturiero resta il grosso problema di una debolezza nostra a contrattare i processi organizzativi

 

L’altra considerazione sulla prossima stagione contrattuale riguarda la battaglia per la qualità, nostro asse centrale da molti anni. Da questo punto di vista permane lo scarto tra le azioni esterne che noi produciamo sul fronte della regolarità e della qualificazione del sistema e ciò che avviene in concreto. Nei cantieri edili la fotografia più nitida di questo contrasto è dato dal crescere negli anni degli addensamenti ai livelli più bassi, mentre si continua ad invocare maggiore professionalità e qualità. Sappiamo essere questa la risposta sbagliata alla ricerca di una riduzione dei costi da parte delle imprese, in un settore dove si continua a denunciare un costo del lavoro superiore di circa dieci punti rispetto al tradizionale manifatturiero.

Da un lato dobbiamo fare attenzione a dove potrebbe portare la discussione sulla detassazione del salario di secondo livello, che nella versione dei costruttori è pure decontribuzione, con il rischio di veder indebolito lo stesso sistema delle prestazioni contrattuali ed extra contrattuali erogate dalle casse edili.

Dall’altro, dobbiamo individuare uno strumento sufficientemente cogente in grado di fare da contrasto alla crescente dequalificazione degli inquadramenti e questo strumento non può che essere la formazione, scelta come leva per regolare l’inserimento e la mobilità sul lavoro, dunque, leva dell’incontro domanda-offerta. Dobbiamo dire che senza libretto formativo personale, esibito come prova dell’avvenuta formazione permanente, non si entra in cantiere e quando vi si entra lo si può fare solo sulla base della formazione certificata e del conseguente livello professionale acquisito.

Dobbiamo provare a ridisegnare il nostro sistema formativo in questo senso, investendo di più sull’unitarietà del sistema, che fa perno su Formedil nazionale, dunque, rinunciando anche a quote di titolarità, cioè, a quote di libera interpretazione territoriale della programmazione degli obiettivi (ognuno fa ciò che vuole…).

 

La terza considerazione riguarda la democrazia. Qui la faccio breve, perché il Direttivo ha già deciso per la Fillea. Per noi il pronunciamento dei lavoratori, prima e dopo, è un vincolo. Le modalità attraverso le quali esercitare questo vincolo vanno ricercate possibilmente assieme alle altre organizzazioni, ma sappiamo che questo sarà quasi impossibile. Che fare, dunque? Con Filca e Feneal faremo tutto quello che potremo fare assieme, dopodichè, là dove non arriveremo con gli altri faremo da soli, tra i nostri iscritti e senza chiudere le porte a tutti gli altri lavoratori.

 

Guardate che non dico nulla di nuovo, è quello che sempre abbiamo deciso di fare. Il problema non è decidere cosa fare, ma farlo veramente! La democrazia non è pane per interminabili discussioni accademiche, ma più semplicemente terreno di azione. Al prossimo Direttivo, dopo la presentazione delle piattaforme, auspico che la nostra discussione non sia ancora sul cosa fare, ma per valutare i tanti verbali delle tante assemblee, unitarie o di organizzazione che nel corso di queste settimane dovremo fare.

 

 

4. La prossima Conferenza di Organizzazione

 

L’ultima questione alla quale vorrei solo accennare rapidamente è lo svolgimento della prossima Conferenza di Organizzazione della Cgil. L’ultimo Direttivo della Confederazione ha approvato il percorso che porterà anche la Fillea a tenere questo appuntamento verso il mese di febbraio e dopo la pausa estiva il Direttivo tornerà a discutere dell’impostazione che daremo, per offrire al nostro percorso anche il contributo di un documento specifico di categoria che contenga gli obbiettivi verso i quali indirizzare la nostra discussione.

 

Mi limito solo ad alcune considerazioni generali. Per noi sarà un appuntamento importante poiché avrà molto il sapore di un bilancio consuntivo del lavoro svolto negli ultimi 7-8 anni. Voglio ricordare a coloro che non ne facevano ancora parte, che proprio il 18 luglio di sette anni fa questo organismo mi eleggeva in sostituzione della compagna Cantone, per avviare un percorso di ulteriore rinnovamento politico ed organizzativo che la precedente direzione della categoria aveva perseguito durante gli anni difficili di tangentopoli.

