Care delegate/i, Signori invitati,

 ho l’incarico di aprire, a nome della Segreteria, questo VI° Congresso della Fillea Cgil di Bergamo.

Ad un anno dalla nostra elezione siamo qui a relazionarvi, a rendervi conto, ad iniziare con voi un percorso, una discussione, che ci porterà al rinnovo del gruppo dirigente e a dibattere con voi della Cgil, delle politiche di prospettiva, delle tante e complesse problematiche aperte, della visione del mondo del lavoro e del sindacato che ci sono dentro e fuori la nostra organizzazione.

Il contesto internazionale, dopo la tragedia dell’11 settembre che ha colpito migliaia di cittadini e lavoratori inermi, ci consegna una situazione dai connotati nuovi e preoccupanti e ci fa ribadire la nostra ferma e risoluta condanna del terrorismo, che innesca pericolose ed inquietanti divisioni etnico-religiose alimentando paure, insicurezze, posizioni xenofobe e razziste nei confronti di chi è ritenuto diverso e perciò nemico.

L’inquietudine che sembra pervadere l’umanità, gli orizzonti di un futuro immediato dalle forme difficilmente individuabili, le idee che si profilano nel nostro paese dopo le elezioni del 13 maggio ci devono indurre a riflettere, ad elaborare proposte, a pensare soluzioni.

In Italia gli attuali connotati di valori, di società, di rapporti e di dinamiche sociali, di teorie economiche marcatamente liberiste mettono in discussione l’idea stessa che noi abbiamo della difesa del lavoro e del sindacato, rendono più vulnerabile il lavoratore e mettono in discussione la rappresentanza collettiva del sindacato.

I documenti congressuali, pur nella legittimità delle posizioni, mettono in luce un’analisi storica ed economica talmente diversa da sembrare inconciliabili.

Davanti all’offensiva della destra economica e sociale, tenteremo, anche con questo congresso, con voi tutti, di dare risposte serie, adeguate e lungimiranti, con un gruppo dirigente che deve avere sempre presente la sua “mission”: il lavoro ed i lavoratori.

“In difesa dei lavoratori c’è un sindacato all’attacco”, dice lo slogan della Camera del lavoro.

Ne siamo certi, noi terremo fede a quest’impegno.

Abbiamo discusso le tesi in tantissime assemblee di fabbrica, di cantiere, serali, pur con le difficoltà storiche e quelle nuove della nostra categoria, ma con l’impegno rinnovato a fare sempre meglio.

Abbiamo organizzato centinaia di assemblee, hanno partecipato più di 2000 iscritti; il documento “Diritti e lavoro in Italia e in Europa” ha ottenuto il 97,5% dei consensi, il documento “Lavoro e società, cambiare rotta” il 2,5%.

Abbiamo battuto a tappeto il territorio coinvolgendo nel dibattito congressuale molti lavoratori edili.

Era il nostro obiettivo prioritario, siamo dunque soddisfatti, perchè i risultati hanno premiano il nostro sforzo.

I temi centrali su cui ruotano molti comportamenti in tema di politiche industriali, mercato del lavoro e retribuzione sono indubbiamente quale sviluppo e quale impresa.

In un mercato aperto e globalizzato, con tutte le grandi opportunità che esso offre, il sistema economico e produttivo deve scegliere dove collocare il suo livello di competizione.

La scelta, forse più semplice, di un livello basso porta con sé la conseguenza di rivedere la sfera delle relazioni sociali ed industriali e la necessità, dentro una competizione solo di costi, di modificare i meccanismi che regolano tutele e diritti.

Peraltro, la competizione mondiale, le cui regole spesso sono dettate da soggetti che sfuggono al controllo democratico dell’economia, ha portato a situazioni di vero sfruttamento, con milioni di persone che, per bisogno, devono accettare queste condizioni.

Questo modello di sviluppo, per qualsiasi paese avanzato, agisce sulle tutele, sui diritti, sui meccanismi di protezione sociale, sui ritmi di vita e di lavoro, mette al centro del sistema solo ed esclusivamente il capitale.

I bisogni dei singoli, della collettività, devono sottostare alle sue decisioni e alla sua remunerazione.

Lo stato sociale, gli ammortizzatori sociali, il sistema previdenziale devono agire dentro le sue compatibilità.

I modelli concertativi divengono lungaggini che intralciano, bisogna quanto prima anticipare la riforma delle pensioni e ridurre al minimo gli ammortizzatori sociali.

I tempi di vita e di lavoro sono scanditi dentro questo contesto e il modello di competizione viene deciso mettendo da parte le politiche concertative, partecipative, che tanto hanno dato al successo di questo paese, e che hanno, nella loro filosofia, la valorizzazione del coinvolgimento collettivo ed individuale.

La CGIL ha impostato la sua battaglia sulle questioni dei diritti, sullo sfruttamento dei minori, sulla sicurezza, ecc.:

“ I bambini a studiare ed i grandi a lavorare”, diceva uno slogan.

 Sostanzialmente, nel nostro paese, il panorama macroeconomico e produttivo ci offre sul fronte dello sviluppo visioni molto diverse, in antitesi tra loro. Una visione punta su uno sviluppo di qualità e, dentro questo contesto, vuole recuperare competitività, nicchie alte di mercato; l’altra vede esclusivamente come soluzione al problema della competitività  la compressione dei costi.

Questo probabilmente, e non altro, è il motivo dello scontro che c’è nel paese, modificando anche l’orientamento politico del grande capitale.

Ciò sta a significare l’incapacità di una cultura imprenditoriale di pensare ad un sistema più avanzato, più europeo, che coniughi la questione dei costi con la qualità di processo e di prodotto.

I risultati di tutto questo sono sotto i nostri occhi: più flessibilità ad uso del padrone, deregolazione del mercato del lavoro, riduzione delle tutele e dei diritti, meno stato sociale, cioè l’impostazione di Confindustria e dell’attuale Governo.

