Sommario

La sentenza n. 4913 del 3 aprile 2001

I benefici previdenziali introdotti dalla legge n. 257/1992 

La valutazione di costituzionalità della legge n. 257/1992

La giurisprudenza di merito e la Cassazione

Alcune considerazioni conclusive

 

 

La sentenza n. 4913 del 3 aprile 2001

 

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 4913 del 3 aprile 2001.- annullando la sentenza di appello del Tribunale di Firenze che aveva concesso i benefici a lavoratori esposti all’amianto per un periodo superiore a dieci anni - ha dettato alcune linee guida che dovrebbero introdurre riferimenti precisi nella controversa materia.

In particolare la Suprema Corte ha fornito le seguenti indicazioni per il giudice del merito (dalle quali conviene partire per una più ampia panoramica), che dovrà:

1)      Accertare – nel rispetto dei criteri di ripartizione dell’onere probatorio ex art. 2967 c.c. (sempre che non voglia avvalersi dei poteri d’ufficio riconosciuti ad esso nel rito del lavoro) – se colui che ha fatto richiesta del beneficio in esame abbia provato sia la specifica lavorazione pratica, sia l’ambiente dove ha svolto per più di dieci anni detta lavorazione.

2)      Computare, nel periodo ultradecennale di esposizione (ritenuto dalla legge condizione per il godimento del beneficio pensionistico), le pause “fisiologiche” proprie di tutti i lavoratori (riposi, ferie, festività) e che rientrano nella normale evoluzione del rapporto in quanto conseguenti alla rilevanza del tempo delle prestazioni spiegate.

3)      Accertare che l’esposizione alle polveri d’amianto sia stata superiore ai valori consentiti dagli art. 24 e 31 del D.Lgs. 15 agosto 1991 n. 277.

 

La necessità che il lavoratore dimostri l’effettiva esposizione per un periodo superiore ai dieci anni ed i criteri di computo di tale periodo - pur interpretata con criteri restrittivi - si muove nel solco della precedente giurisprudenza e risponde all’ovvio criterio della necessità della personalizzazione del rischio.

La subordinazione del beneficio previdenziale al requisito che l’esposizione alle polveri d’amianto sia stata superiore ai valori consentiti dagli artt. 24 e 31 del decreto legislativo n. 277 del 1991 (di attuazione delle direttive CEE in materia di protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante il lavoro) è invece frutto di un’originale interpretazione del comma 8 dell’art. 13 della legge 27 marzo 1992, n. 257 (“Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto”). Tra l’altro - ed occorre subito osservarlo - il riferimento è a livelli quantitativi differenti: l’art. 24, nel dettare regole per la valutazione del rischio, individua alcuni livelli di esposizione (a partire da 0,1 fibre per cm3 per un periodo di riferimento di 8 ore) ed impone conseguenti oneri al datore di lavoro (notifiche alla autorità vigilante, ulteriori informazioni ai lavoratori, apposita segnaletica di sicurezza, mezzi individuali di protezione, misure igieniche supplementari, controlli sanitari periodici e registrazione sanitaria); l’art. 31 fissa invece il valore limite di esposizione prevista (0,6 fibre per cm3 per il crisotilo e 0,2 fibre per cm3 per tutte le altre varietà di amianto, per un periodo di riferimento di 8 ore, valori superiori fino a 5 volte in caso di sensibili variazioni) raggiunto il quale il datore di lavoro deve identificare e rimuovere la causa dell’evento, adottando quanto prima misure appropriate, in assenza delle quali l’attività lavorativa non può proseguire.

Ma prima di procedere ulteriormente nel commento della sentenza, è opportuno ripercorrere le tappe normative della questione alla luce dei principali indirizzi interpretativi, anche al fine di rettificare alcune imprecisioni rilevabili nella sentenza stessa, per poi, nella parte conclusiva, fare “il punto della questione” in vista di un intervento legislativo che si rivela ormai sempre più indispensabile.


