Relazione
Congressi Fillea Vicenza
Care compagne e compagni, graditi ospiti,
qualche anno fa si iniziavano i congressi del
sindacato, delle forze politiche, delle associazioni di rappresentanza,
sottolineando il carattere eccezionale, straordinario, particolare della fase
che si stava attraversando.
Quando, qualche tempo fa, pensavo a come avrei
potuto iniziare questa mia relazione, mai avrei immaginato che il nostro
congresso si sarebbe tenuto a poco più di due mesi da un evento inimmaginabile
fino all’11 settembre, e ancora nel pieno di una guerra che rappresenta,
nonostante i successi militari sul campo, una risposta sbagliata, ogni giorno
più difficile da accettare non solo da parte nostra, che avevamo espresso la
nostra contrarietà fino dal 12 settembre, ma anche da parte di molti tra coloro
che hanno condiviso l’avvio delle azioni militari contro l’Afghanistan.
Possiamo quindi affermare che “il nostro Congresso si tiene in un momento assai
difficile della vita del nostro Paese e del mondo”.
Voglio inoltre, pur consapevole della sproporzione
tra i grandi avvenimenti internazionali e le nostre vicende quotidiane,
segnalare il rammarico mio e della segreteria uscente della Fillea vicentina,
per i risultati molto scarsi che abbiamo raggiunto sul piano dei rapporti unitari. Come Fillea ci abbiamo creduto e
scommesso, non facendoci spaventare dalle difficoltà più generali, abbiamo
lavorato per attenuare le tensioni e non far assumere alla competizione tra
Feneal, Filca e noi caratteri dirompenti, ma purtroppo non abbiamo fatto grandi
passi in avanti.
Per quanto ci riguarda, ne parlerò poi, non
demorderemo.
Il congresso provinciale della Fillea ha questi
compiti principali:
-
analizzare quanto abbiamo fatto e realizzato dal precedente congresso;
-
individuare
obiettivi e percorsi per raggiungerli nei prossimi anni;
-
contribuire
al superamento delle contrapposizioni tra le diverse impostazioni politiche
presentate nella fase congressuale di base.
Sapendo che ogni scelta che noi operiamo deve avere
come riferimento, come stella polare, la tutela di lavoratrici e lavoratori,
dei loro interessi, delle loro condizioni di lavoro e di vita e del ruolo che
hanno e dovranno avere in questa nostra società, così ingiusta.
Nel ragionare tra noi e su di noi, mai come oggi
dobbiamo confrontarci sulle grandi vicende che sembrano sovrastarci.
I venti di guerra, la realtà della guerra nel mondo;
la volontà di rivincita conservatrice e reazionaria del padronato e del governo
a livello nazionale, ci obbligano a soffermarci su questi temi e a trovare
negli avvenimenti degli ultimi mesi motivo di analisi e riflessione.
Gli ultimi giorni di guerra e la facilità con la
quale è stato, almeno per ora, sbaragliato l’esercito talebano, hanno dimostrato
che forse, come hanno detto molti osservatori, dispiegare le armate di tutto il
mondo sviluppato contro uno stato disastrato in Asia centrale non era del tutto
giustificato.
Con queste affermazioni non voglio certo
banalizzare, e per evitare incomprensioni parto dalla riaffermazione della
nostra totale contrarietà a qualsiasi forma di terrorismo e quindi, a maggior
ragione, alla forma più feroce, che abbiamo visto a New York.
Come abbiamo ricordato nelle assemblee tenute in
fabbrica e nei cantieri, il sindacato italiano non deve ricevere lezioni da
nessuno, per quanto riguarda il contrasto del terrorismo.
Il sindacato, la CGIL, hanno avuto le loro vittime
nella battaglia che negli anni ’70 si è svolta contro il terrorismo in Italia.
Proprio il ricordo di quei periodi mi porta ad
un’ulteriore valutazione: in quegli anni i lavoratori italiani, il sindacato,
ebbero la capacità di rifiutare le “sirene” terroristiche. Le Brigate Rosse,
allora, pretendevano di ergersi a rappresentanti in armi della classe operaia.
I diretti interessati però risposero no, e
contrastarono i terroristi con gli strumenti della democrazia e della
partecipazione.
Ora: fatte le debite proporzioni, ciò che colpisce
nella risposta armata degli ultimi 40 giorni contro l’Afghanistan è il fatto
che l’unica grande potenza rimasta al mondo, con i mezzi tecnici, scientifici e
militari che conosciamo, non abbia saputo e voluto reagire se non con rabbia e
ritorsione.
Voglio dire che, se non si danno risposte ai grandi
problemi legati alle condizioni economiche, sociali e politiche di grande parte
dell’umanità, correremo sempre il rischio che possano spuntare nuovi Bin Laden
in giro per il mondo.
Tralasciando, per brevità, le contraddizioni di un
sistema che alleva nel proprio seno coloro che poi vogliono distruggerlo.
Pensiamo al Medio Oriente e alla vicenda
palestinese. Pareva che qualche passo avanti si potesse fare, dopo l’11
settembre, e invece in questi giorni non se ne parla più. Ciò che si comprende
è che Arafat è sempre più in difficoltà.
Credo che se davvero non verrà individuata una
soluzione che passi attraverso la costituzione dello stato di Palestina accanto
a Israele, l’ulteriore indebolimento dell’Autorità palestinese porterà
inevitabilmente a nuovi, drammatici fatti di sangue.
Anche qui, ripetendo cose già dette. Quale interesse
per la vita e per il proprio futuro può avere un giovane palestinese che ha
visto solo guerra, in tutti gli anni della sua vita?