Noi la scelta l’abbiamo già fatta, vogliamo cioè un sistema industriale, uno sviluppo di qualità che colga le esigenze del lavoro: impresa e lavoratore, che abbia al centro dell’obiettivo qualità di processo, di prodotto, la valorizzazione professionale ed umana, una flessibilità, dentro questa visione e la formazione professionale continua come volano di queste politiche.

 Qual’è lo stimolo per un giovane ad entrare nel settore edile? Un lavoro pesante e mal remunerato, o un percorso di lavoro e formativo che renda visibile lo sviluppo della sua carriera professionale e lo accompagni durante la sua vita lavorativa, che dia soddisfazione economica e personale, che lo valorizzi? Un lavoro precario, magari in nero o in grigio, o un lavoro sicuro, creativo, soddisfacente, dove i diritti siano garantiti ed esigibili?

Qualcuno (Confindustria e Governo) vuole accreditare l’idea che la perdita di competitività dipenda da responsabilità esterne all’impresa, vale a dire lo Stato e il sindacato. L’uno inefficiente, che fa pagare troppe tasse e contributi, che non taglia il costo del lavoro e quindi va cambiato, “privatizzato”; l’altro è un ferro vecchio che frena lo sviluppo perché mette tutele e diritti al primo posto.

Secondo noi la diminuzione dei livelli di competitività del sistema si annida in una classe imprenditoriale incapace di pensare, di investire in una visione dello sviluppo dove il centro non è l’impresa ma il lavoro, la qualità dei suoi processi e dei prodotti e le grandi opportunità che esso dà di protagonismo, creatività, ma anche di giusta redditività.

Noi siamo convinti che queste visioni ci faranno perdere le grandi opportunità che la ripresa di questi anni potrebbe darci. Sicuramente la via scelta da padroni e Governo è la più facile, agisce quasi esclusivamente sui costi per recuperare la competitività perduta, abbassando il livello di diritti, di tutele, un mercato del lavoro precario, flessibilità in entrata ed in uscita, stato sociale ridotto al minimo, cioè un lavoratore meno protetto e facilmente ricattabile, soggetto all’arbitrio e alla discrezionalità del padrone.

Noi, la CGIL, saremmo il vecchio, l’obsoleto, quelli da escludere e Lorsignori il nuovo e il futuro.

L’idea che Confindustria e Governo hanno del mercato del lavoro, delle relazioni industriali, del dialogo sociale, del salario e della contrattazione sono ampiamente contenute in una recente pubblicazione del Ministero del Lavoro, “il Libro Bianco”, che annovera tra i principali autori lo stesso che ha curato il programma di Confindustria “Competitività e risorse umane: modernizzare la regolazione dei rapporti di lavoro”.

E' delineato un modello economico di tipo anglosassone (orientamento di Confindustria), mentre lo stesso modello economico è pura ipotesi in paesi a noi vicini (Francia, Germania e Spagna).

Le idee contenute nel libro sono esattamente il contrario di quello che ci serve: semplificare il sistema. C’è un miscuglio tra contrattazione collettiva nazionale, integrativi aziendali, contratti atipici di ogni sorta, tempo parziale, formazione, apprendistato, contratto europeo, ecc., accompagnato da un’eguale proliferazione nel collocamento con flessibilità in entrata ed in uscita, e per ultimo con contratti individuali.

Le retribuzioni diventano una costellazione di possibilità con contratti d'ogni sorta, diversi a seconda della produttività aziendale e della loro collocazione territoriale.

Tutto ciò con quale obiettivo? Destrutturare ogni forma esistente di creatività e pratica politica dei soggetti sociali organizzati e istituzionali, cioè rendere il singolo lavoratore più solo.

 Se questo è l’obiettivo vero, le soluzioni, auspicate dalla vera regia confindustriale, sono sicuramente efficaci.

In pratica si punta allo smantellamento della concertazione con le parti sociali sostituendola con il cosiddetto dialogo sociale, aprendo una miriade di tavoli sui singoli aspetti, il più ristretti possibile e comunque se non c’è consenso c’è chi decide, il Governo, anche contro qualcuno.

La logica, dunque, non è trovare soluzioni condivise che creano consenso, coesione sociale, ma decidere a qualunque costo, con la fobia liberista di escludere qualcuno.

L’occupazione deve passare dal 53% attuale al 58,5% nel 2000; l’obiettivo è sicuramente contenuto se si pensa che nel 1999-2000 è aumentata  di oltre il 2%.

L’occupabilità diventa la prima ideologia; in pratica il mercato del lavoro non tende più alla difesa del posto di lavoro, del singolo posto ma, attraverso un’adeguata flessibilità, crea nuovi posti di lavoro, quindi nuove opportunità, se la congiuntura lo permette.

Ed ancora, si teorizza che la competitività del sistema è falsata da una rigida ed uniforme politica retributiva. Il contratto nazionale deve dunque diventare l’ultimo scalino della contrattazione, i livelli retributivi sono stabiliti a livello locale, aziendale, individuale.

Le Regioni stesse avrebbero facoltà di discutere gli statuti del lavoro. Diritti quindi a geometria variabile. Il risultato di tutto questo? Flessibilità in entrata ed in uscita, il sindacato come soggetto di rappresentanza marginalizzato, contratto nazionale inteso come salario minimo garantito e la variabilità agganciata solo alla produttività e non già al contenuto del lavoro.

Dunque la produttività decide il salario e sullo stesso si scarica il recupero di competitività delle aziende e del sistema.

 Assume, di fatto, il ruolo che ha avuto la svalutazione competitiva, non più possibile col cambio fisso.

Un sistema di contrattazione che, in mano ai padroni del sistema e del sapere, scarica le sue debolezze competitive sul salario del lavoro dipendente.

