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Feneal-Filca-Fillea - Iniziativa Nazionale Unitaria sui temi del Restauro.

 

Roma, 18 aprile 2005 – Relazione introduttiva di Franco Martini

 

 

Con questa iniziativa le Organizzazioni Sindacali delle costruzioni intendono lanciare una campagna nazionale unitaria sui temi delle condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori che svolgono l’attività di restauro dei beni tutelati.

 

Perché questa iniziativa?

 

Innanzitutto perché le attività di restauro vengono svolte in larga parte da imprese edili e dunque si tratta di attività regolate dalle stesse norme legislative e contrattuali che operano nel campo dell’edilizia in generale.

In secondo luogo perché il settore dei beni tutelati rappresenta per il nostro Paese uno dei settori dove maggiori potrebbero essere le potenzialità di sviluppo economico e di una occupazione qualificata.

 

Ma come in altri settori anche in questo tali opportunità rischiano di essere sprecate per scelte sbagliate. Per questo la mobilitazione delle lavoratrici e dei lavoratori del restauro e di tutto il sindacato delle costruzioni si impone, soprattutto in una fase della vita del Paese caratterizzata da un forte declino quantitativo e qualitativo dei fattori dello sviluppo.

 

Lo slogan che caratterizza questa mobilitazione non è casuale (non tutti sanno cosa c’è sotto). I tanti visitatori dei nostri giacimenti culturali spesso non immaginano che dietro il prestigio ed il valore straordinario di tali opere si nasconde la storia di condizioni di lavoro ingiuste e di politiche della tutela e della valorizzazione contrarie agli obiettivi di un forte sviluppo dello stesso settore.

 

Le azioni di Tutela e Valorizzazione del patrimonio culturale ed ambientale sono affidate, dall’art.9 della nostra Costituzione, al Ministero per i beni e le attività culturali.

In Italia è il terzo Ministero in ordine di grandezza e gestisce oggi lo  0,17% delle finanze nazionali.

 

Abbiamo vissuto negli anni '90 una fase positiva, l'ultimo "Rapporto sull'economia della cultura in Italia 1990 - 2000", presentato pochi giorni fa a Roma, dimostra che nel decennio in questione il settore culturale ha registrato una crescita importante sostenuta soprattutto dai beni artistici, del 33%.

 

Un dato, tuttavia, decisamente inferiore al periodo precedente (come denuncia Italia Nostra) quando la spesa per la cultura era cresciuta del 90%.

 

Se mettiamo in rapporto questi dati con i tagli dei finanziamenti pubblici, che negli ultimi anni hanno interessato il settore, ci accorgiamo che al di là delle dichiarazioni fatte sull’importanza economica e strategica dei Beni Culturali nel nostro paese, il Governo in realtà non punta e non investe adeguate risorse per lanciare un’economia di settore.

 

Le politiche operate dal Ministero per incrementare l’afflusso di contributi privati, come la norma che consente la piena deducibilità dal reddito d’impresa delle erogazioni liberali nel settore dei beni culturali e dello spettacolo (art. 100, comma 2, lettera m, del testo unico delle imposte pubbliche), hanno prodotto nel 2004 un aumento del 11,7%.

 

Tale risultato non riesce tuttavia a bilanciare i tagli operati al settore dalla pubblica amministrazione.

 

La riduzione dei finanziamenti, per molti settori di competenza del Ministero quali, Patrimonio Storico-Artistico ed Etnoantropologico, Archeologia, Arte ed Architettura Contemporanea, Beni Librari ed Archivi, Beni Architettonici e del Paesaggio, si aggira intorno al 70%.

 

Si sono, ad esempio, quasi annullate le risorse disponibili per il settore dei Beni Architettonici e del Paesaggio.

Nella programmazione triennale 2004 – 2006, a questo settore erano stati destinati 267.353.267 euro, mentre nella programmazione triennale 2005 – 2007, sempre per lo stesso settore, risultano stanziati 70.222.798 euro, con una riduzione che si avvicina appunto al 70% .

 

Problemi analoghi registriamo per quanto riguarda gli interventi di conservazione che dovrebbero prevedere una coerente, coordinata e programmata attività di studio, prevenzione, manutenzione e restauro.