           

I benefici previdenziali introdotti dalla legge n. 257/1992

 

La legge n. 257/1992, predisponendo una disciplina per la cessazione dell’estrazione e dell’impiego di amianto, ha introdotto alcune misure di sostegno per i lavoratori e le imprese operanti nel settore, fra cui un premio contributivo consistente nella rivalutazione (mediante moltiplicazione per il coefficiente 1,5) dei periodi di lavoro soggetti all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall’esposizione all’amianto gestita dall’INAIL. Il beneficio scatta solo in presenza di un periodo di lavoro con esposizione superiore a 10 anni e nell’originaria prefigurazione era volto specificamente ad agevolare il pensionamento dei soggetti esclusi dal beneficio del prepensionamento, per la mancanza del requisito dei 30 anni contributivi.     

            Emergevano subito contrasti concernenti il periodo soggetto alla rivalutazione che, secondo alcune interpretazioni, doveva essere limitato agli anni eccedenti i primi dieci. Per dissipare i dubbi interveniva il decreto-legge n. 169/1993, chiarendo che la rivalutazione, sempre in caso di esposizione ultradecennale, riguarda l’intero periodo lavorativo soggetto all’assicurazione obbligatoria e (anche nella consapevolezza che i possibili interessati ai benefici erano assai più numerosi delle previsioni iniziali) che il riconoscimento del beneficio è limitato ai “dipendenti dalle imprese che estraggono o utilizzano l’amianto come materia prima”. La legge di conversione n. 271/1993 eliminava questa restrizione, escludendo ogni selezione che potesse derivare dal riferimento alla tipologia dell’attività produttiva del datore di lavoro. E’ questo fatto, e non certo la mancata previsione di livelli qualificati di esposizione, a portare il numero dei potenziali beneficiari dagli iniziali 1800/2000 a svariate decine di migliaia, rendendo del tutto insufficiente l’ulteriore stanziamento di fondi nel bilancio della legge, attuato in previsione di maggiori oneri finanziari rispetto alla legge n. 257/1992.

            In seguito a queste modifiche, la legge, concepita soprattutto per sostenere l’economia dei settori interessati, specie nei suoi riflessi sulle condizioni reddituali dei lavoratori, finiva per assolvere anche una funzione per così dire risarcitoria in vista dell’eventualità o del rischio dell’insorgenza della malattia, comportando, come visto, un notevole ampliamento della platea degli interessati ai benefici (inizialmente sottostimata dal legislatore e successivamente sovrastimata dagli enti previdenziali) e la presentazione di un gran numero di domande agli enti previdenziali. La mancanza di linearità del testo legislativo, ed il tentativo degli enti previdenziali di contenere la spesa attraverso una rigida selezione delle richieste, finivano quindi per alimentare un contenzioso amministrativo e giudiziario di proporzioni consistenti che, dopo alterne fortune, sfociava in alcune richieste di pronunciamento sulla costituzionalità della norma.

 

                       
La valutazione di costituzionalità della legge n. 257/1992

 

La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legge n. 257/1992, ne ha confermato la legittimità, con sentenza n. 5/2000, con alcune importanti precisazioni che tuttavia lasciano altresì ampie zone d’ombra.

L’illegittimità della legge era lamentata in relazione agli articoli 3 (che impone pari dignità sociale ed uguaglianza dei cittadini davanti alla legge) e 81, comma 4 (che impone la copertura finanziaria degli oneri delle nuove leggi) della Costituzione. Un primo contrasto con l’art. 3 della Costituzione era stato rilevato sul presupposto che il beneficio previdenziale concesso dalle norme in oggetto, incentrandosi sull’unico dato dell’esposizione ultradecennale, fosse di per sé insufficiente per una congrua selezione degli aventi diritto. L’indeterminabilità di tutti i potenziali destinatari della norma avrebbe poi causato anche la violazione dell’art. 81 della Costituzione, data l’impossibilità di indicare la copertura finanziaria della legge (Trib.di Ravenna, ord. n. 501, del 30 aprile 1998 e Pret. di Vicenza, ord. n. 873, del 24 settembre 1998). Un secondo contrasto con l’art. 3 della Costituzione era stato sollevato, per un verso, sul presupposto che l’applicazione del beneficio previdenziale, essendo limitata a dipendenti ed ex dipendenti dalle imprese private, comporterebbe un’irragionevole disparità di trattamento con quelli non privati e, per altro verso, ritenendo che la applicazione delle agevolazioni anche ai lavoratori non privati assegnerebbe un ingiustificato beneficio ad una serie indeterminata di destinatari (Pret. di Vicenza, ord. n. 848 del 24 settembre 1998).

