Sommario
La sentenza n. 4913 del 3 aprile 2001
I benefici previdenziali introdotti dalla legge n. 257/1992
La valutazione di costituzionalità della legge n. 257/1992
La giurisprudenza di merito e la Cassazione
Alcune considerazioni conclusive
La sentenza n. 4913 del 3 aprile 2001
La Corte di Cassazione, con sentenza n. 4913 del 3 aprile
2001.- annullando la sentenza di appello del Tribunale di Firenze che aveva
concesso i benefici a lavoratori esposti all’amianto per un periodo superiore a
dieci anni - ha dettato alcune linee guida che dovrebbero introdurre
riferimenti precisi nella controversa materia.
In particolare la Suprema Corte ha fornito le seguenti
indicazioni per il giudice del merito (dalle quali conviene partire per una più
ampia panoramica), che dovrà:
1)
Accertare – nel rispetto dei
criteri di ripartizione dell’onere probatorio ex art. 2967 c.c. (sempre che non voglia avvalersi dei poteri
d’ufficio riconosciuti ad esso nel rito del lavoro) – se colui che ha fatto
richiesta del beneficio in esame abbia provato sia la specifica lavorazione pratica, sia l’ambiente dove ha svolto per più di dieci anni detta
lavorazione.
2)
Computare, nel periodo
ultradecennale di esposizione (ritenuto dalla legge condizione per il godimento
del beneficio pensionistico), le pause “fisiologiche” proprie di tutti i
lavoratori (riposi, ferie, festività) e che rientrano nella normale evoluzione
del rapporto in quanto conseguenti alla rilevanza del tempo delle prestazioni
spiegate.
3)
Accertare che l’esposizione
alle polveri d’amianto sia stata superiore ai valori consentiti dagli art. 24 e
31 del D.Lgs. 15 agosto 1991 n. 277.
La necessità che il lavoratore dimostri l’effettiva
esposizione per un periodo superiore ai dieci anni ed i criteri di computo di
tale periodo - pur interpretata con criteri restrittivi - si muove nel solco
della precedente giurisprudenza e risponde all’ovvio criterio della necessità
della personalizzazione del rischio.
La subordinazione del beneficio previdenziale al requisito
che l’esposizione alle polveri d’amianto sia stata superiore ai valori
consentiti dagli artt. 24 e 31 del decreto legislativo n. 277 del 1991 (di
attuazione delle direttive CEE in materia di protezione dei lavoratori contro i
rischi derivanti da esposizione ad agenti chimici, fisici e biologici durante
il lavoro) è invece frutto di un’originale interpretazione del comma 8
dell’art. 13 della legge 27 marzo 1992, n. 257 (“Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto”). Tra
l’altro - ed occorre subito osservarlo - il riferimento è a livelli
quantitativi differenti: l’art. 24, nel dettare regole per la valutazione del
rischio, individua alcuni livelli di esposizione (a partire da 0,1 fibre per cm3
per un periodo di riferimento di 8 ore) ed impone conseguenti oneri al
datore di lavoro (notifiche alla autorità vigilante, ulteriori informazioni ai
lavoratori, apposita segnaletica di sicurezza, mezzi individuali di protezione,
misure igieniche supplementari, controlli sanitari periodici e registrazione
sanitaria); l’art. 31 fissa invece il valore limite di esposizione
prevista (0,6 fibre per cm3 per il crisotilo e 0,2 fibre per cm3
per tutte le altre varietà di amianto, per un periodo di riferimento di 8 ore,
valori superiori fino a 5 volte in caso di sensibili variazioni) raggiunto il
quale il datore di lavoro deve identificare e rimuovere la causa dell’evento,
adottando quanto prima misure appropriate, in assenza delle quali l’attività
lavorativa non può proseguire.