Attività destinate a limitare situazioni di rischio connesse al  bene culturale nel suo contesto, al controllo delle sue condizioni, al mantenimento dell’integrità e  dell’efficienza funzionale del bene e delle sue parti, al recupero dello stesso.

 

In data 18 gennaio 2005 il dipartimento per la RIO ha emanato la circolare numero 10 dove si legge che “ considerata l’insufficienza delle somme destinate a coprire le spese per le missioni sul pertinente capitolo di bilancio” invitano i responsabili degli interventi a prevedere tali spese nei quadri economici dei singoli lavori.

 

In sostanza si tolgono altre somme destinate ai lavori di restauro, a quelli di  scavo e  altri interventi per destinarle al pagamento delle spese necessarie per la conduzione dei lavori stessi, prima  gravanti su apposito capitolo.

 

Il concetto di conservazione sebbene distinto dalla valorizzazione, nell’attuale Codice dei beni culturali e del paesaggio, ne costituisce parte integrante e fondamentale.

 

Eppure dal 2000 ad oggi si è assistito ad una progressiva contrazione della spesa, come si deduce dai dati relativi ai finanziamenti destinati alla conservazione.

Nel 2004 si è infatti registrata una diminuzione degli investimenti pari al 30% su base nazionale rispetto all’anno precedente.

 

Vi sono inoltre alcuni aspetti critici nella gestione di tali fondi e nell’erogazione che ostacolano lo sviluppo produttivo all’interno del settore stesso.

L’eccessivo lasso di tempo intercorrente tra i finanziamenti e la stipula dei contratti, l’alto livello dei residui, l’eccessivo ricorso ad affidamenti diretti dei lavori ( con il Dl 22 gennaio 2004, n.30 la trattativa privata è sempre possibile al di sotto dei 500.000,00 euro) solo parzialmente giustificato dalla natura dei lavori stessi e una certa “elasticità” nelle formalità seguite per la pubblicità dei lavori da appaltare.

 

Ciò a cui stiamo assistendo non è un supporto di finanziamenti privati a quelli pubblici, ma la diminuzione di finanziamenti pubblici al settore cui si cerca di compensare con finanziamenti privati.

 

La scelta di tagliare così drasticamente i fondi non è giustificabile e corrisponde comunque ad una pericolosa deresponsabilizzazione da parte del governo verso un settore strategico come questo, cedendo di fatto il ruolo di programmazione organica della tutela e dell'offerta culturale, che gli compete, alle leggi del mercato.

 

Vale la pena ricordare che un mese fa il Ministro Giuliano Urbani, in un incontro con gli studenti dell'Università degli Studi di Trieste, ha spiegato che è necessario investire in cultura per attrarre turismo, ricordando che “…il solo turismo italiano genera il 12% del prodotto interno lordo, in una situazione di sotto utilizzo, una percentuale che si può raddoppiare attraverso un'offerta combinata turistico-culturale.

Nessun altro settore produttivo può fare un salto di tale grandezza e promuovere assorbimento del lavoro. E' l'unico comparto che prospetta una moltiplicazione delle risorse”.

 

I segnali che ci giungono non sono tuttavia in linea con queste affermazioni.

 

Aggiungiamo inoltre che la valorizzazione del nostro patrimonio culturale dovrebbe significare soprattutto promozione di cultura, che non può passare esclusivamente attraverso mostre-evento ed attrazioni turistiche che rispondono alle esigenze di un mercato privato ma non sono sufficienti a creare un’ opportuna crescita della cultura nel nostro paese.

 

Il numero dei visitatori nei musei non aumenta, oggi non basta avere un patrimonio culturale unico, ma bisogna avere la capacità di renderlo competitivo nella fruizione con i grandi sistemi museali degli altri paesi europei.

 

Prima di essere un’offerta la cultura va costruita  attraverso politiche di sviluppo della stessa, puntando al  potenziamento delle professionalità che si intendono utilizzare nel settore e quindi; allo studio, alla ricerca, ad una formazione che promuova la conoscenza del patrimonio culturale e permetta alla costruzione di profondo senso civico.

Tutto ciò va perseguito assicurando migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del Patrimonio.