Con la sentenza n. 5/2000 la Corte ha deciso le questioni sollevate dal Tribunale di Ravenna e dal Pretore di Vicenza. Ad avviso della Consulta la disposizione denunciata non va ritenuta portatrice di una ingiustificata omologazione di situazioni fra loro diverse, perché il criterio dell’esposizione ultradecennale costituisce un dato di riferimento adeguatamente determinato, “soprattutto se si considera il suo collegamento al sistema generale di assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall’amianto, gestita dall’INAIL” (artt. 1 e 3 del D.P.R. n. 1124 del 1965). La possibilità di determinare i destinatari dei benefici previdenziali ha quindi fatto cadere anche la pretesa violazione dell’art. 81, sollevata proprio sul presupposto dell’impossibilità di calcolare i possibili oneri finanziari.

Sulla sentenza, in alcuni punti ermetica, sono sorte due differenti interpretazioni segnatamente in relazione alla necessità o meno di esposizione “qualificata”.

            In base ad un’interpretazione (da noi condivisa in una precedente nota di commento) la Corte avrebbe emesso una sentenza di rigetto, limitandosi a dichiarare non fondata la questione di costituzionalità della norma esaminata, in riferimento ai parametri invocati dai giudici che le hanno sottoposto le questioni di costituzionalità.

Secondo un’altra interpretazione, invece, la Corte avrebbe emesso una “sentenza interpretativa di rigetto”, nel senso che avrebbe reinterpretato le disposizioni di legge sottoposte al suo esame, desumendone contenuti diversi da quelli presupposti nelle ordinanze di rinvio a giudizio e, proprio in relazione a questa diversa interpretazione, avrebbe respinto le questioni di costituzionalità sollevate. Nel caso specifico la legge sarebbe stata ritenuta costituzionale perché interpretata nel senso di subordinare i benefici previdenziali all’esposizione a determinati livelli di esposizione all’amianto.

Con l’ordinanza n. 7/2000 la Corte Costituzionale si è pronunciata sulle eccezioni sollevate dal Pretore di Vicenza, ritenendole manifestamente inammissibili. In questo caso la Consulta non è entrata nel merito della questione della disparità di trattamento tra lavoratori privati e non privati, ma ha respinto l’ordinanza considerando in palese contraddizione fra di loro le argomentazioni del giudice remittente, che per un verso aveva lamentato l’esclusione dei benefici nei confronti dei pubblici dipendenti e per l’altro aveva ritenuto che la loro inclusione sarebbe illegittima. Rimane quindi aperto il problema - non certamente secondario - relativo all’esclusione dai benefici contributivi dei lavoratori non iscritti all’INPS ma ad altre gestioni (Fondo Pensioni di cui al D.P.R. n. 1092 del 1973 od altri Fondi di settore) che, come previsto nella nostra precedente nota, è stato nuovamente proposto alla Corte costituzionale con motivazioni più coerenti (Trib. di Treviso, ord. n. 3 del 17 gennaio 2001.


La giurisprudenza di merito e la Cassazione

 

Le diverse interpretazioni sulla decisione della Corte costituzionale si sono riflesse sulle decisioni dei giudici di merito sul punto decisivo e qualificante relativo ai limiti di esposizione all’amianto, suscettibili di giustificare l’intervento protettivo. Può essere utile allora ripercorrere quel dibattito almeno nei profili salienti.