Proprio perché vissuto con la morte a fianco ogni
giorno, e lui stesso quotidianamente a rischio di morte, può trovare
affascinante l’idea di immolarsi nel nome del suo popolo o di un dio.
Compito dell’Occidente, dell’Europa e dell’Italia,
per quanto ci riguarda, dovrebbe essere quello di individuare soluzioni
credibili e accettabili dai due popoli.
Mi si dirà: ma Israele non ci sta. E’ vero, ma l’ONU
dovrebbe avere la capacità e la forza di imporre, se necessario, soluzioni che
affermino la giustizia nelle varie parti del mondo.
E qui bisognerebbe aprire il delicato capitolo sul
ruolo dell’ONU e sulle ragioni che hanno portato questa fondamentale
istituzione internazionale all’attuale stato di debolezza. Credo c’entri il
fatto che dopo la fine del bipolarismo qualcuno si era illuso di poter fare da
solo, nella soluzione delle vicende internazionali, salvo poi scoprire di
essere vulnerabile come ognuno in ogni parte del mondo, con le tecnologie e le
capacità di muoversi e comunicare a disposizione delle persone che vivono in
questo mondo tremendamente complesso.
La vicenda palestinese, la necessità di tornare a
solidarizzare con quel popolo oggi sottoposto ad una pesante violenza, ci
potrebbe vedere promotori, se siete d’accordo, di un momento di riflessione e
di approfondimento, da proporre alla CGIL e alla città.
In CGIL, nazionale e vicentina, si è discusso sul
terrorismo, respingendolo senza remore, e sulla guerra. Ci si è anche divisi,
su questo argomento, facendo forse pesare di più la collocazione nel dibattito
congressuale che i contenuti reali dei documenti che si proponevano.
Credo che questo sia un punto troppo importante
perché ognuno di noi resti legato ai contenuti dei diversi documenti
congressuali. Spero che il problema non diventi scrivere o meno che la CGIL
“ripudia la guerra”. Nel nostro statuto ci si richiama alla Costituzione
italiana, e lì è scritto che l’Italia ripudia la guerra come strumento per la
soluzione delle controversie internazionali.
Penso che, a questo punto della vicenda afghana
tutti dobbiamo dire che i bombardamenti devono cessare, si deve fermare la
guerra (e non pensare di allargarla ad altri paesi di quell’area), si devono
inviare forze di interposizione, devono essere utilizzate quelle che sono lì o
stanno arrivando, però su mandato e sotto il comando dell’ONU, per operazioni
di pacificazione e di avvio della ricostruzione di una realtà distrutta da anni
di guerra.
Temo che non sarà così, e che si perderà un’altra
occasione per dimostrare che l’obiettivo di questa e delle precedenti guerre
degli ultimi 10 anni non è solo il controllo strategico di importanti aree del
mondo da parte dei paesi occidentali, con il rischio di nuove forme di
colonialismo.
In questa situazione di incertezza si giustifica
ancor meno l’invio di soldati italiani, che vanno lì a compiere non si sa quale
missione e al comando di chi.
Vedete: fa arrabbiare chi si accorge solo oggi, o si
è accorto l’undici settembre dell’atrocità del regime afghano e dei rischi
futuri. Purtroppo non sorprendono vendette e saccheggi, massacri e violenze. E’
la logica della guerra.
Molti e molte, compresa la signora Bush, si
preoccupano oggi delle donne afghane: speriamo se ne ricordino anche domani,
per non avere tra qualche anno solo il sindacato e le associazioni pacifiste,
che a Vicenza o altrove si preoccupano di parlare della condizione femminile in
quel paese, e in altri paesi di quell’area.
E’ importante che la guerra finisca, perché non è
accettabile l’idea di vivere in guerra permanente, anche se si chiama libertà
duratura. Il clima di guerra, che si respira ogni giorno, porta con sé un
serrare le fila nel quale vince la logica della contrapposizione amico-nemico
(avrete visto, ne hanno parlato anche in televisione, la vergognosa pagina di
un quotidiano nazionale con una sorta di gogna fotografica: le foto dei
deputati e senatori che hanno votato contro l’invio delle truppe italiane
tacciandoli di collisione col nemico); si arriva all’infausto “con me o contro
di me” e si giunge alla limitazione delle libertà individuali e collettive.
Sapete che negli Stati Uniti il Governo vuole una
legge che permette di arrestare e processare gli stranieri ritenuti nemici o
terroristi non da parte dei giudici in un tribunale, come avviene in uno stato
democratico, ma dalla corte marziale, in sostanza dal ministro della difesa.
Questa ipotesi ha scatenato grandi polemiche sulla stampa americana.
La risposta al clima di guerra e alla realtà della guerra passa attraverso
il rafforzamento di quelle organizzazioni, pensate alle organizzazioni non
governative, che sono sempre presenti nelle realtà in cui ci sono persone che
soffrono a seguito di guerre e violenze, e sappiamo che nel mondo ce ne sono
ancora tante, troppe.
Attenzione dobbiamo prestare anche a chi contesta
questa globalizzazione, al movimento che si è sviluppato a partire da Seattle e
che ha visto a Genova una tappa fondamentale quanto drammatica.
Anche qui possiamo e dobbiamo fare passi avanti,
nella discussione in CGIL. Sapete che la CGIL discusse e si divise,
sull’adesione alle manifestazioni di Genova. La CGIL organizzò un’iniziativa
del sindacato europeo e internazionale insieme a CISL e UIL e non aderì. Molte
Camere del lavoro e categorie locali aderirono: dalla FIOM nazionale alla CGIL
di Vicenza e a noi della Fillea (ne discutemmo in un interessante Direttivo al
quale invitammo un rappresentante delle rete Lilliput).