 

Sono molti oggi i motivi di preoccupazione nell’esercizio di tutela dei Beni Culturali svolto dal Ministero. A quelli già elencati si sommano il rischio di cartolarizzazione, il reiterarsi dei condoni, il continuo clima di allerta alimentato da provvedimenti annunciati e poi cancellati, la legge del silenzio-assenso.

 

Mai come in questo momento avremmo bisogno di una ridefinizione complessiva degli assetti del settore, di un’azione decisa che guidi il cambiamento. E’ quanto mai necessario modernizzare il sistema dei beni culturali, puntando però ad un assetto definitivo, stabile e funzionale.

 

E’ necessario che l’intero sistema venga preso in considerazione anche come sistema produttivo che promuove cultura.

Bisogna puntare ad un insieme di regole che pur tenendo fermi i principi di tutela, conservazione e fruizione, garantiscano alle imprese ed agli operatori del settore il riconoscimento della professionalità, dei diritti e delle tutele che ad ogni lavoratore devono essere garantiti.

 

La questione dei Restauratori

 

Il Ministero calcola che non vi siano in Italia più di 600 restauratori di beni culturali, mentre secondo una stima sindacale il numero di questi lavoratori si aggira intorno a 30.000, poiché va considerato il numero dei cosiddetti collaboratori restauratori dei beni culturali, un esercito che il Ministero tende ad ignorare.

 

Se è vero che il settore è cresciuto e non mancano laureati in cerca di sbocchi occupazionali, è altresì evidente che l’incontro tra domanda ed offerta non avviene in modo funzionale.

Le principali disfunzioni nascono, oltre che dai motivi sopra indicati, da un problema di fondo che è quello della mancanza di strumenti di riconoscimento omogenei delle professionalità operanti nel settore.

 

Un problema che investe tutte le figure che operano nei beni culturali; dall’Archeologo, allo Storico dell’Arte, al laureato in Beni Culturali, al Tecnologo della Conservazione fino ad arrivare al Restauratore.

 

Per quest’ultimo il problema  è ulteriormente complicato dalla mancanza di percorsi formativi chiari e dalla totale assenza di standard formativi di riferimento.

 

Il problema dell’individuazione di chi è restauratore e chi no è certamente uno dei grandi nodi nel settore della conservazione. Tale problematica, scaturita dalla necessità di garantire interventi di alta qualità, sulle opere d’arte che costituiscono il nostro patrimonio culturale, ha catalizzato l'interesse e la discussione degli ultimi anni all'interno del mondo del restauro e della conservazione.

 

Il problema della qualificazione dei soggetti esecutori dei lavori di restauro sui beni tutelati risponde alla necessità di garantire un’elevata qualità degli interventi di conservazione.

Bisogna tuttavia rilevare che alle polemiche in corso, tra gli operatori del settore, su chi può essere definito restauratore e chi no, non ha corrisposto da parte delle Istituzioni un atteggiamento responsabile che portasse, attraverso un’analisi concreta, a fare chiarezza sulle professionalità necessarie al settore, ritardando di fatto l’elaborazione di standard formativi che permettessero di realizzare corsi di studio uniformi per tipologia e titoli rilasciati.

 

Esistono in Italia tre Istituti statali, che dipendono direttamente dal Ministero per i beni e le attività culturali; l’Istituto Centrale per il Restauro, l’Opificio delle Pietre Dure, l’Istituto Centrale per la Patologia del Libro (l’Istituto per il Restauro del Mosaico sta cercando di ottenere da anni il riconoscimento ufficiale del titolo).

 

Solo i primi due Istituti sono attivi e formano in tutto 36 restauratori all’anno. I titoli rilasciati sono gli unici riconosciuti dalle Soprintendenze per il conseguimento della qualifica professionale di restauratore. 

 

Il titolo di “Restauratore dei beni culturali” rilasciato da questi Istituti costituisce titolo valutabile nei concorsi pubblici e negli appalti (il titolo di restauratore, come leggiamo all’art.4, comma 1, punto a) del DM n. 294, era fondamentale anche per qualificare le imprese che lavorano nel settore).

Tale situazione ufficiosa fino al 2000, diviene ufficiale con l’entrata in vigore del DM n. 294 e successive modificazioni.