In questo modo però non s'incoraggiano le imprese ad innovare i fattori che dipendono dalla loro iniziativa: la ricerca, l’innovazione tecnologica ed organizzativa, l’ingegno imprenditoriale, in ultima analisi, lo stimolo ad uno sviluppo di qualità.

Vi è la volontà dichiarata di smantellare definitivamente la politica dei redditi e della concertazione che ci ha permesso l’entrata nella moneta unica dalla porta principale.

Fino a quando c’e stata la necessità di mettere a posto i conti, di centrare i parametri di Maastricht quelle politiche andavano bene; oggi che c’è da progettare, da finanziare un nuovo futuro, che c’è da distribuire la ricchezza creata, al centro c’è l’impresa, i suoi bisogni e non più il lavoro.

Vi è dunque una chiara volontà restauratrice, di modificare il diritto al lavoro in senso marcatamente liberista.

Questo “furore liberista” ci porta lontano dall’assetto di regole che si va consolidando a livello europeo.

Nelle politiche attive per il lavoro, mentre l’UE ci rimprovera il ritardo nell’avvio dei Centri per l’Impiego, si pensa bene di affidare le attività di servizio al libero mercato, riducendo al minimo la funzione pubblica, identificata con l’anagrafe dei lavoratori e il controllo dello stato di disoccupazione ai fini del sussidio, che è quanto di meno “attivo” si possa immaginare.

Sull’imprenditorialità la raccomandazione europea è perché si attuino politiche di promozione dell’occupazione e di contrasto all’economia sommersa con il coinvolgimento delle parti sociali.

Vengono, invece, riproposte misure contenute nel pacchetto del “Governo dei 100 giorni” (che notoriamente non ha coinvolto attivamente le parti sociali), che hanno poca attinenza con l’occupazione e sono imperniate sul condono tombale.

Sul tema dell’adattabilità, il documento europeo c'invita a perseguire più flessibilità, mettendo però assieme gli aspetti per facilitare l’entrata all’accesso al lavoro con la stabilità, la responsabilità di trovare queste soluzioni spetta alle parti sociali, da parte del Governo si annuncia la volontà ad intervenire direttamente e si assume come modello l’accordo separato dei contratti a termine, operando una vera e propria provocazione.

Sulle pari opportunità, sul tema delle politiche mirate per i gruppi a rischio, si coglie l’occasione per promuovere la proposta di legge sull’immigrazione con il permesso di soggiorno legato alla durata del contratto di lavoro a tempo, poi scatta l’accompagnamento coatto alla frontiera, pur sapendo che le indicazioni dell’Unione Europea vanno nella direzione opposta.

L’individuo, la sua libertà, l‘aspirazione ad una vita migliore per sé e per la propria famiglia, il suo diritto di cittadino del mondo, assumono nella scala dei valori un significato simbolico, un diritto non esigibile, almeno non quanto il capitale.

C’è la moneta unica, c’è la libera circolazione dei capitali e delle merci, ma non delle persone fisiche.

Quale sviluppo e quale impresa possono uscire da questo quadro, quale impresa futura si vuole prospettare?

Le piccole imprese sino a 49 addetti costituiscono il 98% del totale, l’87% con meno di 10 dipendenti.

Questa fitta rete di piccoli e medi nuclei produttivi, con connotati di flessibilità e creatività, sono stati e sono capaci di competere singolarmente.

Ma a questi livelli difficilmente è possibile trovare una cultura del modello organizzativo e produttivo in grado di dare stabilità competitiva e, soprattutto, affrontare prospettive stabili di competitività, non solo della singola impresa, ma dell’ intero sistema.

 E’ finita la stagione delle grandi aziende pubbliche e private che hanno fatto la storia, non solo economica, del nostro Paese. Sistemi aziendali e produttivi che hanno fatto scuola non solo in Italia, che hanno prodotto i migliori cervelli, che vivevano tutti i giorni il confronto con la qualità del lavoro, la formazione, la valorizzazione e l’incentivazione della persona, ecc..

Questi sono gli scenari e gli orientamenti cui saremo chiamati a dare una risposta e che peseranno sui “diritti del lavoro in Italia e in Europa”, come li ha chiamati Cofferati nel suo documento congressuale, a cui la segreteria della Fillea-Cgil di Bergamo fa riferimento. A queste tematiche, vitali per il futuro di milioni di persone, delle nuove generazioni, il sindacato deve dare una risposta.

Quale sindacato? Con quali strumenti? Con quali rappresentanze? Con il mandato di chi?

Esistono visioni diverse del sindacato e del suo futuro.

Vi è una concezione di un sindacato esterno all’azienda, che gestisce i servizi, il mercato del lavoro (magari con qualche società vicina), contratta a nome e per conto dei lavoratori (o meglio dei propri iscritti), salvo chiedere verifica solo ai Congressi, riducendo di fatto ad un ruolo minimo la rappresentanza in fabbrica, la partecipazione è garantita con l’azionariato dei lavoratori.

La nostra, invece, vede un sindacato che risponde quotidianamente del suo operato, che ha nelle rappresentanze dentro e fuori il luogo di lavoro i suoi terminali intelligenti che discutono e contrattano salario, organizzazione del lavoro, nuovi diritti, politiche industriali, partecipano in modo non subalterno alle scelte dell’impresa ed hanno nel loro dna “ il grande cuore del lavoro”.

Rappresentanze che devono avere una legge di supporto, che le riconosca come soggetti attivi, con potere negoziale e di rappresentanza e che definisca regole esigibili di verifica.  Un sindacato che fa anche servizi, ma che non trae legittimazione in quanto altri lo delegano nella gestione, ma un’organizzazione che è legittimata dal consenso dei lavoratori, che per conto loro contratta e chiede il loro parere sull’operato.