Sappiamo tutti com’è andata a Genova e ritengo che
sia superfluo ribadire la contrarietà di tutta la CGIL ad ogni forma di
violenza da parte di chi manifesta, come ad interventi repressivi e violenti da
parte della polizia.
Quanto accaduto in quei giorni di luglio ha portato
a vedere i poliziotti non come elemento di sicurezza, ma come portatori di
violenza che incutono paura. In una recente manifestazione a Vicenza, che non
ha visto episodi di tensione, c’era maggiore preoccupazione per il
comportamento delle forze dell’ordine che per quello dei manifestanti, anche da
parte di persone che non hanno pregiudizi nei confronti di polizia e
carabinieri. Il rischio è che si ricrei una frattura irreparabile tra una parte
delle giovani generazioni e le istituzioni e chi le rappresenta.
Dicevo che la CGIL di Vicenza era a Genova ed è
impegnata dentro questo movimento, nel pieno rispetto delle reciproche
autonomie, anche a Vicenza.
C’è per alcune ragioni:
-
questo
movimento rappresenta una delle poche novità sul piano sociale, in particolare
per il coinvolgimento di giovani, e il sindacato non può ritenersi estraneo;
-
a
Vicenza, a partire dalle iniziative del Centro sociale, è in atto un tentativo
della destra al governo della città di limitare spazi di democrazia e
organizzazione, fino al tentativo di impedire le manifestazioni in centro;
-
la
presenza del sindacato (non c’è solo la CGIL) può contribuire a tenere uniti i
vari pezi di quel movimento, che ne rappresentano la ricchezza. Lì dentro
infatti ci sono giovani di varia estrazione sociale, con diverse idee politiche
e orientamenti religiosi.
Mi sono soffermato, forse troppo, su questi temi,
perché, ripeto, un sindacato come la CGIL, la FILLEA, non può pensare di
ricavarsi un proprio spazio di iniziativa avulso da ciò che gli accade intorno,
in Italia e nel mondo.
Qualcuno tra i lavoratori e gli iscritti con i quali
discutiamo direbbe: questa è politica e il sindacato non deve fare politica.
Non mi soffermo sul significato della parola
politica, ma voglio dire che da un lato è pericoloso pensare che l’esercizio
della politica debba essere riservato a pochi specialisti, il cosiddetto ceto
politico, e che questi non debbano interloquire con la società e le attività
che nella società si svolgono; dall’altro che quando parliamo di pace,
giustizia, libertà (nella nostra società e nel mondo) parliamo di noi e di cose
che ci riguardano.
Se occuparci di queste cose significa, come significa,
occuparci di politica, ebbene, è giusto che lo facciamo.
C’è un punto del documento congressuale di
maggioranza in cui è presente un invito a un “rinnovato impegno delle compagne
e dei compagni della CGIL nella militanza politica”.
Sono convinto che non farebbe male ai partiti
politici, quelli di sinistra e progressisti dico io, avere la partecipazione di
lavoratrici e lavoratori, sindacaliste e sindacalisti. Si occuperebbero di più
di cose concrete, delle condizioni reali di chi vive del proprio lavoro.
Naturalmente senza confusione di ruoli e
distinguendo bene gli ambiti di intervento.
Sono tra coloro che hanno visto con preoccupazione
le prime dichiarazioni di Cofferati sul congresso del suo partito e il rischio
che la CGIL venisse coinvolta direttamente nelle vicende congressuali dei D.S..
Le cose poi, per fortuna, si sono chiarite ed oggi è
chiaro che Cofferati ha parlato per sé, da militante di partito, da delegato al
Congresso, e non a nome della CGIL. Certo, quando parla è noto il ruolo che
ricopre nel sindacato.
Aggiungo che, a mio parere, il segretario generale
della CGIL sbaglierebbe se, lasciato l’incarico che attualmente ricopre, nella
prossima primavera, aspirasse a diventare segretario di partito. Farebbe meglio
a portare la sua esperienza di massimo dirigente nazionale in qualche realtà
locale o territoriale, come lui stesso dice nel suo libro di tre anni fa.
Anche perché recenti esempi di dirigenti sindacali
passati direttamente alla politica, magari dopo aver usato il sindacato per i
propri obiettivi politici, non si sono conclusi felicemente.
Per quanto ci riguarda, possiamo tranquillamente
dire che la nostra discussione congressuale in categoria non ha minimamente
risentito delle vicende congressuali dei partiti della sinistra, a riconferma
dell’idea che abbiamo dell’autonomia sindacale e quanto a questa ci teniamo.
Non so se è dovunque così, ma in Fillea a Vicenza sì.
Parlare di politica significa parlare del Governo e
delle scelte che sta facendo e che ci toccano direttamente, nelle tasche e nei
diritti.
Non mi soffermo molto sui provvedimenti di carattere
generale, che non riguardano direttamente il lavoro e i lavoratori, ma voglio
richiamare alcuni dei provvedimenti che la dicono lunga sui soggetti che questo
governo intende privilegiare.