La lettura che non subordina l’ottenimento dei benefici previdenziali all’esposizione a determinati livelli di amianto (tra gli altri si vedano il Trib. di Ravenna, sent. n. 197/2000, e il Trib. di Firenze, sent. n. 58/1998) si basa sulle seguenti argomentazioni:

 

a) L’interpretazione della legge n. 257/1992.

Il senso letterale del comma 8 dell’art. 13 sarebbe evidente giacché sia nel testo originario (“Ai  fini del conseguimento delle prestazioni pensionistiche i periodi di lavoro soggetti all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall’esposizione all’amianto gestita dall’INAIL quando superano i 10 anni sono  moltiplicati per il coefficiente di 1,5”), sia nel testo vigente (“Per i lavoratori che  siano stati esposti all’amianto per un periodo superiore a dieci anni, l’intero periodo lavorativo soggetto all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall’esposizione all’amianto, gestita dall’INAIL, è moltiplicato, ai fini delle prestazioni pensionistiche, per il coefficiente di 1,5”) il riferimento è alla sola esposizione all’amianto. Un’interpretazione che presupponesse necessari, per aversi situazioni di rischio, livelli particolari di esposizione, comporterebbe il paradosso logico e letterale, ancor prima che giuridico, di ritenere che, al di sotto di tali livelli di esposizione, non sussista esposizione, inventando il concetto di “esposizione senza esposizione”.

Non volendo fermarsi al dato letterale della norma e ragionando sulla sua interpretazione logico-giuridica si perverrebbe alle medesime conclusioni. La disposizione in questione aveva infatti previsto, oltre al beneficio contributivo del comma 8, anche altre agevolazioni per i lavoratori: la concessione del trattamento straordinario d’integrazione salariale; la rivalutazione del numero di settimane coperto da contribuzione obbligatoria (per i lavoratori delle miniere e cave di amianto); la possibilità (in presenza di almeno trenta anni di contribuzione) di pensionamento anticipato. In nessuna di queste ipotesi il conseguimento del beneficio viene subordinato allo svolgimento di lavorazioni che implichino l’esposizione a particolari concentrazioni di amianto e non a caso, dato che si trattava di agevolazioni a sostegno di un settore che, per effetto della dismissione, sarebbe entrato in crisi e che, per quanto concerne il comma 8, le agevolazioni avrebbero dovuto riguardare (se si fosse mantenuta la limitazione ai dipendenti dalle imprese che estraggono o utilizzano l’amianto come materia prima, prevista dal decreto-legge n. 169/1993) solo un numero ristretto di lavoratori rimasti fuori dal prepensionamento. In questo contesto, se si fosse imposta anche la necessità di livelli qualificati di esposizione, l’iniziale previsione di 1800 unità sarebbe scesa a poche decine, privando la disposizione legislativa di qualsivoglia ragione di esistere.

Da nessuna norma di legge sarebbe poi ricavabile la tesi che il concreto rischio del verificarsi di patologie dovrebbe ravvisarsi solo là dove siano soddisfatte le condizioni per il pagamento del premio supplementare per il rischio da asbestosi.

La volontà del legislatore emergerebbe chiaramente anche dall’esame dei lavori preparatori delle leggi in questione, dai quali non risulta che la concessione dei benefici sia subordinata a livelli qualificati di esposizione ma, al contrario, che è impossibile definire un livello minimo di presenza di fibre di amianto (“soglia minima di esposizione”) nell’aria al di sotto del quale siano esclusi rischi. In tutti gli atti si fa riferimento, ai fini dell’ottenimento dei benefici contributivi, esclusivamente a due requisiti: “che il periodo lavorativo con esposizione sia superiore a dieci anni” e “che tale periodo sia stato soggetto all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali gestita dall’INAIL”.

Un’ulteriore conferma si ricaverebbe dall’esame dei progetti di riforma della normativa, presentati, proprio con l’intento di ridimensionarne i costi, nella passata legislatura. Essi non intervengono sulla questione relativa ai livelli di esposizione - a tal fine sarebbe stata sufficiente una “interpretazione autentica” - ma ricorrono a soluzioni diverse riproponendo, ad esempio, la limitazione dei benefici ai dipendenti delle aziende che estraevano o utilizzavano l’amianto come materia prima..