Dentro questo quadro, anche se semplificato, il tema dell’unità del sindacato, pur nelle difficoltà oggettive, deve trovare la forza, le idee, le decisioni per soluzioni importanti.

La riorganizzazione delle produzioni, delle aziende ha portato senza dubbio problematiche nuove come la terziarizzazione e la esternalizzazione di segmenti produttivi. Nel frattempo la nuova organizzazione mette in crisi un sistema di regole, di diritti e di normative contrattuali.

C’è un mondo delle alte professionalità che l’impresa vuole fidelizzare, dall’altro professionalità povere, il cui utilizzo è a discrezione dell’impresa che ne decide, sulla base delle sue esigenze, il livello di flessibilità.

La CGIL conferma la struttura contrattuale basata sui due livelli:il contratto nazionale, che ha consentito tutto sommato una tenuta nel potere d’acquisto lordo delle retribuzioni (semmai vi è un problema di carattere fiscale, su cui pesa la posizione di Confindustria e Governo, interessata ad orientare le politiche redistributive sull’impresa), deve avere un carattere universale e solidaristico e, in presenza di un buon andamento del settore, può anche redistribuire parte della produttività;la contrattazione integrativa, territoriale per le piccole aziende nei casi di omogeneità di filiere produttive, o aziendale per le altre.

E’ necessario, però, il rilancio di politiche partecipative in grado di accedere alle strategie dell’impresa.

Vanno altresì definite, per le professionalità alte, politiche rivendicative in grado di costruire indicatori generali e, nel contempo, lasciare spazio anche ad un confronto lavoratore/impresa che oggi, sostanzialmente, ci vede fuori gioco.

I contratti nazionali dei nostri settori recentemente siglati, sia pure con risultati non eclatanti, sono contratti puliti, senza riferimenti ad alcuna sorta di acconti o altro, anche se, nel percorso del confronto, mostrano i limiti di concezioni diverse del sindacato e della democrazia di mandato.

Va comunque sottolineata la buona tenuta dei rapporti unitari.

Dall’ultimo congresso ad oggi ci sono state molte novità anche per i settori ad impianto fisso. Tenterò brevemente di illustrare le problematiche che abbiamo affrontato.

Dopo la conclusione dei Ccnl, nel contesto dell’accordo del luglio ’93, che rendeva di fatto esigibile la contrattazioni nazionale ed aziendale, il fatto innovativo riguardava sostanzialmente il tipo di contrattazione legata ad obiettivi ed indici aziendali.

Ci siamo inoltrati in un terreno per noi nuovo e quindi costellato da incognite e dai risultati incerti.

In quel contesto va ricordato il grande sforzo formativo che tutta l’organizzazione ha svolto.

Guardare dentro l’azienda, nel senso più ampio del termine, vedere quali erano le aree di miglioramento, gli obiettivi possibili, anche alla luce di una mentalità imprenditoriale che non ci ha reso il compito facile. Anzi, quella cultura e l’abitudine nostra e dei nostri lavoratori a ragionare sui vecchi premi di produzione, e non già su parametri variabili, ci ha creato non pochi problemi.

Il tema spesso centrale nel confronto con le aziende, e non solo, fu la questione legata ai soli indici di redditività.

L’atteggiamento della nostra organizzazione è sempre stato improntato a privilegiare indici partecipativi che misurassero l’apporto che il lavoro dà in termini di produttività, qualità, ecc..

Oggi possiamo affermare che il dato positivo non è solo quantitativo (abbiamo, infatti, realizzato la contrattazione aziendale nelle nostre aziende tradizionali ed in alcune piccole realtà che fino ad allora non avevamo toccato), ma anche in termini qualitativi. I recenti rinnovi 2000-2001 hanno migliorato le esperienze di quel periodo.

Citiamo solo alcuni esempi per problemi di spazio e di tempo: l’accordo Novem, dove, oltre ad indici di redditività, ci sono indicatori legati alla produttività ed un'interessante soluzione sui parametri di qualità, legata anche ad una commissione per l’analisi degli indicatori e dei risultati.

Analoga soluzione è stata individuata per il gruppo Magnetti (LARCO ASTORI). L’ultima trattativa ha modificato gli indici diminuendo l’incidenza della redditività ed elevando qualità e produttività.

La problematicità degli integrativi di gruppo Italcementi, che sono comunque delle contrattazioni centralizzate, hanno avuto risultati economici accettabili ma hanno mostrato tutti i limiti partecipativi. L’ultima piattaforma che tentava di spostare una parte del controllo degli indicatori a livello aziendale, ha ricevuto una netta chiusura delle controparti. La questione più delicata è sicuramente la quota relativa all’incidenza sugli infortuni, che secondo noi non possono prefigurare alcuna monetizzazione del rischio. La Fillea di Bergamo si è opposta ad altre interpretazioni, non solo aziendali, tendenti a legare questo indice al salario.

Abbiamo rifiutato questa logica, ci siamo battuti ed infine è prevalsa, la nostra idea.

Il problema della sicurezza, degli infortuni e dell’ambiente di lavoro sono temi che devono stare dentro la cultura d’impresa.

Accettando impostazioni monetaristiche di questo tipo si finisce per scaricare solo sul lavoratore la responsabilità delle problematiche legate alla prevenzione.

Per ragioni di tempo non possiamo affrontare altri integrativi aziendali ugualmente meritevoli d'analisi. Cito solo, per ultima, l’Ipa che, dopo undici anni di vacanze contrattuali o per meglio dire di contrattazione sulla cassa integrazione e sulla mobilità, pure in una situazione molto difficile, si è chiusa la trattativa con un contratto aziendale, sia pur transitorio.

Questo risultato va rimarcato per l’eccezionalità della situazione, che aveva messo in serio pericolo la continuità dell’azienda stessa.