Ha iniziato con la legge sul falso in bilancio che
riguarda, oltre il presidente del consiglio, titolari e amministratori di
società, ha continuato con le rogatorie internazionali che interessano
direttamente, ancora, il presidente del consiglio e, proprio nei giorni scorsi,
il suo socio Previti e si è attirato, per questa legge, il sospetto di non
contribuire a combattere il terrorismo internazionale e le sue fonti di
finanziamento; poi sono passati al rientro dei capitali illegalmente esportati,
con una sanatoria per coloro che negli anni hanno preferito portare i soldi
all’estero piuttosto che investirli in Italia e, probabilmente, per chi ha
portato all’estero capitali mafiosi e illegali.Ora nel mirino ci sono i
giudici, soprattutto se non fanno ciò che vuole il governo e Berlusconi.
Questi provvedimenti e altri comportamenti fanno
temere per il futuro del nostro paese, e il suo ruolo in Europa.
C’è il tentativo di procedere in termini autoritari,
escludendo le organizzazioni rappresentative, in particolare il sindacato.
Cos’è, se non questo, la definizione della legge
delega in materia di mercato del lavoro, con la volontà di menomare pesantemente
l’art. 18 dello statuto dei lavoratori?
Ricordo che la legge delega prevede la sospensione
(bontà loro) per 4 anni dell’applicazione dell’art. 18 nei casi di emersione
dal lavoro nero, nella trasformazione di contratti da tempo determinato a tempo
indeterminato, per i neo assunti in aziende che con i nuovi ingressi possono
superare i 15 dipendenti.
Con queste ipotesi si raggiungono diversi obiettivi:
-
dividere
i lavoratori tra coloro che oggi hanno una relativa stabilità (ricordo che già
oggi le aziende possono licenziare, e i delegati dell’Arc Linea lo sanno
benissimo) e coloro che entrano nel mercato del lavoro. Non bastano agli
industriali gli strumenti che già oggi hanno per ottenere flessibilità in
entrata, al momento dell’assunzione. La divisione tra giovani e meno giovani
era stata avanzata nel dibattito sulle pensioni, ricordate?;
-
aumentare
la precarietà nei rapporti di lavoro. Pensate ad un giovane assunto con
contratto a tempo determinato (che con l’accordo contestato e contrastato dalla
CGIL, diventato legge, dà la possibilità di allargare l’uso dei contratti a
termine, di limitare l’intervento sindacale e fa durare i contratti fino a tre
anni): bene, questo giovane, alla fine di quei tre anni si trova sulla testa la
spada di Damocle del licenziamento “ad nutum”, al cenno, come dire “fuori di
qui”, “quello è il portone”. Pensate che un giovane in quelle condizioni si
iscriverà facilmente al sindacato e si impegnerà magari come delegato?;
-
far
passare l’idea che le aziende non assumono per non superare i 15 dipendenti e
non applicare lo statuto dei lavoratori, quando i dati della contabilità
nazionale dicono che l’80% delle aziende occupa meno di 10 dipendenti.
A queste posizioni noi dobbiamo rispondere non
limitandoci a difendere ciò che abbiamo, ma rilanciando per allargare i
diritti, affermarne di nuovi per chi non ne ha. Anche se questo non può
significare, come qualcuno pensa anche nel sindacato, che i diritti si possono
diminuire purché ciò sia fatto per via contrattuale anziché con la legge. Alle
aziende non servono nuove flessibilità. Le flessibilità positive vanno invece
individuate e richieste a favore dei lavoratori, garantendo la possibilità di
usufruire di tempi di lavoro compatibili con il variare delle condizioni di
vita e con le relative esigenze.
La delega, inoltre, cone era prevedibile, è molto
larga, e potrà così lasciare grande discrezionalità al Governo in sede di
attuazione.
Si introducono nuove forme di lavoro: a chiamata
(ricordate, quello respinto dalla FIOM e dai lavoratori della Zanussi),
intermittente, occasionale, accessorio, contratto di progetto. Nomi diversi per
aumentare la precarietà e andare verso la fine della contrattazione, in
direzione del rapporto di lavoro individuale, nel quale il lavoratore è solo di
fronte al padrone. Questa è la logica del libro bianco del ministro del lavoro.
Il Governo continua così a pagare la cambiale che ha
firmato alla Confindustria durante l’assemblea di Parma. Ricordate? “il mio
programma è il tuo”, e viceversa.
Una Confindustria che si ostina a chiedere
provvedimenti che non risolvono i problemi dell’industria italiana, che non
punta ad uno sviluppo di qualità per un lavoro di qualità, ad una competitività
alta, basata sull’innovazione e sul sapere di chi lavora, la cui formazione,
professionale e continua va incentivata e promossa; una Confindustria che
continua a puntare sulla competizione di costi e si presta ad un inedito e
pericoloso collateralismo con il governo.
Sulla scelta del governo di intervenire con legge
delega su materie così delicate, che richiedono una contrattazione, la
concertazione con il sindacato, c’è stata una forte reazione da parte di CGIL,
CISL e UIL.
L’augurio che facciamo e ci facciamo (ieri c’è stata
la riunione delle segreterie delle tre confederazioni) è che ci sia la capacità
e la volontà di andare a forti iniziative di lotta, fino allo sciopero
generale, nel caso in cui il governo confermi le proprie intenzioni.
Molti altri sono i provvedimenti che fanno esprimere
forti preoccupazioni ed esplicite contrarietà verso l’operato di questo governo
e sull’incapacità di uscire dallo schema liberista che punta unicamente ad una
politica dell’offerta, basata sul sostegno alle imprese e agli imprenditori,
senza badare ai risultati sul piano sociale e occupazionale.
Il Governo continua a proseguire nella propria
direzione non accorgendosi che gli stessi Stati Uniti intervengono a sostegno
della domanda anche con manovre di bilancio, per rilanciare un’economia in
difficoltà.
