L’aver dedicato
all’edilizia la settimana europea sulla sicurezza rappresenta la
consapevolezza che il settore sia dal punto di vista quantitativo che
per la gravità degli eventi rappresenta ancora uno dei settori più a
rischio del mondo del lavoro in Europa e ha davanti a sé la prospettiva
di un possibile, ulteriore peggioramento della situazione relativa alla
salute e sicurezza, dati i problemi che su questo campo sono presenti
nei paesi che daranno luogo all’allargamento dell’Unione.
In Italia la situazione
in edilizia rappresentata dai dati statistici ufficiali vede confermato
il trend in diminuzione degli infortuni generali, compresi quelli
mortali, anche se su questi ultimi si registra un preoccupante
rallentamento del trend.
E tuttavia il settore ha
nuovamente fatto ingresso nella cronaca quotidiana di queste settimane
per i tristi e brutali episodi di abbandono di lavoratori vittime di
gravi infortuni che in un caso hanno provocato la morte di un giovane
lavoratore.
Ciò che ha colpito
l’opinione pubblica e non poteva essere diversamente è stato questo
aspetto inedito, che segna il livello di inciviltà raggiunto in alcuni
cantieri del nostro Paese, il livello di caduta dei valori innanzitutto
etici e morali oltre ad i più elementari diritti delle persone che
lavorano.
Naturalmente per chi
segue l’edilizia quotidianamente episodi altrettanto gravi –per fortuna
non sempre a questo livello- sono all’ordine del giorno ed evidenziano
il contrasto tra una statistica positiva ed una condizione reale che
esprime in termini qualitativi un salto negativo preoccupante, anche
perché questa situazione non è più associabile alle condizioni esistenti
nelle aree tradizionalmente meno sviluppate.
Noi interpretiamo questo
salto di qualità come un campanello di allarme che segnala il pericolo
di una degenerazione in grado di indebolire se non di vanificare gli
sforzi che in questi anni sono stati compiuti nel campo della sicurezza
e che in parte hanno contribuito a determinare un abbassamento del
fenomeno infortunistico. Rischiano di segnalare il superamento della
soglia di tolleranza, dal momento che in discussione non è più il valore
di un oggetto o di un mezzo o di una procedura legata alla sicurezza,
quanto quello della persona stessa, ridotta essa stessa a puro oggetto
della catena produttiva.
Proprio per questo
occorre evitare in questa materia la diffusione di messaggi sbagliati,
che potrebbero indurre a pensare che la battaglia è vinta, che il
problema è sotto controllo, che la guardia può essere abbassata.
Abbiamo bisogno proprio
del contrario, di affermare l’opposto concetto che proprio in presenza
di una riduzione degli infortuni la nostra iniziativa deve ulteriormente
svilupparsi, sia per impedire una possibile inversione di tendenza, sia
per il fatto che le statistiche non possono essere lette rimuovendo il
dato che l’Italia e non solo nel settore delle costruzioni è agli ultimi
posti dell’Europa per infortuni e quindi che la riduzione del fenomeno
non solo è auspicabile ma è indispensabile che venga conseguito
attraverso obiettivi più ambiziosi, resi possibili purtroppo dai margini
più ampi che la nostra situazione rappresenta ed anche dal carattere
degli eventi infortunistici che testimoniano di quanto tante vite
potrebbero ancora essere risparmiate se fossero rispettate le più
elementari norme di sicurezza.
Ovviamente parliamo
degli infortuni sapendo che il fenomeno non può essere separato
dall’altro, altrettanto preoccupante delle malattie professionali dove
si registrano nuovi primati. Sono dunque le condizioni di lavoro
complessive il campo della nostra azione ed il tema della salute e
sicurezza debbono rappresentare il terreno primario sul quale verificare
la reale capacità di innovazione del nostro sistema produttivo.
Occorre lanciare
messaggi coerenti con questo obiettivo. E’ questa la ragione per la
quale le confederazioni sindacali e le stesse categorie del settore
hanno espresso fin dal primo momento forti perplessità sulle intenzioni
del Governo di modificare la normativa sulla sicurezza. L’incontro che
finalmente nei prossimi giorni dovrebbe tenersi servirà a chiarire
queste preoccupazioni e a conoscere meglio le reali intenzioni del
Ministero, ma è difficile sfuggire al rischio di esporre tale intenzione
ad una duplice lettura, in ogni caso non condivisibile.