Ma prima di procedere ulteriormente nel commento della sentenza, è opportuno ripercorrere le tappe normative della questione alla luce dei principali indirizzi interpretativi, anche al fine di rettificare alcune imprecisioni rilevabili nella sentenza stessa, per poi, nella parte conclusiva, fare “il punto della questione” in vista di un intervento legislativo che si rivela ormai sempre più indispensabile.
I benefici previdenziali introdotti
dalla legge n. 257/1992
La legge n. 257/1992, predisponendo una disciplina per la
cessazione dell’estrazione e dell’impiego di amianto, ha introdotto alcune
misure di sostegno per i lavoratori e le imprese operanti nel settore, fra cui
un premio contributivo consistente nella rivalutazione (mediante
moltiplicazione per il coefficiente 1,5) dei periodi di lavoro soggetti
all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti
dall’esposizione all’amianto gestita dall’INAIL. Il beneficio scatta solo in
presenza di un periodo di lavoro con esposizione superiore a 10 anni e
nell’originaria prefigurazione era volto specificamente ad agevolare il
pensionamento dei soggetti esclusi dal beneficio del prepensionamento, per la
mancanza del requisito dei 30 anni contributivi.
Emergevano subito contrasti
concernenti il periodo soggetto alla rivalutazione che, secondo alcune
interpretazioni, doveva essere limitato agli anni eccedenti i primi dieci. Per
dissipare i dubbi interveniva il decreto-legge n. 169/1993, chiarendo che la
rivalutazione, sempre in caso di esposizione ultradecennale, riguarda l’intero periodo
lavorativo soggetto all’assicurazione obbligatoria e (anche nella
consapevolezza che i possibili interessati ai benefici erano assai più numerosi
delle previsioni iniziali) che il riconoscimento del beneficio è limitato ai “dipendenti dalle imprese che estraggono o
utilizzano l’amianto come materia prima”. La legge di conversione n.
271/1993 eliminava questa restrizione, escludendo ogni selezione che
potesse derivare dal riferimento alla tipologia dell’attività produttiva del
datore di lavoro. E’ questo fatto, e non certo la mancata previsione di livelli
qualificati di esposizione, a portare il numero dei potenziali beneficiari
dagli iniziali 1800/2000 a svariate decine di migliaia, rendendo del tutto
insufficiente l’ulteriore stanziamento di fondi nel bilancio della legge,
attuato in previsione di maggiori oneri finanziari rispetto alla legge n.
257/1992.
In seguito a queste modifiche, la
legge, concepita soprattutto per sostenere l’economia dei settori interessati,
specie nei suoi riflessi sulle condizioni reddituali dei lavoratori, finiva per
assolvere anche una funzione per così dire risarcitoria in vista
dell’eventualità o del rischio dell’insorgenza della malattia, comportando,
come visto, un notevole ampliamento della platea degli interessati ai benefici
(inizialmente sottostimata dal legislatore e successivamente sovrastimata dagli
enti previdenziali) e la presentazione di un gran numero di domande agli enti
previdenziali. La mancanza di linearità del testo legislativo, ed il tentativo
degli enti previdenziali di contenere la spesa attraverso una rigida selezione
delle richieste, finivano quindi per alimentare un contenzioso amministrativo e
giudiziario di proporzioni consistenti che, dopo alterne fortune, sfociava in
alcune richieste di pronunciamento sulla costituzionalità della norma.
La valutazione di
costituzionalità della legge n. 257/1992
La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla legge n. 257/1992, ne ha confermato la legittimità, con sentenza n. 5/2000, con alcune importanti precisazioni che tuttavia lasciano altresì ampie zone d’ombra.
L’illegittimità
della legge era lamentata in relazione agli articoli 3 (che impone pari dignità
sociale ed uguaglianza dei cittadini davanti alla legge) e 81, comma 4 (che
impone la copertura finanziaria degli oneri delle nuove leggi) della
Costituzione. Un primo contrasto con l’art. 3 della Costituzione era stato
rilevato sul presupposto che il beneficio previdenziale concesso dalle norme in
oggetto, incentrandosi sull’unico dato dell’esposizione ultradecennale, fosse
di per sé insufficiente per una congrua selezione degli aventi diritto.