Come qualcuno ha osservato, poi, i pochi
provvedimenti che si potrebbero vedere con favore, come il milione ad una parte
dei pensionati o l’aumento ad un milione della detrazione per figlio a carico,
diventano, dal punto di vista economico, una partita di giro. Non riducendo di
un ulteriore punto le aliquote fiscali più basse, si ricavano le risorse per
coprire gli altri interventi.
Vanno poi ricordati i provvedimenti su scuola e
sanità e l’intenzione, espressa chiaramente e praticata con i progetti di legge
elaborati o in via di definizione, che puntano alla privatizzazione di questi
servizi. Torneremmo così ad una scuola e una sanità per i ricchi e una per i
poveri.
Per quanto riguarda le pensioni, altro tema caldo,
avete visto che i dati della stessa commissione ministeriale hanno messo in
rilievo come le riforme degli anni passati hanno prodotto buoni risultati e
quindi non si giustifichi un intervento pesante in materia pensionistica. Le
pressioni della Confindustria però sono forti. Si è riusciti a rinviare ogni
decisione al 15 dicembre, ma questo non tranquillizza. Corriamo il rischio che
a quella data vengano operate scelte che non vanno bene.
Se ai provvedimenti del Governo nazionale si
aggiungono le scelte della regione Veneto, che aumenta l’addizionale, credo si
possa tranquillamente affermare che, come era previsto, i governi di destra,
nazionale e regionale, attuano l’unica politica che conoscono, dare ai ricchi
togliendo a chi ha meno.
Al sindacato, a CGIL CISL UIL questo non può andar
bene, perché i più penalizzati sono i lavoratori dipendenti e i pensionati, che
noi rappresentiamo o vogliamo rappresentare.
Il recupero di un’iniziativa unitaria è molto
importante anche perché veniamo da un periodo di forti divisioni.
La manifestazione dei metalmeccanici della FIOM di
venerdì rappresenta un momento emblematico di queste divisioni, ma, allo stesso
tempo è un segnale di grande speranza.
Voglio dire che è importante che più di 200.000
lavoratrici e lavoratori, soprattutto giovani, si ritrovino a manifestare sotto
una parola d’ordine che per noi è vitale: “Democrazia” era lo slogan della
manifestazione.
Vedete: nel settore metalmeccanico più che in altri
settori sono entrati in fabbrica centinaia di migliaia di giovani, il più delle
volte assunti con le varie forme di flessibilità in entrata che, come visto,
non bastano mai alla Confindustria.
Proprio per questo, a mio avviso, hanno acquisito la
consapevolezza dell’importanza del contratto nazionale e del loro ruolo nella
vita e nelle decisioni del sindacato.
Per questo non accettano che si firmi un contratto
senza sentire la loro opinione.
I metalmeccanici della FIOM difendono anche una
corretta interpretazione delle regole sulla contrattazione stabilite con
l’accordo di luglio del 1993, che prevede il recupero di quote di produttività,
e non, com’è avvenuto, una parte di salario che diventa acconto sulla futura
contrattazione.
La strumentalità della posizione di Federmeccanica e
della Confindustria (hanno forzato sui meccanici perché indebolendo la
categoria più significativa indeboliscono tutti) è evidenziata da quanto è
avvenuto per gli stessi metalmeccanici sul tavolo della Confapi e da quanto
avviene nei nostri stessi settori, o almeno negli impianti fissi.
Dopo il contratto del cemento si è conclusa nei
giorni scorsi la trattativa per il rinnovo del primo biennio dei lapidei. Il
risultato è vicino alle richieste presentate e non ci sono clausole che
vincolano gli aumenti. Questi sono puliti, come si dice in sindacalese.
Il rinnovo del biennio contrattuale e la tenuta
unitaria nei nostri settori credo possano essere di buon auspicio anche per una
ripresa dell’iniziativa unitaria tra i metalmeccanici, oggi difficile, ma
comunque necessaria, per fermare la prepotenza di Confindustria e non solo.
Ricordo che la Confartigianato ha disdetto l’accordo del 1992 che dettava le
regole contrattuali per l’artigianato.
E’ giusto richiamare anche quanto avviene
nell’artigianato, perché molto spesso questa è una parte del mondo del lavoro
alla quale noi stessi prestiamo scarsa attenzione.
Per noi restano ancora aperti i tavoli per il primo
biennio dei laterizi e manufatti e del legno.
C’è un punto nero nelle relazioni industriali dei
nostri settori: l’edilizia.
Gli industriali edili non hanno voluto raggiungere
l’accordo, previsto dal CCNL, per stabilire il tetto all’aumento salariale
nella contrattazione provinciale: Ricordo che la definizione del tetto ha
permesso di sbloccare la contrattazione provinciale nel 1998.
Come da tempo si verifica, volevano condizionare la
possibilità di accordo alle richieste da presentare, secondo il loro punto di
vista, al governo per ottenere sgravi e deregolazioni, in particolare sul costo
del lavoro, perché deroghe in materia di sicurezza e cancellazione delle regole
del costruire le hanno già ottenute.
Di fronte ad una indisponibilità di Feneal, Filca e
Fillea a scendere su quel tereno, hanno abbandonato il tavolo di trattativa.
Probabilmente vogliono allungare i tempi e arrivare, come stiamo arrivando, ad
una sorta di ingorgo contrattuale dovuto alla scadenza al 31 dicembre della
maggior parte dei contratti provinciali e del primo biennio del contratto
nazionale.