 

Bisogna tuttavia sottolineare che l’esiguo numero di Restauratori diplomati nel nostro paese non è sufficiente, e non è stato sufficiente, a soddisfare la richiesta di lavoratori nel settore.

 

E’ un fatto che in Italia negli anni passati (ed escludo dall’analisi gli ultimi anni caratterizzati da pesanti tagli al Ministero dei BB.CC. nelle finanziarie) abbiamo assistito ad un crescita del mercato in questo settore, cui ha corrisposto, anche senza prendere in considerazione il momento straordinario del giubileo del 2000, una richiesta di figure professionali adeguate.

 

E' a partire dagli anni ’80, con l’avvio dei grandi cantieri di restauro, che iniziano a svilupparsi centri di formazione in restauro. La mancanza di standard formativi di riferimento ha portato alla realizzazione di corsi dalle caratteristiche più varie, per durata, programmi di studio e titoli rilasciati.

 

La maggior parte dei lavoratori si è formata in questi anni in scuole private, alcune prive di qualsiasi riconoscimento ufficiale, altre dei veri e propri corsi di formazione professionali indetti o riconosciuti dalle regioni in base alla Legge 845.

Aggiungiamo a questa lista anche molti lavoratori privi di formazione specifica, che hanno acquisito la loro professionalità direttamente sul cantiere, in alcuni casi attraverso contratti di formazione lavoro.

Tutti questi lavoratori non sono mai stati considerati, dalle Soprintendenze e dalle imprese del settore, restauratori di beni culturali malgrado i titoli ottenuti dai diversi centri di formazione.

 

Nel 2000 il Ministero per i beni culturali ed ambientali (attuale Ministero per i beni e le attività culturali) emana il Decreto Ministeriale n. 294 del 3 agosto 2000, ovvero un regolamento concernente l’individuazione dei requisiti di qualificazione dei soggetti esecutori dei lavori di restauro e manutenzione dei beni mobili e delle superfici decorate di beni architettonici (il Decreto verrà in parte modificato ed integrato dal DM n.420 del 24 ottobre 2001).

 

La legittimità e la necessità da parte del Ministero dei BB.CC. di stabilire regole di accesso per le imprese che operano nel settore dei beni culturali e più specificatamente nel restauro e conservazione dei beni mobili e delle superfici decorate di beni architettonici, non è ovviamente messa in discussione.

 

Vorremmo tuttavia sottolineare alcuni problemi prodotti nel settore dall’entrata in vigore del DM n.294 (e successive modificazioni) e di fatto riproposti, e comunque non risolti, nel nuovo Codice dei beni culturali.

 

L’elaborazione di profili professionali e di regole per la qualificazione dei soggetti esecutori di lavori di restauro, da parte del Ministero dei BB.CC., sono tardive e si inseriscono in un contesto caratterizzato da professionalità disomogenee tra loro, per titoli di studio e modalità di inserimento nel mercato del lavoro.

 

Prima dell’uscita dei DM vi era una sola figura professionale di riferimento per il Ministero dei BB.CC., il restauratore.

Rientravano in questa figura coloro che erano usciti dagli Istituti Statali (ICR, OPD,ICPL), o lavoratori che “in qualche modo” erano riusciti ad ottenere lavori di restauro e manutenzione dei beni mobili e delle superfici decorate di beni architettonici dalle Soprintendenze, ottenendo così,  negli anni, un accreditamento professionale presso lo stesso Ministero.

E’ un fatto che il ricorso alla discrezionalità, da parte delle Soprintendenze, nella scelta di soggetti esecutori di lavori di restauro, ha spesso determinato per molti un accesso alla professione attraverso sistemi poco chiari e comunque non aperti a tutti.

 

Attorno ai restauratori gravitavano una serie di lavoratori non meglio definiti, manovalanza a buon mercato, ricattabile dai datori di lavoro perché privi di alcun riconoscimento professionale, esecutori materiali dei lavori di restauro.

Rientrano in questo secondo gruppo tutti quei lavoratori che si sono formati presso scuole private con o senza riconoscimento regionale.

 

Questa situazione è stata lasciata priva di alcuna forma fino all’entrata in vigore del DM 3 agosto 2000, n. 294  come modificato dal DM 24 ottobre 2001, n. 420.