 

b) L’interpretazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 5/2000.

Secondo l’indirizzo in esame, l’intervento della Consulta avrebbe convalidato una lettura estensiva della normativa protettiva.

Nella sentenza si chiarisce infatti che “il criterio dell’esposizione ultradecennale costituisce un dato di riferimento tutt’altro che indeterminato, specie se si considera il suo collegamento al sistema generale di assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall’amianto, gestita dall’INAIL”. Com’è noto l’obbligatorietà dell’assicurazione è imposta dalla tipologia delle lavorazioni (elencate nell’allegato 8 della legge) e non dal superamento di livelli di esposizione. Il riferimento al rischio, inteso come svolgimento di attività lavorativa soggetta al sistema di tutela previdenziale ex D.P.R. n. 1124 del 1965, non comporta affatto la previsione di un’esposizione qualificata, dato che una situazione di rischio è insita nella semplice esposizione all’amianto (sia essa diretta, in relazione a specifiche mansioni, sia essa indiretta, in relazione al materiale disperso nell’ambiente di lavoro), come chiaramente risulta dalle unanimi e consolidate conoscenze di carattere scientifico e secondo le univoche prescrizioni normative (direttiva CEE 477 del 1983, D.Lgs. n. 277 del 1991, e D.P.R. n. 364/1994, che ha individuato, fra le lavorazioni a rischio, quelle che espongono all’inalazione di fibre di amianto).

Le soglie limite del rischio di esposizione previste dall’art. 31 del D.Lgs. n. 277/1991, a cui fa riferimento la sentenza, sono soglie massime, oltre le quali l’esposizione non può più essere tollerata (e che presuppongono l’adozione di una serie di interventi) e non soglie minime, al di sotto delle quali non ci sarebbe rischio da esposizione. In proposito la stessa Corte è chiara, quando, parlando della pericolosità dell’amianto e della soglia limite (oltre la quale l’esposizione non è più consentita), specifica che il legislatore l’ha prevista “a fini di prevenzione” (e non come parametro per l’applicazione dei benefici previdenziali). Dalla sentenza non è neppure ricavabile l’indicazione di altri “livelli qualificati” di esposizione, inferiori a quelli previsti nell’art. 31 della legge (il riferimento è a quelli indicati nell’art. 24 della stessa legge).

Attribuire alla sentenza la volontà di imporre il terzo requisito, del superamento di determinati livelli di esposizione, porterebbe “al crollo logico e giuridico della pronuncia”, togliendo valore sia al criterio del rischio morbigeno ed al sistema di assicurazione sociale, sia al criterio della durata ultradecennale.

Questa lettura risulterebbe confermata dall’esame della sentenza in relazione agli atti delle cause e, soprattutto, alle ordinanze di rinvio, in cui si lamenta la violazione alla Costituzione proprio nella considerazione che il premio previdenziale, concentrandosi sull’unico dato dell’esposizione ambientale all’amianto per un periodo superiore a 10 anni, senza bisogno di alcun livello minimo di esposizione, sarebbe di per sé insufficiente per una corretta selezione degli aventi diritto. La Corte non confuta tali prospettazioni, dando dalle disposizioni di legge sottoposte al suo esame contenuti diversi da quelli presupposti nelle ordinanze di rinvio a giudizio, ma sostiene invece che il criterio di esposizione ultradecennale costituisce un “dato di riferimento tutt’altro che indeterminato”, essendo l’elemento temporale coniugato con quello di attività lavorativa.

 

Sul versante opposto, si contrappongono, ormai costantemente, argomentazioni prioritariamente indirizzate a convalidare la tesi che l’ottenimento dei benefici previdenziali sarebbe subordinato all’esposizione a livelli superiori a quelli fissati dagli art. 24 e 31 del D.Lgs. n. 277/1991. Tesi che, è bene sottolinearlo, benché minoritaria nella giurisprudenza di merito (Trib. Vicenza, sent. n. 270/2000), ha trovato l’autorevole consenso della citata sentenza della Cassazione, sulla quale si concentrerà l’attenzione.