Per sbloccare questa situazione e rivendicare il
diritto alla contrattazione sono state decise 10 ore di sciopero da effettuare
provincia per provincia.
A Vicenza abbiamo deciso unitariamente di scioperare
il 7 dicembre, per tutta la giornata.
Noi faremo il massimo sforzo, a partire da domani,
per raggiungere il maggior numero di cantieri e di lavoratori edili.
Ai delegati edili qui presenti chiediamo di aiutarci
nel far riuscire lo sciopero. Avere i cantieri fermi una giornata, in
particolare nelle imprese di proprietà di coloro che hanno responsabilità
nell’ANCE ai vari livelli, è un obiettivo importante e raggiungibile.
Abbiamo inoltre quasi ultimato l’elaborazione
dell’ipotesi di piattaforma per la contrattazione provinciale, e dalla prossima
settimana la porteremo alla consultazione tra i lavoratori nelle assemblee in
preparazione dello sciopero.
I contenuti si possono sintetizzare così: chiediamo
una valorizzazione (professionale, salariale e sociale) del lavoro edile, di
poter lavorare in sicurezza e di avere la necessaria formazione. Non mi
dilungo, ma ricordo che quello della formazione, della conoscenza, del sapere e
dei modi per garantire la formazione continua è una delle questioni centrali
per il futuro di chi lavora.
Non vogliamo rinunciare al diritto alla
contrattazione e, come faremo la nostra parte per il rinnovo del contratto
provinciale, altrettanto faremo quando sarà il momento di difendere il
contratto nazionale.
Le regole della contrattazione ed il sistema di
concertazione sono stati elementi di diversificazione delle posizioni al nostro
interno, nella discussione congressuale.
Anche qui, io credo che sia possibile fare un passo
avanti rispetto a quanto sostenuto nei documenti congressuali.
Il sistema di concertazione e le regole della
contrattazione sono oggi messe in discussione da Governo e controparti
padronali. L’attacco è pesante, soprattutto nei confronti della CGIL. Chiaro
che oggi siamo noi nel mirino, ma altrettanto chiaro che poi toccherà al resto
del sindacalismo confederale. Questa Confindustria e questo Governo, insieme ad
altre controparti, non sopportano più la presenza di un sindacato generale. Il
loro modello è quello della rappresentanza frammentata, corporativa,
aziendalistica.
Ma denunciare questa situazione, e battersi in
difesa di questioni essenziali, come stanno fecendo i metalmeccanici, non è più
sufficiente.
Ha ragione Trentin quando afferma che in questi anni
c’è stato un deficit progettuale. Abbiamo visto giusto nel difendere questioni
essenziali, ma non siamo stati in grado di elaborare un progetto di iniziativa
sindacale generale, che rispondesse alle esigenze del mondo del lavoro di oggi.
Elaborare cioè una piattaforma, si sarebbe detto una volta, con la quale
confrontarsi con le altre organizzazioni, da far discutere e approvare ai
lavoratori, per rimediare ai limiti dell’accordo di luglio e rilanciare
obiettivi che permettano la ripresa di un’iniziativa unitaria.
E’ possibile che il Congresso nazionale discuta e si
confronti su un’ipotesi di questo tipo? E’ auspicabile, ma non scontato. Mi
rendo conto che è più facile a dirsi che a farsi, ma la CGIL nella sua storia
ha sempre avuto la capacità di proiettare in avanti la sua iniziativa. Credo
che potremmo, insieme, chiedere questo alla nostra organizzazione, anche per
superare le divisioni congressuali.
Nessuna presunzione in questa richiesta: noi siamo
perfettamente consapevoli dei limiti della nostra iniziativa, come categoria a
livello locale, e della difficoltà a portare innovazione nella nostra attività
quotidiana.
La Fillea ha superato notevoli difficoltà, negli
ultimi anni.
Cinque anni fa si è proceduto alla unificazione dei
due comprensori, in un clima che non era certo di collaborazione, tra i
compagni impegnati nella Fillea di Vicenza e Alto Vicentino.
L’unificazione c’è stata e, in una prima fase, ha
portato ad un ridimensionamento dell’apparato a tempo pieno, con pesanti
ricadute sul piano dei rapporti con delegati, iscritti e lavoratori, portando
anche ad un ridimensionamento organizzativo.
Da fine 1997 è iniziata un’inversione di tendenza
che ci ha permesso di:
-
avere
gruppo dirigente a tempo pieno omogeneo e coeso
-
crescere
in numero di iscritti
-
costruire
rapporti stabili e positivi con i delegati e le delegate
-
allargare
la nostra capacità di azione nei confronti di settori del mondo del lavoro
finora da noi poco rappresentati: gli immigrati e gli impiegati.
abbiamo chiuso il 2000 con 2959 iscritti , abbiamo
recuperato, soprattutto in edilizia, stiamo risalendo quest’anno, sapendo che a
inizio anno abbiamo sistemato gli elenchi degli iscritti degli anni precedenti,
e contiamo di chiudere oltre i 2900 iscritti, visto che possiamo contare su 540
nuove deleghe, fino ad oggi.
Il dato più significativo è che migliorerà
notevolmente la quota annua per iscritto, realizzando un rapporto sempre più
aderente tra tessere acquistate e tessere consegnate. Vuol dire cioè che non
abbiamo nessun gonfiamento di iscritti.
Un buon risultato abbiamo ottenuto grazie al lavoro
fatto, in rapporto con il regionale, nel tesseramento di edili dipendenti da
imprese artigiane.
Abbiamo una rete estesa di delegati, che purtroppo
non si traduce sempre in partecipazione alle nostre riunioni e incontri.