Sicuramente l’andamento produttivo ed economico dei settori ad impianto fisso e dei vari comparti hanno facilitato la contrattazione aziendale.

Lo stesso rapporto con i lavoratori che in queste situazioni si crea si tramuta in risultati organizzativi, spesso impensabili, anche sotto l’aspetto del proselitismo.

Nel legno superiamo il dato del 1996 di quasi l’11%, nei manufatti in cemento del 2,5%, nei lapidei confermiamo quel dato, mentre nel cemento, vista anche la situazione occupazionale che si è venuta a creare, perdiamo alcuni punti percentuali.

Il dato complessivo degli impianti fissi conferma dunque la tendenza positiva già in atto nel 2000.

Va rimarcato che l’andamento positivo del tesseramento e il buon livello di contrattazione sono stati possibili grazie al grande ruolo delle nostre RSU, che in tutte le aziende hanno svolto un lavoro determinante sotto l’aspetto contrattuale e sono state un punto di riferimento insostituibile per tutta l’Organizzazione.

Nel settore edile la situazione è molto più complessa.

Si preannuncia problematica la stagione già avviata sia per l’accavallamento dei due livelli di contrattazione che per le posizioni dell’Ance.

La rottura consumata nei giorni scorsi in sede nazionale, dove non è stato possibile fissare il tetto per gli integrativi provinciali, mette in luce le distanze delle posizioni.

L’Ance ha esplicitato la sua indisponibilità a trattare, se non in presenza di provvedimenti decontributivi contenuti nella finanziaria. Non siamo certamente d’accordo.

Non devono essere i lavoratori edili a pagare se qualcuno non mantiene fede alle cambiali elettorali.

A livello territoriale stiamo procedendo con le assemblee nei luoghi di lavoro, cui seguirà lo sciopero provinciale previsto per il 23 novembre.

Le iniziative continueranno il 10 dicembre con un attivo dei delegati edili, dove verrà presentata l’ipotesi definitiva della piattaforma provinciale per la sua approvazione.

La contrattazione integrativa provinciale, sia pur importante, non è il solo momento di confronto sindacale. Ci sono gli enti paritetici che applicano le pattuizioni tra le parti sociali: le casse edili, i comitati paritetici territoriali per la sicurezza (che gestiscono pezzi importanti della prevenzione, ecc.), la scuola edile (vero fiore all’occhiello anche fuori dal nostro territorio), l’ARS, che è l’associazione degli RLST dell’industria.

Oltre ai rinnovi dei CCNL industria ed artigiano, abbiamo in questi anni concluso la contrattazione territoriale per i due comparti.

Gli integrativi territoriali scorsi, con indicatori variabili, hanno portato risultati soddisfacenti centrando l’obiettivo che c'eravamo posti.

E’ importante sottolineare anche altri accordi quali la reciprocità, e cioè il riconoscimento da parte delle casse edili delle ore lavorate presso le imprese iscritte all'edilcassa; l’accordo raggiunto con le associazioni artigiane per la costituzione degli RLST artigiani; la creazione dell’Associazione Temporanea di Scopo (ATS), che gestisce i corsi per gli apprendisti edili. Resta tuttavia aperta la questione relativa all’unitarietà degli enti.

L’unicità del settore, del cantiere, dei problemi della sicurezza deve avere una risposta di comportamenti omogenei, di strutture che operano in modo unitario.

L’accordo nazionale, che ha avviato il percorso, stenta a decollare, i diversi interessi tra le associazioni imprenditoriali, le diverse forme e concezioni della rappresentanza, le diverse mentalità imprenditoriali non giovano a favore dell’intesa.

Per il sindacato è troppo importante che il settore abbia enti paritetici che interagiscano sempre di più tra loro per facilitare una vera unitarietà.

Questo è un percorso arduo ma che vale la pena di affrontare.

Lo sviluppo, il ruolo degli enti paritetici è oggetto di tante riflessioni.

 La necessità che questi enti non vengano vissuti come enti burocratici, ma funzionali al settore, ci deve far fare un salto di qualità sotto l’aspetto dei servizi e della semplificazione delle procedure. Sempre di più dovranno essere enti vicini ai lavoratori e alle imprese, dovranno cioè essere, oltrechè strumenti d'applicazione contrattuale, enti che erogano “servizi”, diritti altrimenti non esigibili.

Si pensi che il settore, tolte una piccola parte di imprese che superano i 49 dipendenti, ha una media addetti/impresa di circa due dipendenti.

 Pensiamo a queste microimprese ed alle loro difficoltà nell’ottemperare a dispositivi di legge e contrattuali, ad esempio nell’organizzare le visite mediche, corsi di formazione antinfortunistici, corsi per titolari, ecc..

Questi enti, sia pur in un ruolo complementare alla contrattazione, hanno bisogno a nostro avviso di un rilancio in termini d'efficienza, efficacia e di rapporto con l’utenza, cioè di qualità.

La Cassa Edile ha avviato un percorso per la certificazione di qualità, che coinvolgerà i lavoratori della stessa in percorsi formativi mirati, l’organizzazione del lavoro, quindi il modo di operare.

L’Edilcassa, forse per prima in Italia, ha ottenuto la certificazione del sistema di qualità (Vision 2000) ed ha già messo in atto, in via sperimentale, una semplificazione del sistema delle denuncie e dei pagamenti mensili, che rende più agevole il rapporto tra i vari soggetti che con essa interagiscono.

 Il mondo del lavoro edile cambia, entrano nuove figure, nuovi soggetti, il lavoro autonomo che sempre più interagisce nel cantiere, soggetto importante, specializzato nelle subforniture, nel subappalto. Deve cambiare l’impresa. Il cantiere, la sua organizzazione complessa, dove figure diverse, professionalità diverse, mestieri diversi si organizzano e si intrecciano nell’esecuzione programmata dei lavori, nella sicurezza, hanno la necessità di avere un’impresa che basi il suo operare dentro un circuito virtuale di qualità, un’impresa “a rete”, dove l’impresa principale progetta, esegue, organizza e risponde del suo operato. Un’impresa esecutrice ed una miriade di soggetti che operano nel cantiere, che si coordinano dentro il quadro tracciato dall’impresa ed hanno collettivamente e soggettivamente le loro responsabilità.