Punti di forza di questa lettura sono:

 

A) L’interpretazione della legge n. 257/1992.

Una lettura dell’intero articolo 13 della legge n. 257/1992, attesterebbe la volontà di parametrare i benefici da riconoscere agli addetti alle lavorazioni con amianto all’entità del rischio di esposizione, riconoscendo una posizione privilegiata ai lavoratori che (per essere stati occupati in imprese che utilizzavano o estraevano amianto) risultavano maggiormente esposti a tale rischio.

La tesi troverebbe conforto anche nel comma 8 dello stesso articolo che, nel richiamare, ai fini del beneficio pensionistico, il periodo lavorativo soggetto “all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali” gestita dall’INAIL, non può che aver inteso sottolineare un collegamento tra il tempo di esposizione (oltre dieci anni) e le lavorazioni con valori di esposizione legislativamente ritenuti a rischio, individuabili in quelli indicati negli articoli 24 e 31 del D.Lgs. n. 277/1991, il cui superamento fa sorgere in capo al datore di lavoro precisi obblighi di prevenzione.

Non volendo limitarsi al dato letterale della norma e concentrandosi su una sua interpretazione logico-giuridica si arriverebbe alle medesime conclusioni. La legge n. 257/1992 ha proibito, a partire dal trecentosessantacinquesimo giorno della sua entrata in vigore, “l’estrazione, l’importazione, l’esportazione, la commercializzazione e la produzione di amianto e di prodotti contenenti amianto”, ed ha predisposto misure di decontaminazione e di bonifica delle aree interessate all’inquinamento da amianto, disponendo, a sostegno di imprese e lavoratori, meccanismi diretti a conseguire anticipatamente la pensione di vecchiaia e di anzianità. In questa iniziativa il legislatore non poteva non tenere presente che l’attuazione della legge richiedeva gradualità e una pluralità di interventi e che tali interventi interessavano un assetto industriale “caratterizzato da un vasto panorama di imprese esposte in maniera differenziata al rischio amianto”. In questo contesto dovrebbe escludersi che il legislatore abbia voluto attribuire il beneficio pensionistico in esame a tutti i lavoratori comunque esposti ad inalazioni di amianto, anche di minima entità, come, ad esempio, a coloro che sono destinati a lavorare in ambienti oggetto dell’opera di bonifica e delle misure di prevenzione.

In definitiva l’esposizione a quantità ridotte di amianto non sarebbe considerabile come fattore di effettivo rischio, tant’è vero che la stessa legge n. 257 del 1992, finalizzata all’abolizione dell’impiego di amianto, ne accetta la possibile presenza in ambienti lavorativi e stabilisce un limite di concentrazione al di sotto del quale le fibre devono considerarsi “respirabili” e non tali da richiedere misure protettive specifiche (art. 3). Il concreto rischio del verificarsi di malattie dovrebbe ravvisarsi solo “laddove siano soddisfatte le condizioni per il pagamento del premio supplementare per il rischio da asbestosi” o laddove venga richiesta la predisposizione di cautele per evitare il rischio da esposizione.

Un argomento diverso viene sostenuto dalla sopracitata giurisprudenza di merito, la quale, precisando che la legge n. 257 del 1992 non è finalizzata alla tutela della salute dei lavoratori, ma a fornire agevolazioni previdenziali, ne deduce che non potrebbe avere rilievo, ai fini della sua applicazione, qualsiasi esposizione, anche modesta, che, come tale, potrebbe portare all’insorgenza di malattie come il mesotelioma pleurico, ma solo quella esposizione qualificata che potrebbe portare all’insorgenza delle malattie professionali da amianto.

