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Cgil

 

Conferenza di Organizzazione CGIL Intervento di Franco Martini

A Roma dal 29 al 31 maggio, davanti a 950 delegati, Guglielmo Epifani e Carla Cantone elencano gli obiettivi. Dal territorio ai giovani, dalla legalità alla contrattazione.

Intervento di Franco Martini.

 

 

 

Intervento di Franco Martini

Conferenza di Organizzazione Cgil.

Roma 29-30-31 Maggio 2008

 

Credo che ognuno di noi si chiederà quale traccia di sé lascerà questa Conferenza di Organizzazione nel nostro lavoro dei prossimi giorni.

La domanda non deve apparire retorica perché, se non vogliamo essere ipocriti, dobbiamo ammettere che il suo percorso è stato accompagnato anche da qualche sarcasmo, da un po’ di scetticismo, per quella che è stata definita “un po’ più di una Conferenza di Organizzazione e un po’ meno di un Congresso”.

 

Questo gruppo dirigente deve assumersi la responsabilità di non sprecare l’occasione di questa Conferenza. E questa non dipende solo dal documento che approveremo alla fine (perché di carte ingiallite è molto lastricata la nostra strada…).

Il problema è di tradurre quel documento in alcuni obiettivi, che già il prossimo Congresso dovrà essere chiamato a verificare. Non può essere che oggi decidiamo di andare in una direzione e poi verificare, tra due anni, di essere ancora al palo delle nostre discussioni infinite, senza che il principio di responsabilità venga assunto come principio regolatore dell’intero gruppo dirigente della Cgil.

 

Le cose che ci proponiamo di fare oggi non sono cose impossibili a farsi, sono tutte cose fattibili; in alcuni casi avrebbero già dovuto esserlo da molto tempo.

Occorre per questo non costruirci alibi. Spesso capita di sentire che di fronte ad un evento particolarmente significativo dovremmo convocare un congresso straordinario. Lo abbiamo sentito dire durante la discussione sul protocollo del 23 luglio 2007, più recentemente in occasione dell’accordo unitario sulla riforma del modello contrattuale, per non parlare dello scenario politico venutosi a creare dopo le elezioni di aprile.

Questa non è un’organizzazione che soffre di carenza di discussione, anzi, noi dedichiamo molto del nostro tempo a discutere tra noi cosa sarebbe bene fare; questa è un’organizzazione che dedica molto meno tempo a decidere come farle queste cose, come ridurre le distanze tra il dire e il fare.

Nel frattempo, il mondo va avanti, incurante dei nostri tempi di metabolizzazione e la distanza che continua a separare il nostro dire dal nostro fare è la distanza che cresce tra noi e i mondo reale. Questo è il vero rischio che abbiamo davanti ed è per questo che non possiamo perdere questa importante occasione.

 

Questa Conferenza, nel ribadire l’obiettivo politico del Congresso, Riprogettare il Paese, conferma il nesso inscindibile tra politica ed organizzazione.

L’organizzazione è lo strumento per raggiungere lo scopo, il progetto politico, non potrà mai essere il fine della nostra azione. Anche per questo non può che essere considerato un campo di sperimentazione. Non si può stare fermi per paura di sbagliare. Bisogna provare, anche sbagliando, per verificare se le scelte sono giuste.

Se così non fosse, non potremmo mai cogliere l’implicita conseguenza che l’obiettivo di riprogettare il Paese pone direttamente a noi. Anche questo lo abbiamo detto al Congresso, per riprogettare il Paese occorre riprogettare il sindacato. Non si può rivendicare solo agli altri il cambiamento, senza la capacità di rimettere in discussione noi stessi, con tutte le nostre certezze assolute.

 

Dopo il voto di aprile si è detto- giustamente- tra le altre cose che il Paese è diviso, in preda agli egoismi localistici e corporativi, che ha perduto la sua coesione sociale, etica, morale.

Noi, che giustamente denunciamo questa condizione, con la quale impatta il nostro agire quotidiano, dobbiamo interrogarci sul nostro livello di coesione. La nostra coesione si chiama confederalità, il valore della conferderalità racchiude in sé quelli della solidarietà, dell’unità, dell’equità: La confederalità è quel valore che tiene insieme, che mi fa dire che il tuo problema riguarda anche me, che, soprattutto, sta dalla parte dei più deboli, che assume la difficoltà degli altri come questione che appartiene all’insieme della Confederazione.