D’altra parte, in edilizia molto spesso i delegati e
dirigenti sono capicantiere, esprimono professionalità non facilmente
sostituibili, e spesso è così anche negli impianti fissi.
Mentre evidenziamo i nostri risultati, siamo
consapevoli anche dei nostri limiti:
non sempre riusciamo ad essere tempestivi nelle
risposte, abbiamo carenze nella nostra capacità di informare. Non è andato
avanti il progetto di coinvolgere delegati nella preparazione dello strumento
di informazione, il giornalino, che riusciamo a far uscire meno, nonostante la
collaborazione con il regionale.
Abbiamo una presenza insufficiente in alcune zone,
Alte/Montecchio e Chiampo in particolare, dove abbiamo garantito la permanenza
settimanale e poco più.
Abbiamo ragionato con INCA e Ufficio vertenze per
garantire tempestività nelle risposte in termini di tutele individuali e
prestazioni previdenziali, e con la CGIL per attrezzarci sul piano dell’informazione.
Abbiamo un grande punto di forza: è la forte
coesione che c’è tra noi funzionari, innanzitutto, con i delegati e le
delegate, ed il positivo rapporto, anche umano, con gli iscritti e i
lavoratori. Sono elementi preziosi da non disperdere.
Con il contributo del nazionale e del regionale
Fillea e, siamo sicuri, della CGIL, nel corso del 2002 vogliamo avviare un
progetto di ridislocazione nelle zone per coprire tutto il territorio
provinciale con la presenza di un funzionario in ogni zona, anche quelle oggi
scoperte, puntiamo ad allargare la rete delle delegate e delegati, a partire
dal rinnovo delle Rappresentanze Sindacali Unitarie in edilizia, ad ampliare la
presenza negli impianti fissi e continuare nel trend di crescita tra i lavoratori
edili.
Ci aspettano momenti delicati. L’andamento generale
dell’economia prima o dopo si rifletterà anche sull’andamento dei nostri
settori. Dovremo attrezzarci per reggere la nuova situazione che si presenterà,
sapendo che i padroni tenteranno di approfittarne per indebolirci
ulteriormente.
Già oggi siamo in presenza di qualche situazione
delicata. All’ARC LINEA di Caldogno stiamo gestendo una difficile trattativa
sulla riduzione di personale. Il nostro obiettivo, condiviso unitariamente, è
non lasciare solo, senza prospettive, nessun lavoratore. L’impegno dei delegati
e della Fillea è il massimo. Abbiamo in questi anni superato difficoltà, c’è
stata anche qualche polemica, tra noi,
ma alla fine abbiamo tenuto e questo ci ha permesso di tornare a far scioperare
lavoratrici e lavoratori Arc Linea, oltre che a iscrivere alla CGIL altre
lavoratrici e lavoratori.
Abbiamo poi, come già ricordato, il rinnovo dei
bienni contrattuali e la contrattazione provinciale in edilizia, insieme al
rinnovo del contratto regionale del legno artigiano, altro settore su cui
indirizzare il nostro lavoro.
Finora su questi appuntamenti i rapporti con Feneal
e Filca, a livello locale e nazionale, hanno tenuto, e noi siamo impegnati a
continuare così.
Veniamo però, non ce lo dobbiamo nascondere, da anni
in cui l’iniziativa unitaria è stata debole e, in molte occasioni, assente.
Diciamo che più che unità d’azione c’è stata separazione senza conflitti
violenti. Non avremmo retto, forse, neppure la situazione dei separati in casa.
Questa difficoltà di rapporti unitari indebolisce
tutti, soprattutto nella capacità di analisi e di individuazione di ipotesi di
lavoro che rispondano davvero alle domande che esprimono i nostri lavoratori. E
ciò è grave perché le nostre controparti sono molto aggressive, anche qui da
noi.
Un solo esempio: la nostra presenza negli Enti
bilaterali è quasi sempre a rimorchio delle indicazioni o delle scelte
dell’ANCE. Ci manca una proposta unitaria e quindi ogni nostra idea, quando
c’è, viene scartata, proprio perché le controparti giocano sulle nostre
divisioni.
Siamo riusciti a passare con un risultato importante
sulle prestazioni, ma soprattutto perché abbiamo avuto la capacità di trarre vantaggio
dall’applicazione del protocollo regionale.
C’è il rischio che passi l’illusione che sia la
costruzione di rapporti privilegiati con le controparti a portare a risultati.
L’esperienza insegna che se risultati conseguenti a nostre divisioni arrivano,
sono per i padroni. Neppure l’illusione di qualche, temporaneo, successo
organizzativo può nascondere questa verità.
Noi ribadiamo la nostra volontà di puntare a
rafforzare i rapporti unitari e riconfermiamo i comportamenti che abbiamo
tenuto in questi anni, perché abbiamo, credo, verificato tutti che i lavoratori
ormai non ci capiscono più, quando ripassiamo più volte a chiedere loro la
reiscrizione e la disdetta ad altra organizzazione. Aumenta il numero di coloro
che dicono: “lasciatemi in pace”.
Abbiamo lavorato per diminuire la tensione nei
rapporti tra noi e stemperare la competizione basata sulle disdette reciproche,
anche se non siamo riusciti a raggiungere un patto scritto tra organizzazioni,
che sarebbe stato, anche psicologicamente, più vincolante per tutti. Proponiamo
perciò di rivedere e riaggiornare l’accordo stipulato nel 1995, per ridare
slancio all’iniziativa unitaria, soprattutto a quelle iniziative che comportano
confronto di idee e elaborazione di proposte.