L’indeterminabilità di tutti i potenziali destinatari della norma avrebbe poi
causato anche la violazione dell’art. 81 della Costituzione, data l’impossibilità
di indicare la copertura finanziaria della legge (Trib.di Ravenna, ord. n. 501,
del 30 aprile 1998 e Pret. di Vicenza, ord. n. 873, del 24 settembre 1998). Un
secondo contrasto con l’art. 3 della Costituzione era stato sollevato, per un verso, sul presupposto che
l’applicazione del beneficio previdenziale, essendo limitata a dipendenti ed ex
dipendenti dalle imprese private, comporterebbe un’irragionevole disparità di
trattamento con quelli non privati e, per
altro verso, ritenendo che la applicazione delle agevolazioni anche ai
lavoratori non privati assegnerebbe un ingiustificato beneficio ad una serie
indeterminata di destinatari (Pret. di Vicenza, ord. n. 848 del 24 settembre
1998).
Con la sentenza n. 5/2000 la Corte ha deciso le questioni
sollevate dal Tribunale di Ravenna e dal Pretore di Vicenza. Ad avviso della
Consulta la disposizione denunciata non va ritenuta portatrice di una
ingiustificata omologazione di situazioni fra loro diverse, perché il criterio
dell’esposizione ultradecennale costituisce un dato di riferimento
adeguatamente determinato, “soprattutto se si considera il suo collegamento al
sistema generale di assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali
derivanti dall’amianto, gestita dall’INAIL” (artt. 1 e 3 del D.P.R. n. 1124 del
1965). La possibilità di determinare i destinatari dei benefici previdenziali
ha quindi fatto cadere anche la pretesa violazione dell’art. 81, sollevata
proprio sul presupposto dell’impossibilità di calcolare i possibili oneri
finanziari.
Sulla sentenza, in alcuni punti ermetica, sono sorte due
differenti interpretazioni segnatamente in relazione alla necessità o meno di
esposizione “qualificata”.
In base ad un’interpretazione (da
noi condivisa in una precedente nota di commento) la Corte avrebbe emesso una
sentenza di rigetto, limitandosi a dichiarare non fondata la questione di
costituzionalità della norma esaminata, in riferimento ai parametri invocati
dai giudici che le hanno sottoposto le questioni di costituzionalità.
Secondo un’altra interpretazione, invece, la Corte avrebbe emesso una “sentenza interpretativa di rigetto”, nel senso che avrebbe reinterpretato le disposizioni di legge sottoposte al suo esame, desumendone contenuti diversi da quelli presupposti nelle ordinanze di rinvio a giudizio e, proprio in relazione a questa diversa interpretazione, avrebbe respinto le questioni di costituzionalità sollevate. Nel caso specifico la legge sarebbe stata ritenuta costituzionale perché interpretata nel senso di subordinare i benefici previdenziali all’esposizione a determinati livelli di esposizione all’amianto.
Con l’ordinanza n. 7/2000 la Corte
Costituzionale si è pronunciata sulle eccezioni sollevate dal Pretore di
Vicenza, ritenendole manifestamente inammissibili. In questo caso la Consulta
non è entrata nel merito della questione della disparità di trattamento tra
lavoratori privati e non privati, ma ha respinto l’ordinanza considerando in
palese contraddizione fra di loro le argomentazioni del giudice remittente, che
per un verso aveva lamentato l’esclusione dei benefici nei confronti dei
pubblici dipendenti e per l’altro aveva ritenuto che la loro inclusione sarebbe
illegittima. Rimane quindi aperto il problema - non certamente secondario -
relativo all’esclusione dai benefici contributivi dei lavoratori non iscritti
all’INPS ma ad altre gestioni (Fondo Pensioni di cui al D.P.R. n. 1092 del 1973
od altri Fondi di settore) che, come previsto nella nostra precedente nota, è
stato nuovamente proposto alla Corte costituzionale con motivazioni più
coerenti (Trib. di Treviso, ord. n. 3 del 17 gennaio 2001.