 

In questi anni abbiamo messo in campo un progetto di profonda trasformazione del nostro sindacato di categoria. Alla base della trasformazione organizzativa abbiamo messo un progetto politico, che ha cercato di interpretare i processi in atto nel settore. Sta a noi chiederci se tali processi sono irreversibili, oppure, dovremo considerarli frutto di una stagione particolare. La mia opinione è che indietro non si torna, perché quello che è accaduto nel settore delle costruzioni parla molto della società che cambia e noi dobbiamo considerare il nostro sindacato soggetto in grado di cogliere questo cambiamento e rappresentarlo in senso dinamico, senza subirlo.

 

La Fillea è troppo diffusamente considerata la categoria dei muratori, cioè, di un lavoro certo dignitoso, ma impropriamente considerato subalterno, se non inferiore al più tradizionale lavoro manifatturiero.

 

In questi anni ci siamo battito per fare della Fillea il sindacato di una nuova idea del costruire, il sindacato dello sviluppo sostenibile, dove al costruire si sommasse l’idea di una valorizzazione e di un recupero dei beni ambientali e culturali del Paese. Possiamo tornare indietro? Il grande tema sul quale sono chiamate a confrontarsi le società industriali, i grandi cambiamenti climatici impongono la centralità di un nuovo modo di produrre ed una categoria che fa del costruire, dell’uso del territorio e delle materie prime una delle sue principali ragioni d’essere non può non svolgere un ruolo d’avanguardia nel sostenere queste battaglie. Questo ci consente di sostenere con una visione equilibrata e compatibile l’urgenza di una dotazione infrastrutturale adeguata al recupero del gap che ci separa dal resto d’Europa.

 

Ci siamo, poi, battuti per una Fillea che assumesse la multiculturalità quale tratto distintivo della moderna globalizzazione, in un settore dove l’incontro tra etnie diverse rappresenta una realtà incontrovertibile. Un terzo degli immigrati iscritti alla Cgil viene dalla nostra categoria e noi dobbiamo sentire il peso della responsabilità che deriva dalla sfida congressuale di Pesaro, relativo alla costruzione del primo sindacato multietnico della Cgil. Anche da qui, si può tornare indietro? Domanda assolutamente retorica…

 

Abbiamo poi scelto di essere il sindacato non solo della forza lavoro strutturata, nel nostro caso degli iscritti alle Casse Edili, ma anche della precarietà sempre più diffusa nei nostri settori. Questa precarietà ci parla degli immigrati clandestini, ma ci parla anche di professioni alte e qualificate, come nel caso dei beni culturali, dove una moltitudine di giovani cerca nel sindacato un interlocutore in grado di rappresentare aspirazioni e bisogni non solo legittimi, ma in grado di offrire al Paese una risposta allo sviluppo di qualità, quello che fa la differenza nella competizione globale. Anche da qui, si possiamo tornare indietro?

Giorno dopo giorno ci siamo accorti di aver costruito una Fillea nuova, diversa da quella di 10-15 anni fa, nella quale alla tradizione si è sempre più sommata una innovazione che non si traduce in un conflitto a livello di rappresentanza, bensì in un arricchimento della stessa.

 

Il rinnovamento organizzativo, la cui manifestazione più evidente è nel ricambio generazionale, molto vistoso in diverse aree del nostro Paese, parla di questo cambiamento in termini positivi. Aver rinnovato ha presentato dei rischi e delle suspense, ma il bilancio complessivo è positivo, ci consente di affermare che quella scelta è stata giusta e mette nella condizione l’intera organizzazione di guardare con ansie minori a quel vuoto generazionale, che rappresenta l’assillo principale del nostro sindacato.

 

La nostra Conferenza di organizzazione dovrà rappresentare la sanzione definitiva di questa scelta, per consegnare ad un nuovo gruppo dirigente il futuro di questo sindacato. Abbiamo ancora dei limiti da superare. La Fillea troppo spesso viene ancora considerata una categoria chiusa, impenetrabile ed in parte questo è vero, come è vero che questo limite ha contribuito a far si che il settore e la categoria siano poco compresi in tanta parte della Cgil. Ma tutto ciò non fa giustizia del grande contributo che la Fillea può dare al dibattito della Cgil. Per questo dobbiamo scrollarci di dosso le remore ed i complessi che ci caratterizzano, per investire la dote di cui disponiamo nella vita della Confederazione. E dobbiamo farlo dimostrando di essere un gruppo dirigente in grado di mettersi in discussione e di favorire, con l’ingresso di nuove forze e di nuove mentalità, quel rinnovamento di cui abbiamo bisogno.

 

 

 

Via G.B. Morgagni 27 - 00161 Roma - Tel: ++39 06 44.11.41  fax: ++39 06 44.23.58.49  Home page

©Grafica web michele Di lucchio