Le problematiche del settore, dell’impresa sono note: concorrenza sleale, lavoro nero, lavoro grigio, precarizzazione del lavoro, sottocapitalizzazione, limiti dimensionali, mancanza di formazione professionale, pochi investimenti ed innovazione sono alcuni aspetti evidenti.

Costruire un futuro di qualità è lo slogan che utilizziamo nei nostri congressi: questa può diventare la risposta.

Occorre, secondo noi, un nuovo processo d'industrializzazione per sconfiggere le condizioni di precarietà del settore e dell’impresa stessa, che sempre più si parcellizza e sempre meno, da sola, è in grado di fare ricerca, innovazione, formazione, di programmare e pianificare il suo futuro.

Vanno create, incentivate, società di servizi, consorzi, che sappiano dare una consulenza vera alla microimpresa sotto l’aspetto della formazione, dell’innovazione di processo e di prodotto, dobbiamo, in ultima analisi, far confrontare l’impresa con la qualità.

L’impresa non deve scegliere la via della sopravvivenza, dello sviluppo basso. In edilizia il problema non è la rigidità del lavoro. Non serve l’aumento di flessibilità come sostiene l’Ance.

Più del 65% dei dipendenti lavora in aziende sotto i 16 dipendenti, per le quali, come è noto, non è operante l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori.

In edilizia c’è il licenziamento per fine cantiere e addirittura per fine fase lavorativa.

Del resto a Bergamo il problema è come reperire manodopera.

L’aumento della flessibilità sarebbe un ulteriore disincentivo agli investimenti, scaricando i costi della competitività sui lavoratori e sui loro diritti.

Và detto che anche da noi vi sono punti d'eccellenza, imprese che operano in qualità con politiche industriali mirate, che hanno dunque scelto un profilo alto di sviluppo.

Abbiamo commissionato ad un esperto l’analisi dei bilanci delle imprese edili con più di 49 addetti.

Lo studio interessa un arco temporale di tre anni dal 1998 al 2000, coinvolgendo 14 imprese edili rappresentative, che movimentano 600 mld e 2000 lavoratori circa.

I volumi produttivi presentano una costante crescita, mentre i margini industriali rimangono complessivamente positivi e stazionari.

Dallo studio emerge un'impresa non dissimile da quanto fin qui teorizzato.

L’azienda media edile bergamasca non è sufficientemente capitalizzata, né equilibrata finanziariamente, ma con valori non preoccupanti ed in miglioramento storico.

Infatti, le risorse proprie dell’azienda sono il 16% del capitale totale impiegato, queste, sommate al TFR disponibile, diventano il 21%, a fronte di una necessità del 26% di immobilizzi netti.

Mentre i debiti a breve sono il 70% del fabbisogno aziendale a cui si contrappone il 73% delle disponibilità aziendali (crediti, liquidità e beni di magazzino).

La redditività finale (utili) del capitale degli azionisti (utile) è del 6%, di questo il 2% è distribuito agli stessi, mentre il restante 4% rimane  in azienda ad incremento dell’autofinanziamento.

L’occupazione cresce mediamente del 4% (2000 su 1999), il valore prodotto dalle aziende aumenta in media del 9% e gli investimenti diminuiscono del 10%.

L’impresa ogni anno rinnova il 10% dei propri mezzi di produzione con un impegno finanziario inferiore alle capacità di autofinanziamento.

Pur rinnovandosi l’azienda edile bergamasca potrebbe permettersi, in termini anche finanziari, di più di quello che investe.

Ha rapporti commerciali equilibrati: 120 giorni da clienti e 130 giorni a fornitori.

I valori di gestione aziendale, vale a dire di competizione, sono dati dal 40% dai costi di gestione, per il 30% dalle materie prime e semilavorati, un costo del lavoro del 20% ed un cash flow del 5,3%.

Un dato, tra i più indicativi, è che in costanza dei prezzi di vendita, ha un’efficienza del personale, procapite, di 317 milioni nel 1998, 340 nel 1999 e 368 nel 2000;  un + 16% sul 1998 e un +8% sul 1999, con un aumento del costo del lavoro del solo 4% (ci sono spazi, dunque, per fare i contratti).

Anche “l’impresa di costruzioni Bergamo” soffre dei mali già ampiamente descritti: poca innovazione, competizione sui costi, investimenti solo di sostituzione, ecc..

Questa situazione è abbastanza generalizzata, ma ci sono anche imprese che vanno nella direzione opposta e che, con tante difficoltà, investono per ritagliarsi nicchie di mercato d'elevato livello qualitativo.

Oggi si può cambiare rotta, lo sviluppo sostenibile ha bisogno della qualità dei processi e dei prodotti, di una politica delle infrastrutture legate alla valorizzazione del territorio, del patrimonio abitativo, urbano, ambientale e deve saper accettare la sfida della riorganizzazione delle città e del territorio.

Ma il vero salto di qualità del settore, dell’impresa di costruzione è l’investimento sul capitale umano che ne è la sua risorsa prima ed insostituibile, dalla progettazione all’esecuzione; il suo vero valore aggiunto. Investire su quel capitale per renderlo più ricco, per farlo crescere nei diritti, nel salario, nella creatività e nella conoscenza significa investire nell’impresa stessa.

L’andamento del settore negli ultimi due anni ha visto un andamento molto positivo con una ripresa marcata.