Nel DM vengono stabilite gerarchie, termini e titoli necessari per essere restauratore di beni culturali e quelli per diventare collaboratore restauratore di beni culturali.

 

Dovendo normare una situazione completamente priva di regole ed un settore caratterizzato sia da lavoratori in possesso di titolo di studio specifico, sia da lavoratori formatisi direttamente sul cantiere, il legislatore si è visto costretto a  stabilire delle norme a regime e delle disposizioni transitorie.

 

Con il Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n.42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio), viene abrogato il DM n. 294/2000 e successive modificazioni, ma vengono riprese, all'Art.182, le disposizioni transitorie, lasciando pertanto aperti tutti i problemi ad esse connessi.

 

E’ evidente che il fatto di aver definito i due profili professionali è certamente un vantaggio per tutti quei lavoratori che fino ad oggi hanno vissuto in una situazione di anonimato. Tuttavia il sistema di certificazioni elaborato dal Ministero e le interpretazioni da questo date ad alcuni passi della normativa rischiano di escludere dal settore moltissimi lavoratori.

 

Si è inoltre vanificata la speranza che, con il nuovo Codice dei beni culturali, si potesse mettere fine a questa vicenda con soluzioni che non mortificassero il settore e soprattutto valorizzassero le competenze e le professionalità di tutti i lavoratori fino ad oggi coinvolti nel campo della conservazione.

 

Da tutto ciò nascono le ragioni della mobilitazione che oggi viene lanciata

 

Infatti, è in via di pubblicazione, da parte del Ministero dei BB.CC., un nuovo Decreto nel quale vengono individuati quattro profili professionali:

 

·  Il  Restauratore conservatore di beni culturali

·  L’Operatore qualificato sui beni culturali

·  L’Operatore specializzato sui beni culturali

·  Altre attività complementari e integrative di conservazione dei beni culturali e delle superfici architettoniche decorate.

 

Il Progetto di Decreto definisce per il momento solo la figura del Restauratore conservatore di beni culturali mobili e superfici decorate di beni architettonici, mentre individua solo i contenuti essenziali delle competenze degli altri operatori.

L’approfondimento di questi ultimi profili di competenza viene rimandata ad un successivo Decreto da concordare con le Regioni.

 

Alcuni rappresentanti  della commissione di studio che sta lavorando alle norme attuative previste dall’art. 29 del Codice dei beni Culturali, in occasione del convegno su “La formazione dei restauratori nel Nuovo Codice e l’avvio del nuovo Centro per la Conservazione ed il Restauro “La Venaria Reale” tenuto il 9 aprile scorso a Ferrara, nell’ambito nella XII edizione del Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali ed Ambientali, hanno sostenuto che la difficoltà a definire i profili di competenza per le figure che svolgono attività complementari al restauro o altre attività di conservazione, sono dovute; alla difficoltà di definirle intrinsecamente ed al fatto che l’offerta formativa è affidata, per alcune di queste all’Università,  mentre per altre alle Regioni. 

 

Secondo il nuovo Titolo V della Costituzione, infatti, viene demandata alle Regioni la formazione professionale. Spetta dunque a queste, anche nelle attività di conservazione,  la formazione delle figure che svolgono un ruolo secondario e caratterizzate da relativa incompletezza, capacità operativa e da relativa capacità tecnica.

Questi profili li formano le Regioni, mentre per il Restauratore conservatore il Ministero per i beni e le attività culturali “….se si riuscirà ad attuare in tempi brevi l’art. 29 si saprà chi è restauratore…”.

Insieme ai profili di competenza si stanno elaborando anche i commi 8 e 9 dell’art.29, cioè gli standard formativi per il Restauratore conservatore per il quale è previsto un corso di laurea magistrale quinquennale (di 8.000 ore, pari a 300 crediti formativi).

Non sono previsti percorsi formativi integrati, pertanto la formazione degli operatori che svolgono attività complementari al restauro e quella dei restauratori conservatori non saranno percorsi in qualche modo ricongiungibili.