Si cambia la norma
perché essa rappresenta un problema che ostacola il raggiungimento di
risultati ancora migliori nella lotta agli infortuni? Oppure, si cambia
la norma perché in presenza di un trend favorevole si può allentare la
presa?
In ogni caso vi è
contenuto un messaggio sbagliato che è quello dell’individuare nello
strumento della norma un aspetto problematico, mentre noi affermiamo che
i problemi della tutela della salute nei luoghi di lavoro non derivano
da una norma inefficace quanto da un livello di evasione dalla stessa
molto alta, che ha certamente cause diverse delle quali non si può fare
di un’erba un fascio, ma che non risiedono nella struttura della 626.
Non vogliamo dare
giudizi definitivi poiché nell’incontro previsto conosceremo meglio i
contenuti della proposta di Testo Unico, ma non sarebbe un messaggio
coerente con la battaglia da condurre in questo settore quello di una
ulteriore deresponsabilizzazione delle imprese, derubricando buona parte
degli obblighi di legge a norme di buona tecnica e a buone
prassi. E fin troppo evidente che il rischio calcolato, già oggi
largamente diffuso poiché poco probabile, di incappare in un controllo
ispettivo con la conseguente sanzione a fronte di un mancato rispetto
delle norme non potrebbe che venire ulteriormente incentivato dal fatto
che l’inosservanza delle norme di buona tecnica o buona prassi non
comporta reato contravvenzionale.
Così come ambigua e
pericolosa è la scelta di affidare agli enti bilaterali il compito di
certificare il rispetto della normativa, determinando una sorta di
conflitto di interessi tra controllore e controllato, facendo venir meno
una funzione che deve rimanere in capo allo Stato e non può essere
trasferita alle parti sociali.
Oltretutto su questo
tema dei controlli ispettivi siamo in presenza del dlgs 124/4 sulla
riforma dei servizi ispettivi sul quale non mancano ulteriori nostre
preoccupazioni per il rischio di indebolimento delle funzioni che è cosa
diversa ed ancora precedente al problema del loro rafforzamento
quantitativo, che pure esiste.
Così come non risulta
del tutto chiara la funzione del Rappresentante dei lavoratori per la
sicurezza, che a nostro giudizio non può che venire rafforzata nelle sue
funzioni, come peraltro affermato nelle direttive comunitarie.
Nel caso dell’edilizia
abbiamo dimostrato che l’efficacia delle iniziative per combattere i
fenomeni negativi come quello degli infortuni non risiede nella modifica
delle norme esistenti quanto nell’azione sinergica di tutti i soggetti
in campo.
Ciò a maggior ragione
perché nel settore delle costruzioni sarebbe veramente riduttivo
immaginare la lotta agli infortuni come una semplice politica
“settoriale”.
Si tratta al contrario
di una politica interdisciplinare ed è del tutto evidente, come
dimostrano i casi di cui si è occupata la cronaca, che non si potrebbe
condurre una battaglia vincente se non fosse innanzitutto quella per
combattere il lavoro nero, irregolare, per affermare la trasparenza e la
legalità nel settore.
In molti casi
l’infortunio, mortale o meno, è la conseguenza di un contesto lavorativo
totalmente privo di regolarità, caratterizzato da gravi ricatti e
condizionamenti, da un livello di clandestinità che altri settori non
conoscono.
Per questo l’iniziativa
per la trasparenza e la regolarità nel settore che ha visto protagonisti
le parti sociali e quelle pubbliche è il terreno migliore per dare
efficacia alla stessa azione per la sicurezza.
La firma del recente
avviso comune e con esso l’avvio della sperimentazione del Documento
Unico di Regolarità Contributiva (Durc) rappresentano strumenti utili a
ridefinire il profilo della regolarità e della legalità nel settore.
Così come le stesse modifiche al dlgs 276, fortemente volute dal
settore, a partire dalle organizzazioni sindacali, come quella relativa
alla comunicazione anticipata dell’avvenuta assunzione o quella del
mantenimento della responsabilità solidale delle imprese che appaltano i
lavori.
Si tratta dunque di
procedere con decisione verso l’attuazione e la sperimentazione di
queste decisioni, sapendo che l’efficacia delle stesse non potrà che
essere implementata se la complessa gestione della politica degli
appalti verrà ricondotta ad un governo unitario tra le forze che sul
territorio sono protagoniste dello sviluppo.