Nel solo 2000 il valore della produzione ha sfiorato in Italia i 270.000 mld; a livello regionale il giro d’affari è vicino ai 49.000 mld, quasi 6.000 a Bergamo (+ 8,6% sul 1999), ed ha visto un incremento della percentuale degli occupati, dal 10,6% del 1996 al 13% del 2000, con un aumento dell’occupazione nell’ultimo anno di circa il 5%. Questa congiuntura positiva e la riorganizzazione della nostra struttura ci consegnano dei dati del tesseramento, dopo la flessione degli anni 1998, 1999 e 2000, in  netta ripresa con un aumento superiore al 4%.

Per la Fillea di Bergamo questi risultati, per alcuni versanti inaspettati, sono motivo di grande soddisfazione.

Dopo il rinnovo del gruppo dirigente e della segreteria generale, con tutte le problematiche legate a questa operazione, abbiamo iniziato una riflessione sul modo di operare, di organizzarsi, di fare sindacato.

L’esito di tutto questo, i progetti condivisi che ne sono usciti, hanno mostrato la loro validità.

Le iniziative negli edili, orientate sul territorio e sul cantiere, hanno visto un continuo contatto con i lavoratori, conclusosi con le iniziative serali, e hanno avuto una partecipazione superiore alle trecento unità.

Ciò significa che la grande capacità nel coinvolgere i lavoratori che rappresentiamo, sta nello sforzo creativo, nella disponibilità a rimuovere la resistenza al cambiamento che ognuno di noi ha.

Credo di poter dire che la “squadra” ha centrato l’obiettivo, al di là delle sue stesse aspettative, mettendosi in gioco, collettivamente ed individualmente, modificando, anche con tanta fatica, il singolo modo di lavorare, le nostre abitudini personali ed organizzative.

Abbiamo sperimentato nuove soluzioni, quadri giovani e capaci in aspettativa sindacale come momento di formazione, ma anche di verifica; abbiamo iniziato un percorso di ringiovanimento della struttura, aderendo anche al progetto della Fillea Nazionale chiamato “under 30”.

Non possiamo, infatti, pensare ad un'impresa di qualità, con tutti i problemi legati alla creatività che deve avere, agli investimenti che deve orientare, alla formazione che deve attuare, al cambiamento culturale a cui è sottoposta, e poi pensare che l’organizzazione, noi stessi, non ci mettiamo in gioco e non diventiamo tutti e singolarmente innovativi per meglio assolvere alla “mission” che i nostri “azionisti di riferimento” ci hanno tracciato.

Molto abbiamo fatto, ma molto ci resta da fare.

Abbiamo dato, in sintesi, la situazione economico-produttiva del settore ed i nostri risultati organizzativi.

Dentro questi ragionamenti dobbiamo evidenziare un aspetto nuovo che ha assunto proporzioni consistenti negli ultimi anni, con ricadute sociali e culturali di notevoli dimensioni: i lavoratori immigrati.

L’edilizia è il settore dove marcano una presenza accentuata.

Rappresentano più del 15% sul totale dei lavoratori iscritti alle Casse edili nel 2001 e il 35% nelle nuove assunzioni.

L’immigrazione, è dunque, una risorsa del settore cui bisogna dare risposte, in termini reali, nelle condizioni di vita e di lavoro.

Dare risposta anche alla domanda quantitativa del mercato del lavoro, messa in discussione dalle politiche programmatorie dei flussi, con l'ineluttabile conseguenza dell’irregolarità, offrendo così spazio e sfogo agli orientamenti xenofobi.

Nella visione del problema è importante non cedere, non avere timore delle ricadute che hanno, l’impatto con culture e modi di vita diversi.

E’ quantomai singolare che un lavoratore immigrato sia costretto, in non poche situazioni, a vivere in condizioni di vita precarie, magari al freddo o senza le minime condizioni igienico-sanitarie ed ogni qualvolta invochi qualche diritto, gli venga indicato che quella vita, inumana e senza dignità, debba guadagnarsela.

Un immigrato è un buon lavoratore quando sale sul pulmino alle sei di mattina, durante l’orario di lavoro, e poi quando alle sette di sera scende dal mezzo deve ritirarsi a vita privata, o peggio viene considerato un potenziale delinquente.

Così non si va da nessuna parte, anzi, la permanenza diviene appetibile per altri, magari con intenti meno nobili.

Dobbiamo fare lo sforzo di elaborare politiche non di sola accoglienza ma d'inserimento e di permanenza, anche nel settore.

Stare nel territorio, nel settore, non può prescindere dalle condizioni di vita e di lavoro che offrano all’immigrato sicurezza, un ambiente non ostile, un lavoro incentivante, con possibilità di formazione, di crescita professionale.

Stabilizzare, dunque, la loro posizione, indicare la possibilità di un futuro sereno, ha nel problema casa una questione dirimente.

Durante un’iniziativa pubblica che la CGIL ha promosso, in preparazione alla conferenza programmatica di organizzazione, la Fillea lanciò l’idea di un protocollo con le Associazioni Imprenditoriali da sottoporre a Comuni e Provincia.

La proposta aveva il chiaro intento di stimolare le amministrazioni per trovare soluzioni e strumenti.

Crediamo utile, anche in questa sede, e senza fobie di primogenitura, portarlo come elemento di dibattito.

Abbiamo parlato dei nostri enti, del grande ruolo che essi svolgono e dell’impegno profuso dai dirigenti che, dentro gli enti, rappresentano il sindacato, la CGIL.

Non a caso vogliamo citare la nostra Scuola Edile.

Formazione è sinonimo di qualità, è il volano su cui ruotano le politiche fondate sull’innovazione e lo sviluppo di qualità.

Nell’incertezza della riforma dei cicli scolastici è francamente difficile oggi capire quali sviluppi operativi dobbiamo dare.

Possiamo fare un’analisi e dare valutazione, anche di prospettiva, delle necessità del mondo del lavoro edile.

