I
lavoratori dell’edilizia –la parte prevalente degli addetti nel settore
delle costruzioni- possono essere licenziati indipendentemente dalla
soglia dimensionale dell’impresa. Questo, come in parte è noto, per
effetto di una norma che consente la risoluzione del rapporto di lavoro
per fine cantiere o –addirittura- per fine fase di lavoro. Di conseguenza
si potrebbe concludere che gli stessi lavoratori edili siano poco
interessati allo svolgimento ed all’esito del referendum del 15 giugno.
In realtà così non è. Anzi, vi sono diverse
ragioni che collocano il settore delle costruzioni pienamente dentro le
motivazioni che hanno portato la Cgil a pronunciarsi ed impegnarsi per il
SI. Un SI per le riforme si è detto e mai come in questo caso l’obiettivo
dell’allargamento dei diritti e delle tutele si sposa con la battaglia che
la categoria sta conducendo per difendere le condizioni di lavoro nei
cantieri e per qualificare lo sviluppo.
Quello che sta accadendo nel settore può non
apparire originale rispetto al resto del mondo del lavoro. In effetti, la
spinta alla precarizzazione che domina l’azione di Governo e gran parte del
mondo imprenditoriale ha conosciuto anche in edilizia la sua onda frangente.
Pareva impossibile spingersi oltre il limite di una impresa ridotta a
dimensioni atomiche (la più piccola d’Europa), vera e propria polvere di
stelle, oppure ad un mercato del lavoro dove viene stimato fino al 40% di
lavoro sommerso ed irregolare. Eppure la domanda di flessibilità ulteriore è
arrivata anche qui, con l’introduzione dei rapporti di lavoro atipici in un
settore dove il problema reale è quello esattamente opposto, la
fidelizzazione dei dipendenti, data la scarsità di manodopera in vaste aree
del Paese.
Tutto ciò ha una unica spiegazione, il
tentativo delle imprese, peraltro gravemente penalizzate dalla politica del
Governo, di sopravvivere attaccando i costi del sistema, gli unici
attaccabili, quelli del lavoro, quelli diretti e quelli indiretti. Qual’è il
vantaggio dell’introduzione del lavoro atipico in edilizia? Semplice,
risparmiare non solo sulla contribuzione previdenziale, come in tutti gli
altri settori, ma anche sulle forme di sostegno al reddito che tramite il
sistema delle Casse Edili i lavoratori percepiscono come una sorta di
“indennizzo” per il licenziamento che segue la fine di un cantiere e precede
l’inizio di uno nuovo. Questo rischio è stato per adesso evitato attraverso
la contrattazione sulle condizioni della sperimentazione delle flessibilità
in edilizia. Ma è del tutto evidente che si impone quanto prima una norma
generale che tuteli questi lavoratori (basti pensare al vasto esercito dei
restauratori, molti dei quali sono co.co.co.).
Ma non è solo questo. In provincia de
L’Aquila un’impresa di cemento ha trasferito i propri impiegati in una
costituenda nuova società affinché i dipendenti rimanenti risultassero sotto
la soglia della reintegra e portando così alle estreme conseguenze il tiro
al bersaglio nei confronti di un delegato disturbatore della quiete
decennale!
Assolutamente nulla di nuovo, anzi di molto
antico, un messaggio assolutamente inequivocabile su come una parte
dell’imprenditorialità intenda interpretare la nuova cultura del lavoro che
somma la falsa modernità ai limiti della legislazione vigente.
L’insieme delle proposte di riforma
presentate dalla Cgil risponde all’esigenza di offrire un orizzonte
culturale, sindacale e giuridico diverso. La spinta che può venire
dall’esito positivo del referendum è importante per tentare di rimettere
nell’agenda politica una problematica volutamente rimasta fuori dalle scelte
del Governo, dall’iniziativa parlamentare, oltrechè dal Patto per l’Italia.
E’ questione che riguarda anche l’edilizia e l’intero settore delle
costruzioni impegnato per sostenere a fondo la scelta della Cgil. |