E’ stato anche anticipato che i  numeri per accedere alla formazione pubblica rimarrà limitato, mentre sarà possibile aumentare il numero dei restauratori attraverso l’apertura di centri di studio pubblici o privati che siano accreditati presso lo Stato.

 

Molti sono gli aspetti di questa Proposta di Decreto che non condividiamo:

 

in primo luogo colpisce il fatto che è del tutto scomparsa la figura del Collaboratore restauratore di beni culturali.  Al suo posto è stato inserito l’Operatore qualificato sui beni culturali.

 

Si è puntato ad una terminologia del tutto generica, chi è l’Operatore qualificato di beni culturali? Che attinenza ha con le attività di conservazione e restauro? E ancora non si potrebbe definire Operatore qualificato di beni culturali chiunque lavora in questo settore; la guida turistica, il custode di museo, l’operaio addetto allo scavo archeologico, e così via?

 

Il contenuto del profilo è basso. Viene di fatto affiancato al Restauratore conservatore (figura apicale) una figura con bassissimi contenuti professionali, come indicato dalla stessa commissione a Ferrara, quando parla di figure che svolgono un ruolo secondario e caratterizzate da relativa incompletezza, capacità operativa e da relativa capacità tecnica.

 

Va inoltre evidenziato che il termine qualificato nel CCNL, da poco rinnovato tra le nostre OO.SS. e le imprese,  è inferiore allo specializzato.

Per queste figure  nel CCNL si è previsto un inquadramento che va dal 4° livello, fino al 6°, tenendo in considerazione l’attività realmente svolta in cantiere da questi lavoratori.

 

Al comma 6, art. 29 del Dl n.42/2004, si legge che ”…gli interventi di manutenzione e restauro su beni culturali mobili e superfici decorate di beni architettonici sono eseguiti in via esclusiva da coloro che sono restauratori di beni culturali ai sensi della normativa in materia”.

 

Siamo assolutamente convinti che la progettazione dell’intervento di restauro debba essere realizzato da figure che abbiano compiuto un adeguato percorso di studi e per tanto in grado di mettere in atto un complesso di azioni che limitino i processi di degradazione dei materiali costitutivi dei beni assicurandone la conservazione.

 

Tuttavia riteniamo che, diversamente dai precedenti Decreti Ministeriali, l’attuale Decreto non punti ad una crescita delle professionalità presenti nel settore, atteggiamento che a nostro avviso non salvaguarda la qualità degli interventi di conservazione che dovrebbero prevedere, in tutta la filiera del restauro, figure di alto livello (ricordiamo ad esempio che per il Collaboratore restauratore di beni culturali era previsto, nel DM n.420, un percorso di Laurea triennale o l’Accademia di belle arti).

 

Inoltre la descrizione delle competenze professionali previste per la figura dell’operatore qualificato di beni culturali non corrisponde all’attività fino ad oggi svolte dalle figure di collaboratori restauratori nei cantieri e nei laboratori di restauro, dove hanno sempre svolto, sotto le indicazioni metodologiche di un restauratore accreditato presso le Soprintendenze, tutte le operazioni di restauro conservativo, talvolta gestendo interamente il cantiere.

 

D’altra parte basta fare un semplice calcolo: se dalle scuole di Alta Formazione del Restauro sono usciti dal dopo guerra  ad oggi circa 1300 restauratori, come si può pensare che in 65 anni  per svolgere tutti i lavori di restauro fin’ora eseguiti sul territorio nazionale sia stato sufficiente questo esiguo numero di operatori?

Chi ha lavorato nei cantieri? In che modo?

 

Noi pensiamo che a tutte queste figure va riconosciuto il ruolo svolto in tutti questi anni a sostegno della salvaguardia del nostro patrimonio culturale e soprattutto che, per il futuro, vengano chiariti formalmente profili di competenza e standard formativi di riferimento.

 

Rimandare a nuove, future, disposizioni la risoluzione di un problema che riguarda moltissimi lavoratori, o futuri lavoratori, significa mantenere una situazione di ambiguità che non risolve le già problematiche condizioni di lavoro e soprattutto ripropone situazioni di sfruttamento che si fondano sulla logica del “ci sei, ma non ci dovresti essere”.