La giurisprudenza di merito e la
Cassazione
Le diverse interpretazioni sulla decisione della Corte
costituzionale si sono riflesse sulle decisioni dei giudici di merito sul punto
decisivo e qualificante relativo ai limiti di esposizione all’amianto,
suscettibili di giustificare l’intervento protettivo. Può essere utile allora
ripercorrere quel dibattito almeno nei profili salienti.
La lettura che non subordina l’ottenimento dei benefici
previdenziali all’esposizione a determinati livelli di amianto (tra gli altri
si vedano il Trib. di Ravenna, sent. n. 197/2000, e il Trib. di Firenze, sent.
n. 58/1998) si basa sulle seguenti argomentazioni:
a) L’interpretazione della legge n. 257/1992.
Il senso letterale del comma 8 dell’art. 13 sarebbe evidente
giacché sia nel testo originario (“Ai
fini del conseguimento delle prestazioni pensionistiche i periodi di
lavoro soggetti all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali
derivanti dall’esposizione all’amianto gestita dall’INAIL quando superano i 10
anni sono moltiplicati per il
coefficiente di 1,5”), sia nel
testo vigente (“Per i lavoratori che siano stati esposti all’amianto per un
periodo superiore a dieci anni, l’intero periodo lavorativo soggetto
all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali derivanti
dall’esposizione all’amianto, gestita dall’INAIL, è moltiplicato, ai fini delle
prestazioni pensionistiche, per il coefficiente di 1,5”) il riferimento è
alla sola esposizione all’amianto. Un’interpretazione che presupponesse
necessari, per aversi situazioni di rischio, livelli particolari di
esposizione, comporterebbe il paradosso logico e letterale, ancor prima che
giuridico, di ritenere che, al di sotto di tali livelli di esposizione, non
sussista esposizione, inventando il concetto di “esposizione senza
esposizione”.
Non volendo fermarsi al dato letterale della norma e
ragionando sulla sua interpretazione logico-giuridica si perverrebbe alle
medesime conclusioni. La disposizione in questione aveva infatti previsto,
oltre al beneficio contributivo del comma 8, anche altre agevolazioni per i
lavoratori: la concessione del trattamento straordinario d’integrazione
salariale; la rivalutazione del numero di settimane coperto da contribuzione
obbligatoria (per i lavoratori delle miniere e cave di amianto); la possibilità
(in presenza di almeno trenta anni di contribuzione) di pensionamento
anticipato. In nessuna di queste ipotesi il conseguimento del beneficio viene
subordinato allo svolgimento di lavorazioni che implichino l’esposizione a
particolari concentrazioni di amianto e non a caso, dato che si trattava di
agevolazioni a sostegno di un settore che, per effetto della dismissione,
sarebbe entrato in crisi e che, per quanto concerne il comma 8, le agevolazioni
avrebbero dovuto riguardare (se si fosse mantenuta la limitazione ai dipendenti
dalle imprese che estraggono o utilizzano l’amianto come materia prima,
prevista dal decreto-legge n. 169/1993) solo un numero ristretto di lavoratori
rimasti fuori dal prepensionamento. In questo contesto, se si fosse imposta
anche la necessità di livelli qualificati di esposizione, l’iniziale previsione
di 1800 unità sarebbe scesa a poche decine, privando la disposizione
legislativa di qualsivoglia ragione di esistere.
Da
nessuna norma di legge sarebbe poi ricavabile la tesi che il concreto rischio
del verificarsi di patologie dovrebbe ravvisarsi solo là dove siano soddisfatte
le condizioni per il pagamento del premio supplementare per il rischio da
asbestosi.