Dobbiamo domandarci quanto il nostro agire sia stato realmente ispirato al valore della Cofederalità?! E se vogliamo essere sinceri tra noi dobbiamo riconoscere che così non è stato nei momenti più importanti delle discussioni che abbiamo vissuto nei mesi che abbiamo alle spalle, nonostante quello che avevamo detto al Congresso!

 

Un sindacato che si attorciglia per settimane e mesi nella discussione sul superamento dello scalone e non si rende conto che esiste un mondo del lavoro, sempre più diffuso, che non conoscerà mai i requisiti per l’accesso al pensionamento anticipato, non è un sindacato molto confederale.

Un sindacato dove si fa a gare per sventolare- giustamente- più in alto possibile la bandiera della lotta alla precarietà e non si rende sufficientemente conto che la precarietà si combatte sempre più nel mondo dei subappalti dei cantieri, delle imprese delle pulizie e dei servizi, o nel mondo del caporalato, che detta le sue leggi nel reclutamento delle braccia che raccolgono i pomodori dall’alba al tramonto, o che portano i mattoni sui ponteggi traballanti delle imprese di 2-3 dipendenti, non è un sindacato molto confederale.

Un sindacato che discute come riformare la contrattazione a partire- giustamente- dal sacro principio della democrazia sindacale e non si rende conto della differenza che esiste tra il descriverne l’architettura formale e praticarla concretamente, là dove la destrutturazione del sistema delle imprese ha annullato quasi del tutto i tradizionali riferimenti della rappresentanza, non è un sindacato molto confederale.

 

Allora, quando nelle discussioni di questi mesi si richiamano le scelte congressuali per mettere in guarda la Cgil da pericolose devianze, bisogna sapere che per coerenza quelle scelte ne trascinano altre, che riguardano la nostra politica organizzativa, che impongono un chiaro spostamento del baricentro nella allocazione delle risorse, umane e finanziarie, nell’investimento in termini di iniziativa politica e sindacale, perché nella confederalità non vi sono precari di serie A e di serie B, né morti di serie A e di serie B, tanto meno disoccupati di serie A e di serie B.

 

Questo passo in avanti è possibile farlo, se ognuno di noi, se ogni categoria, ogni suo gruppo dirigente assume l’obiettivo della tutela generale degli interessi e non solo quella della sua piccola parte. Dico piccola, perché il rischio è che essa diventi inesorabilmente sempre più piccola, se al crescere degli iscritti non accompagnamo anche la crescita del tasso di sindacalizzazione, attualmente in calo.

 

Tante altre cose è possibile fare, perché dipende esclusivamente dalla nostra volontà soggettiva. Dove abbiamo portato più giovani, dove abbiamo portato più donne e più immigrati, dove abbiamo rappresentato nuove professioni non abbiamo fatto assolutamente nulla di straordinario, abbiamo fatto solo quello che ognuno di noi può fare, se vuol fare.

Per questo credo che su questo terreno del rinnovamento dei quadri, compreso il rilancio indispensabile della formazione, dobbiamo darci obiettivi verificabili al congresso. Non è difficile calcolare se l’età media dei gruppi dirigenti al prossimo Congresso si sarà ancora un po’ abbassata e se non lo sarà, non sarà difficile capire dove e perché. E così per il resto.

 

Credo che dobbiamo fare questo anche per tenere accesa la speranza che cambiare si può, anche là dove si guarda con sempre più sfiducia a questa possibilità ed il sindacato viene comunemente assimilato alla politica, ai partiti, alle istituzioni che vivono per se stessi.

Credo che il nostro rinnovamento possa portare una speranza in più anche nei punti più critici del momento, a partire dal team della sicurezza, legato ai rigurgiti xenofobi. Noi non vogliamo portare qualche immigrato in più nei nostri gruppi dirigenti, noi vogliamo costruire un soggetto nuovo, fondato sul valore dell’interculturalità, vogliamo dimostrare che esiste un lato della globalizzazione che sa valorizzare le differenze, che individua nelle diverse culture una risorsa per costruire una civiltà moderna, che assume il valore della persona indipendentemente dal colore della sua pelle o dalla religione.

Questo è già scritto nel nostro Statuto. Dobbiamo solo dimostrare di essere bravi non solo a scriverle le cose, ma soprattutto a farle.

 

Roma 30 aprile 2008

 

 

 

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