 

A tutte queste considerazioni dobbiamo aggiungere che non è chiaro, a parte il riproporsi del numero chiuso che comprendiamo, quanti Corsi di laurea magistrale per restauratore conservatore di beni culturali  verranno attivati. Auspichiamo che almeno ogni regione abbia il suo corso di laurea altrimenti si prospetterebbe una pericolosa apertura ai privati della formazione i cui costi, come dimostrano oggi i corsi privati con riconoscimento regionale, non sono accessibili a moltissimi giovani.

 

Infine nulla più viene detto riguardo all’applicazione delle disposizioni transitorie, riprese dall'art. 182 del Nuovo Codice, ovvero quelle norme che stabiliscono i requisiti necessari, a tutti i lavoratori che si sono formati prima dell’entrata in vigore del DM n.420/01, per conseguimento della qualifica di  restauratore di beni culturali o di collaboratore restauratore di beni culturali.

 

Art.7 - Restauratore di beni culturali

 

2. Per restauratore di beni culturali s'intende altresì colui che alla data di entrata in vigore del presente regolamento:

a)       ha conseguito un diploma presso una scuola di restauro statale o regionale di durata non inferiore a due anni e ha svolto attività di restauro dei beni stessi, direttamente e in proprio ovvero in rapporto di lavoro dipendente o di collaborazione coordinata e         continuativa con responsabilità diretta nella gestione tecnica dell'intervento, con regolare esecuzione certificata da parte dell'autorità preposta alla tutela del bene o della superficie decorata, per un periodo di tempo almeno doppio rispetto a quello scolare mancante, e comunque non inferiore a due anni;

b)      ha svolto attività di restauro dei beni predetti, direttamente e in proprio ovvero in rapporto di lavoro dipendente o di collaborazione coordinata e continuativa con responsabilità diretta nella gestione tecnica dell'intervento, per non meno di otto anni, con regolare esecuzione certificata   dall'autorità preposta alla tutela dei beni sui quali è stato eseguito il restauro;

c)       ha conseguito un diploma presso una scuola di restauro statale o regionale di durata non inferiore a due anni ovvero ha svolto attività di restauro di beni mobilio superfici    decorate per un periodo almeno pari a quattro anni, direttamente e in proprio ovvero in rapporto di lavoro dipendente o di collaborazione coordinata e         continuativa con        con responsabilità diretta nella gestione tecnica          dell'intervento, con regolare esecuzione certificata dall'autorità di tutela, ove ne venga accertata l'idoneità o venga completato il percorso formativo secondo   modalità stabilite con decreto del Ministero per i beni e le attività culturali, da adottarsi entro il 31 dicembre 2001.

 

Tali disposizioni hanno dato spazio a numerose problematiche che vanno dall'interpretazione di alcuni passi della norma, alla possibilità effettiva per i lavoratori di conseguire le certificazioni ed in ultimo i tempi di attuazione (stiamo ancora aspettando il Decreto del Ministero che doveva uscire entro il 31 dicembre 2001).

 

Abbiamo assistito in tutti questi anni ad una forte resistenza delle imprese a certificare il lavoro svolto, dai dipendenti o dai collaboratori, adducendo come motivazione che non vi è nelle disposizioni transitorie alcun vincolo alla certificazione per il datore di lavoro. Ne consegue che, in assenza di un titolo di studio riconosciuto, i lavoratori si trovano nell’impossibilità di farsi riconoscere gli anni di lavoro svolti nel settore come dipendenti o collaboratori (così previsto al punto b), c), del comma 2, dell’Art. 7) dimostrando di aver svolto “… attività di restauro dei beni predetti, direttamente e in proprio ovvero in rapporto di lavoro dipendente o di collaborazione coordinata e continuativa con responsabilità diretta nella gestione tecnica dell'intervento, per non meno di otto anni, con regolare esecuzione certificata dall'autorità preposta alla tutela dei beni sui quali è stato eseguito il restauro”.

 

Resistenza delle Soprintendenze a rilasciare “… regolare esecuzione certificata dall’autorità preposta alla tutela dei beni sui quali è stato eseguito il restauro” a tutti quei lavoratori che hanno potuto documentare come dipendenti, e quindi con dichiarazione del datore di lavoro, di avere avuto una “…responsabilità diretta nella gestione tecnica dell’intervento”.