Non è questa la sede per
riproporre le nostre opinioni sugli interventi che la stessa
legislazione in materia di appalti ha subito. I fatti si incaricano di
dimostrare che tutto essi hanno prodotto fuorché la possibilità di fare
presto e bene, ossia realizzare in tempi brevi e con le
condizioni qualitative richieste le opere di cui questo Paese ha
bisogno.
Sta di fatto che la
catena legata alla vita di un cantiere, dall’apertura alla sua gestione
quotidiana, è rimasta quella tradizionale ed in alcuni casi si è
accentuata, con il ricorso sempre più esasperato a subappalti ed imprese
di sub-fornitura, questo anche nella realizzazione di opere complesse,
non solo nella piccola edilizia privata. Se non si interviene in questa
catena, che in alcune aree del Paese vive anche della variabile
criminosa, qualunque prospettiva di combattere per affermare condizioni
di vita e di lavoro nei cantieri più dignitose e nel rispetto dei
diritti, sarà del tutto illusoria.
Il cantiere rischia di
essere sempre più terra di nessuno, senza regole né leggi ed è questa la
vera battaglia da condurre e da vincere.
Le iniziative di cui
parlavo in precedenza vanno in questa direzione, ma vi è uno sforzo
maggiore che possiamo compiere, estendendo l’esperienza e la pratica
della concertazione e della contrattazione d’anticipo, in particolar
modo in presenza di una committenza pubblica.
Là dove questa pratica
ha potuto essere adottata, nei cantieri dell’alta velocità, nella
realizzazione di interventi di ampliamento dell’edilizia sanitaria, sono
state definite preventivamente le condizioni di sicurezza alle quali
vincolare l’apertura dei cantieri e i risultati in termini di
contenimento degli infortuni si sono visti.
Registriamo tuttavia una
difficoltà ad estendere questa pratica in modo diffuso e questo è
inammissibile nel caso delle istituzioni locali che spesso rappresentano
le stazioni appaltanti con le quali l’intero processo dell’appalto deve
misurarsi e che ancora più frequentemente assumono quale parametro per
orientare tale processo il massimo ribasso, che è fonte, come tutti
sanno, di quella compressione dei costi la cui prima vittima spesso è
quell’8,5% medio dei costi alla sicurezza.
Ecco perché sarebbe
importante che dalla settimana europea per la sicurezza uscisse una
indicazione chiara ricolta a tutte le istituzioni pubbliche affinché nel
governo degli appalti fosse istituitala pratica della concertazione
d’anticipo alla quale affidare il compito di assumere costi e parametri
legati alla sicurezza quali criteri selettivi prioritari nelle gare di
affidamento degli appalti.
Tutto ciò non è solo
buona amministrazione ma rappresenta un contributo importante a creare
quella cultura della legalità, della trasparenza e della sicurezza di
cui il Paese ha bisogno. Si dice spesso che la battaglia per la
sicurezza è innanzitutto una battaglia culturale ed in questo c’è una
grande verità e per questo uno degli sforzi principali delle parti
sociali è quello di rafforzare gli stessi interventi bilaterali
attraverso gli enti di formazione e i comitati paritetici territoriali
nel campo della formazione alla sicurezza.
Ma il problema culturale
è ancora più grande, perché non riguarda solo la cultura alla sicurezza
ma il valore stesso del capitale umano, delle risorse umane che sono la
principale risorsa dell’impresa. Quando si arriva al punto di poter
abbandonare un lavoratore sul ciglio di una strada o nei pressi di un
cassonetto della spazzatura dentro quella violenza etica e morale è
contenuto anche un disprezzo o uno scarso rispetto o una scarsa stima e
valorizzazione per il lavoro e la professione che si rappresenta e che
si esercita.
Per questo la prima cura
contro gli infortuni è la valorizzazione del proprio lavoro, è
l’investimento formativo sul contenuto professionale del proprio lavoro
e tutto ciò non è coerente con la ricerca esasperata di una cosiddetta
flessibilità che in molti casi è solo precarietà voluta semplicemente
per combattere la battaglia dei costi sul terreno più sbagliato che vi
sia.
La prima cura per gli
infortuni è la battaglia per l’innovazione delle imprese, per una
competizione svolta sul terreno dell’innovazione e della qualità. Il
semplice galleggiamento è il terreno più congeniale per un fenomeno che
misura forse più di ogni altro i ritardi del nostro sistema produttivo.
Roma 22 ottobre 2004