Siamo convinti che la grande questione, che ha sicuramente risvolti culturali ed economici, sia in primo luogo la formazione permanente.

Ragionare sulle nuove generazioni, sui giovani, sugli immigrati, su chi nel settore è ancora presente, significa trovare una soluzione, non solo di condizioni accettabili d'accesso al mercato del lavoro edile, ma di permanenza, dunque di prospettiva.

Un percorso professionale e formativo che accompagna il lavoratore durante l’intero arco della sua vita lavorativa, che interviene nei momenti critici, nelle pause congiunturali, nei cambiamenti e nelle innovazioni è secondo noi la condizione essenziale per la qualificazione e per la nuova immagine che il settore può e deve dare di sé.

La formazione professionale è l’architrave della qualificazione del settore, è la risposta più forte ai processi disgregativi oggi in atto.

Investire sulla risorsa umana, formarla in questo settore significa costruire una nuova civiltà del lavoro.

 Il modello di sviluppo del sistema e dell’impresa non può prescindere dal dare risposte concrete sotto quest'aspetto.

Oggi la formazione continua, l’aggiornamento è lasciato alla spontaneità, alla motivazione del singolo individuo che, cogliendone l’importanza, trova le motivazioni per avventurarsi.

Una politica della formazione non deve reggere sulla volontà solo individuale, ma trovare dentro l’impresa e le sue necessità innovative, le idee e gli investimenti da dare alla formazione.

Dall’analisi dei bilanci delle imprese abbiamo visto che spazi economici ci sono: la formazione deve diventare priorità.

Una contrattazione che non si pone questo obbiettivo perderebbe una grande occasione per dare un segnale al settore e all’impresa stessa.

Definire contrattualmente dei percorsi di formazione continua durante l’orario di lavoro, trovando le risorse e gli incentivi, facendo capire che la formazione non è un costo ma un grosso investimento.

Si tratta cioè di capire se “l’impresa edile bergamasca” è interessata all'investimento sul suo capitale più prezioso e insostituibile, il lavoro e valorizzarlo.

Il settore edile non può essere, non vogliamo crederlo, il comparto della competizione sleale, del lavoro nero, del cottimismo, del precario, il settore delle morti bianche.

Rifarsi un 'immagine, una nuova identità, dare al lavoro la dignità che spetta, rendere appetibile il settore, è l’obbiettivo che possiamo darci.

Il tema della sicurezza non è estraneo a questi ragionamenti.

“Al lavoro sicuri” è lo slogan che la Cgil ha coniato per la campagna 2001.

I dati che ci vengono consegnati confermano, anche per l’anno in corso, una situazione che non mostra segni di miglioramento nonostante gli sforzi e le risorse investite.

Il lavoro dei nostri Comitati paritetici, con centinaia di corsi organizzati, che hanno coinvolto migliaia di lavoratori e d'imprenditori, va intensificato mirando ancora  più i corsi.

E’ ipotizzabile che i risultati di questi momenti formativi vadano visti nel medio e lungo periodo.

Il lavoro svolto dai nostri Rls nelle aziende, in contesti spesso non agevoli, è di prioritaria importanza.

Essi vanno coordinati trovando anche momenti di socializzazione delle esperienze.

Gli RLST dell’industria edile ci consegnano un lavoro apprezzabile, vanno però coinvolti con maggiore frequenza nelle attività dei Comitati stessi e della Scuola Edile e nella sorveglianza sanitaria sui cantieri.

Se i risultati non sono soddisfacenti dobbiamo continuare ad investire e cominciare a pensare su quale rimedio più efficace orientare i nostri sforzi, iniziando dall’organizzazione del lavoro che è la vera questione da affrontare.

Ritmi elevati, precarietà del lavoro, mancanza di sistemi aziendali di qualità che coinvolgano i lavoratori, sono all’origine della mancanza di sicurezza.

Ritorniamo, dunque, al tema centrale: “quale impresa e quale lavoro?”.

Qualsiasi processo qualitativo deve coinvolgere gli attori dello stesso, deve avere al centro il valore intrinseco del lavoro, quindi, un lavoro sicuro.

Non è questa la sede, ma sono ragionamenti che sicuramente vanno approfonditi.

Qualità totale, sicurezza ed ambiente di lavoro sono due facce della stessa medaglia.

Avviandomi a concludere voglio esprimere un sincero ringraziamento a Voi delegati e a tutta la segreteria e all’apparato della Fillea per le energie che avete profuso in questo anno e per questa stressante fase congressuale.

Un ringraziamento particolare va a Luciana, Mariangela e Rossana che, con tanta passione e sacrificando spesso il loro tempo libero, hanno svolto un ruolo prezioso ed insostituibile per l’organizzazione.

Lo sforzo di tutti ci ha permesso il raggiungimento del massimo storico nel tesseramento.

I poteri forti sono usciti allo scoperto e stanno condizionando, ancora più di prima, le grandi scelte del nostro Paese.

L’idea di lavoro che noi abbiamo, che mette al centro la valorizzazione e l’umanizzazione del lavoro stesso, ha bisogno di proposte condivise.

Dobbiamo avere la capacità di entrare nel merito e di trovare soluzioni concrete.

L’attacco della destra economica e sociale non dà spazio a tentennamenti o peggio ancora a salti all’indietro.

Servono capacità di analisi e proposte condivise.

Dobbiamo stare in campo, metterci in gioco, vecchie e nuove generazioni , delegati e dirigenti sindacali, con la nostra storia e con quella del movimento operaio, con il pessimismo della ragione ma l’ottimismo della volontà.

Mettiamo assieme la nostra voglia, uniamo le nostre intelligenze, facciamo pesare le nostre idee di militanti della Cgil.

AFFRONTIAMO IL FUTURO CON CENTO ANNI DI STORIA.