 

E comunque in generale la difficoltà, dopo tanti anni, a recuperare certificazioni presso aziende che in molti casi non sono più sul mercato o a rintracciare Direttori dei Lavori magari già in pensione.

 

Legislazione di riferimento

 

Con la pubblicazione del DM n.294 e successive modificazioni, il Ministero per i beni e le attività culturali ha intrapreso un percorso nella direzione della specialità per quanto riguarda il restauro ed in particolare il restauro di beni mobili, con l’intento specifico di fissare alcuni punti fondamentali per la qualificazione delle imprese operanti nel settore.

L’affidamento degli appalti nel settore dei beni culturali è regolamentato da più fonti:

 

·              Tutto ciò che fa riferimento alla definizione di restauro, alla progettazione, alla scelta del contraente è disciplinato dal regolamento generale della legge Merloni (L11 febbraio 1994, n. 109) vale a dire il Dpr 554/1999 e più precisamente dagli articoli 212 e seguenti.

Nel 2002, sempre nell’intento di difendere la specificità dell’attività in un settore estremamente specialistico sia per professionalità richieste che per modalità di intervento, entra in vigore la Legge n. 166/02 del 1 agosto 2002, successivamente modificata dal Decreto Legge 30 del 16 gennaio 2004.

·              L’aspetto della qualificazione in senso stretto delle imprese è invece oggetto specifico del DM n. 294 del 3 agosto 2000, in parte modificato ed integrato dal DM n.420 del 24 ottobre 2001, che detta una disciplina speciale rispetto a quella generale (sempre sulle qualificazioni) posta dal Dpr 25 gennaio 2000, n. 34.

·              Con il Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) vengono di fatto abrogati il DM n. 294/2000 e successive modificazioni.

Al comma 7, dell’Art.29, si legge che “I profili di competenza dei restauratori e degli altri operatori che svolgono attività complementari al restauro o altre attività di conservazione dei beni culturali mobili e delle superfici decorate di beni architettonici sono definiti con decreto del Ministero adottato ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, d’intesa con la conferenza Stato-regioni”.

Vengono tuttavia salvate, all’Art.182 dell’attuale Codice dei beni culturali, le disposizioni transitorie contenute nei due già più volte citati DM, precisamente al comma 2, punti a), b), c) dell’Art.7.

 

 

 

Sono queste, dunque, le ragioni che hanno portato le organizzazioni sindacali di categoria a promuovere assieme alle lavoratrici e lavoratori del settore la mobilitazione nazionale che oggi viene presentata:

 

·              Sviluppo del settore Beni Culturali in Italia

·              Tutela e valorizzazione delle figure professionali

·              Attuazione delle norme contrattuali recentemente approvate

 

In tutto il Paese e con particolare attenzione nelle sue principali città d’arte faremo passare questa iniziativa itinerante, una sorta di carovana delle restauratrici e dei restauratori ed in ognuna delle tappe previste diffonderemo il materiale informativo, distribuiremo le 30.000 cartoline che dovranno essere recapitate al Ministero, promuoveremo l’interessamento delle Istituzioni Locali e Regionali, delle Associazioni di Categoria e professionali, degli organi di informazione.

 

Soprattutto parleremo ai cittadini, ai giovani, alle tutte le persone che incontreremo, per affermare l’idea che la promozione delle attività culturali è una delle principali leve per lo sviluppo ed il progresso della nostra economia e della società. La cultura è ricchezza ma può al tempo stesso produrne di nuova, per aiutare la crescita di un Paese che vive il suo declino non solo come fenomeno quantitativo, ma soprattutto qualitativo.

 

Per questo nella protesta e nella mobilitazione dei restauratori non vi sono solo ragioni eminentemente categorialistiche, legittime e giuste, ma vi è in più la capacità di saldare interessi categoriali con quelli più generali del Paese.

Per questo si tratta di una iniziativa di tutto il sindacato, che il sindacato sosterrà coerentemente fino al raggiungimento degli obiettivi, come sempre ha fatto quando questi obiettivi parlavano di progresso, di qualità, di sviluppo del Paese.

 

 

 

 

 

Roma, 18 Aprile 2005

 

 

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