 

B) L’interpretazione della sentenza della Corte Costituzionale n. 5/2000

Secondo l’indirizzo considerato, anche la sentenza della Corte Costituzionale avrebbe una diversa valenza. La Corte Costituzionale sostiene che il concetto di esposizione ultradecennale, coniugando l’elemento temporale con quello di attività lavorativa soggetta al sistema di tutela previdenziale del D.P.R. n. 1124/1965, viene ad implicare necessariamente quello di rischio morbigeno rispetto alle patologie che l’amianto è capace di generare. Il riferimento al rischio comporterebbe automaticamente la necessità di esposizione ad una concentrazione di materiale tale da poter determinare una situazione di rischio. Senza la possibilità di inalazione di una buona dose di fibre di amianto, in definitiva, non ci sarebbe rischio di malattia.

Dall’intero contesto motivazionale della decisione della Corte Costituzionale si ricaverebbe, quindi, il deciso rifiuto di ogni interpretazione del comma 8 dell’art. 13 della legge n. 257/1992 diretta ad estendere il beneficio previdenziale a tutti i lavoratori addetti per più di dieci anni a lavorazioni che li abbiano esposti ad inalazione di fibre di amianto e la necessità di agganciare detta esposizione a chiari standards parametrici di rischio.


Alcune considerazioni conclusive

 

All’esito della complessa vicenda descritta si possono trarre alcune considerazioni di sintesi.

La legislazione specifica in materia di amianto, ed in particolare la norma con un maggiore potenziale diffusivo, e perciò più controversa - vale a dire quella inerente l’incremento del periodo contributivo - perseguiva palesemente l’obiettivo di fornire una peculiare tutela ai lavoratori che avessero operato per un tempo consistente in contesti lavorativi inquinati dall’uso dell’amianto. Da questo punto di vista la norma presentava una formulazione abbastanza lineare, e per così dire originale, supponendo che la mera esposizione protratta in ambienti suscettibili di rischio fosse un presupposto sufficiente per l’attribuzione di una maggiore anzianità contributiva, e ciò sulla base di parametri alquanto elementari che consentissero esclusivamente di evitare forme di utilizzazione strumentali o fraudolenti. Tuttavia nella fase applicativa la norma aveva rivelato una naturale proiezione espansiva ben oltre i termini quantitativi, ed anche qualitativi, originariamente ipotizzati dal legislatore al punto da determinare una vera e propria situazione di implosione, riverberatasi in proporzioni macroscopiche nel contenzioso giudiziario.

In altri termini, a volere osservare retrospettivamente la vicenda, si può registrare un fenomeno, neppure tanto raro, di vera e propria dissociazione tra la capacità del legislatore di disciplinare e regolamentare alcuni delicati fenomeni sociali in continua evoluzione e le dinamiche effettive che hanno rivelato fenomeni e processi di entità ben più consistenti e problematici di quelli astrattamente considerati. A questo riguardo si può anche convenire che la tendenza espansiva è stata alimentata da interessi non sempre ineccepibili ed è venuta a coniugarsi con un’artificiale lievitazione del contenzioso previdenziale; ciò nondimeno l’interpretazione normativa non poteva da sola giustificare l’ampiezza del dibattito e l’articolazione delle posizioni difformi.

In questo contesto ormai esplosivo è iniziata un’operazione per così dire di “recupero progressivo”, o, se si vuole, di Realpolitik, il cui ruolo preminente è stato assegnato alle magistrature superiori, o, per meglio dire, che si è sviluppata in un singolare processo di interazione - o in un gioco di rimbalzo - tra la Corte Costituzionale e la Suprema Corte di Cassazione, agevolmente ricostruibile nella motivazione delle pronunzie sin qui esaminate.