C’è un grande bisogno di idee e proposte se
vogliamo, come dice lo slogan del nostro Congresso, costruire la qualità e
ridare valore al lavoro nelle costruzioni, intendendo per tali, naturalmente,
non solo le imprese edili, ma tutti i comparti che organizza la nostra categoria.
Vediamo tutti la situazione nelle fabbriche e nei
cantieri e constatiamo ogni giorno come il lavoro sia poco riconosciuto, sia
dal punto di vista economico che da quello sociale. Valorizzare sul piano
sociale il lavoro nelle costruzioni, qui sì quello edile in particolare, è
altrettanto importante che conquistare miglioramenti sul piano dei trattamenti.
Un lavoro qualificato, salubre, pagato come si deve
crea le condizioni per realizzare un prodotto di maggiore qualità: se pensiamo
a ciò che realizzano i lavoratori impegnati nei nostri settori, è subito chiara
l’importanza che assume questo lavoro nella società.
Anche per quanto riguarda la qualità dell’abitare, i
nostri settori rivestono grande importanza. Gli effetti poi si ripercuotono
sulla qualità del vivere nella città. In questi anni non siamo riusciti a
produrre niente su questo terreno: non ci siamo riusciti noi e non c’è riuscita
la CGIL, a Vicenza.
Da questo punto di vista noi diciamo alla CGIL che
deve prestare maggiore attenzione alla nostra categoria. Non ci sentiamo certo
i parenti poveri, siamo la seconda categoria tra gli attivi, dopo i
metalmeccanici, ma non vorremmo che la nostra attenzione al fare, più che
all’apparire, possa portare la CGIL a non accorgersi della quantità e qualità
(nel bene e nel male) dei processi che interessano i nostri settori. Pensate al
tema della città, richiamato sopra.
O pensate, in negativo, ai processi che interessano
il settore edile sul piano della destrutturazione delle imprese, e come questo
modello venga successivamente riprodotto negli altri settori.
E’ vero che noi, molto spesso, presi dall’attività
quotidiana, abbiamo poco tempo per far conoscere e valorizzare le cose, pur
pregevoli, che facciamo. Pensate alla contrattazione che abbiamo svolto negli
ultimi anni. Certo, non abbiamo stravolto niente, ma qualche innovazione, anche
nella contrattazione dei premi di risultato l’abbiamo introdotta: penso a
quanto contrattato dalla R. S. U. Sadi, ma non solo.
Dovremo trovare le occasioni per scambiarci di più
idee e valutazioni, tra noi e la CGIL.
In questo nostro Congresso, tra gli altri, dovremo
eleggere i nostri rappresentanti nel Direttivo regionale della Fillea. Il
regionale non sarà istanza congressuale, ma diventerà struttura di secondo
livello, sempre in sindacalese.
Vuol dire che quel Direttivo, così eletto, potrebbe
decidere modifiche alla struttura regionale: per esempio passare dal
coordinatore al segretario regionale. Apparentemente non significa granché, in
realtà si tornerebbe ad una struttura congressuale regionale, superando
l’attuale organizzazione.
Su questo riconfermo la posizione della Fillea
vicentina: noi abbiamo avuto modo di apprezzare il modello organizzativo basato
sul coordinatore regionale che mantiene l’incarico di segretario provinciale di
un territorio, coadiuvato dall’esecutivo regionale composto dai segretari delle
7 provincie venete e riteniamo che sia utile riconfermarlo. Questa posizione
sosterremo anche nel dibattito che si aprirà nelle Fillea regionale all’inizio
del prossimo anno.
Nell’ultimo mese abbiamo tenuto 56 assemblee
d’azienda o impresa e 9 assemblee territoriali. Abbiamo coinvolto più di mille
iscritti, pari al 34% del totale.
A questo nostro congresso partecipano 75 delegate e
delegati eletti nei congressi di base. Le delegate, come sempre nei nostri
settori, purtroppo sono poche. A questo proposito il nazionale ci chiede di
approvare una modifica allo statuto che discuteremo oggi.
Il nostro dibattito è stato sereno, senza nascondere
le differenze, che ci sono ma che, ribadisco, dobbiamo iniziare a superare. E’
la situazione che abbiamo davanti che lo richiede. E’ la necessità di tutelare
i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori che ci impone di ricercare le
mediazioni necessarie a far uscire dai congressi una CGIL unita.
Abbiamo avuto la capacità, nel nostro dibattito
congressuale, di valorizzare le differenze, più che accentuare i contrasti di
opinione, che pure ci sono, com’è giusto, in una organizzazione democratica e
pluralista come la nostra.
A questo congresso abbiamo invitato, oltre ai
responsabili di Feneal e Filca, che poi ci diranno il loro pensiero, alcuni ex
delegati e dirigenti della Fillea. Li abbiamo invitati perché siamo convinti
che il futuro si può progettare meglio conoscendo il passato, imparando dalla
storia. Non siamo tra coloro che per dimostrarsi nuovi buttano alle ortiche
storie gloriose, anche se, certo, piene di contraddizioni. D’altra parte l’idea
di una storia lineare è stata sconfitta dalla storia stessa.
Prima di concludere permettetemi di ringraziare
tutte e tutti voi, delegate e delegati
ma, in particolare Toni, Fabiola, Valter e Luca che mi hanno aiutato e hanno
lavorato sodo, per arrivare fino a qui. Insieme dobbiamo andare più avanti.
Grazie ancora a tutti voi e buon lavoro a noi tutti in questa giornata.