Ed invero la Corte Costituzionale, al di là di affermazioni più o meno rituali se non demagogiche, ha definito il tracciato entro cui impostare un’operazione di delimitazione normativa allorché ha osservato che “il criterio dell’esposizione decennale costituisce un dato di riferimento tutt’altro che indeterminato, specie se si considera il suo collegamento, contemplato dallo stesso art. 13, comma 8, al sistema generale di assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti dall’amianto, gestita dall’INAIL”. E con ancora maggiore incisività ha poi aggiunto che “nell’ambito di tale correlazione, il concetto di esposizione ultradecennale, coniugando l’elemento temporale con quello di attività lavorativa soggetta al richiamato sistema di tutela previdenziale (artt. 1 e 3 del D.P.R. n. 1124 del 1965), viene ad implicare, necessariamente, quello di rischio e, più precisamente, di rischio morbigeno rispetto alle patologie, quali esse siano, che l’amianto è capace di generare per la sua presenza nell’ambiente di lavoro; evenienza, questa, tanto pregiudizievole da indurre il legislatore, sia pure a fini di prevenzione, a fissare il valore massimo di concentrazione di amianto nell’ambiente lavorativo, che segna la soglia limite del rischio di esposizione (decreto legislativo 15 agosto 1991, n. 277, e successive modifiche)”.

Come si può notare, la delimitazione oggettiva dell’ambito di incidenza della normativa è stato progressivamente spostato da una definizione per così dire generalista, in buona parte originale e specifica, ad una definizione strettamente assicurativa, che tendeva a renderla coerente con i principi generali in materia di assicurazione obbligatoria e con l’elaborazione consolidata in materia di rischio professionale.

A questo punto le coordinate erano nitidamente tracciate per consentire l’ulteriore operazione di interpretazione - ma forse bisognerebbe dire di legificazione - da parte della Suprema Corte di Cassazione la quale, dopo avere esordito con il rilievo che “una lettura dell’intero art. 3, L. n. 257/1992, attesta (...) una volontà di parametrare i benefici da riconoscere agli addetti a tali lavorazioni all’entità del rischio di esposizione”, ha subito dopo perentoriamente affermato che “detta disposizione, nel richiamare, ai fini del beneficio pensionistico, il periodo lavorativo soggetto “all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali (...) gestita dall’INAIL” non può che avere voluto sottolineare un collegamento tra tempo di esposizione (ultradecennale) e lavorazioni con valori di esposizione legislativamente ritenuti a rischio, individuabili in quelli indicati negli artt. 24 e 31 del D.Lgs. n. 277/1991, il cui superamento faceva sorgere - già in epoca antecedente l’entrata in vigore della legge n. 257 del 1992 - precisi obblighi di prevenzione a carico degli imprenditori con lavorazioni interessate da polveri provenienti dall’amianto (cfr. commi 4, 5, 6, 7 e 8, art. 31, D.Lgs. n. 277/1991)”.

Tali enunciazioni di principio, che attengono alla dimensione oggettiva della tutela, si completano perfettamente con i rilievi successivi che riguardano la posizione per così dire soggettiva del lavoratore coinvolto, dove la Corte insiste sulla necessità di un’indagine istruttoria che sia suscettibile di “personalizzare” le condizioni meritevoli di intervento soggettivo, donde una serie di rilievi, più o meno accettabili, che attengono sia all’onere della prova, integralmente addebitato al lavoratore, sia alla valutazione dell’arco temporale, nell’ambito del quale vanno considerate le pause fisiologiche (ferie, festività, etc.), ma non quelle per così dire patologiche (servizio militare, periodo di aspettativa, etc.).

Sebbene la pronunzia della Suprema Corte definisca linee interpretative chiare ed univoche, tuttavia l’opera di razionalizzazione forzosamente effettuata su una tematica così incandescente non può lasciare soddisfatti giacché è sin troppo evidente il ruolo surrogatorio esercitato dalla magistratura superiore rispetto ad una funzione regolamentare che doveva essere realizzata, con ben altra compiutezza, nella sede istituzionale, vale a dire nelle aule parlamentari. Ciò è tanto più vero ove si consideri che le più recenti acquisizioni scientifiche forniscono sempre nuovi elementi di riflessione sui livelli di pericolosità di certe sostanze e sulle conseguenti esigenze di protezione, inducendo anche ad un progressivo adeguamento della normativa protettiva ed imponendo la necessità di individuare tecniche di tutela del tutto originali ed innovative. Un intervento legislativo, per essere coerente e corretto, non potrà, quindi, che mirare a dosare le esigenze di compatibilità-prevedibilità della spesa finanziaria con quelle di tutela.