La
volontà del legislatore emergerebbe chiaramente anche dall’esame dei lavori
preparatori delle leggi in questione, dai quali non risulta che la concessione
dei benefici sia subordinata a livelli qualificati di esposizione ma, al
contrario, che è impossibile definire un livello minimo di presenza di fibre di
amianto (“soglia minima di esposizione”) nell’aria al di sotto del quale siano
esclusi rischi. In tutti gli atti si fa riferimento, ai fini dell’ottenimento
dei benefici contributivi, esclusivamente a due requisiti: “che il periodo lavorativo con esposizione sia superiore a dieci anni”
e “che tale periodo sia stato soggetto
all’assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali gestita
dall’INAIL”.
Un’ulteriore conferma si ricaverebbe dall’esame dei
progetti di riforma della normativa, presentati, proprio con l’intento di
ridimensionarne i costi, nella passata legislatura. Essi non intervengono sulla
questione relativa ai livelli di esposizione - a tal fine sarebbe stata
sufficiente una “interpretazione autentica” - ma ricorrono a soluzioni diverse
riproponendo, ad esempio, la limitazione dei benefici ai dipendenti delle
aziende che estraevano o utilizzavano l’amianto come materia prima..
b) L’interpretazione della sentenza della
Corte Costituzionale n. 5/2000.
Secondo
l’indirizzo in esame, l’intervento della Consulta avrebbe convalidato una
lettura estensiva della normativa protettiva.
Nella
sentenza si chiarisce infatti che “il
criterio dell’esposizione ultradecennale costituisce un dato di riferimento
tutt’altro che indeterminato, specie se si considera il suo collegamento al
sistema generale di assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali
derivanti dall’amianto, gestita dall’INAIL”. Com’è noto l’obbligatorietà
dell’assicurazione è imposta dalla tipologia delle lavorazioni (elencate
nell’allegato 8 della legge) e non dal superamento di livelli di esposizione.
Il riferimento al rischio, inteso come svolgimento di attività lavorativa
soggetta al sistema di tutela previdenziale ex
D.P.R. n. 1124 del 1965, non comporta affatto la previsione di un’esposizione
qualificata, dato che una situazione di rischio è insita nella semplice
esposizione all’amianto (sia essa
diretta, in relazione a specifiche mansioni, sia essa indiretta, in relazione al materiale disperso
nell’ambiente di lavoro), come chiaramente risulta dalle unanimi e consolidate
conoscenze di carattere scientifico e secondo le univoche prescrizioni
normative (direttiva CEE 477 del 1983, D.Lgs. n. 277 del 1991, e D.P.R. n.
364/1994, che ha individuato, fra le lavorazioni a rischio, quelle che
espongono all’inalazione di fibre di amianto).
Le soglie limite del rischio di esposizione previste
dall’art. 31 del D.Lgs. n. 277/1991, a cui fa riferimento la sentenza, sono
soglie massime, oltre le quali l’esposizione non può più essere tollerata (e
che presuppongono l’adozione di una serie di interventi) e non soglie minime,
al di sotto delle quali non ci sarebbe rischio da esposizione. In proposito la
stessa Corte è chiara, quando, parlando della pericolosità dell’amianto e della
soglia limite (oltre la quale l’esposizione non è più consentita), specifica
che il legislatore l’ha prevista “a fini di prevenzione” (e non come parametro
per l’applicazione dei benefici previdenziali). Dalla sentenza non è neppure
ricavabile l’indicazione di altri “livelli qualificati” di esposizione,
inferiori a quelli previsti nell’art. 31 della legge (il riferimento è a quelli
indicati nell’art. 24 della stessa legge).
Attribuire
alla sentenza la volontà di imporre il terzo requisito, del superamento di
determinati livelli di esposizione, porterebbe “al crollo logico e giuridico
della pronuncia”, togliendo valore sia
al criterio del rischio morbigeno ed al sistema di assicurazione sociale, sia al criterio della durata
ultradecennale.
Questa lettura risulterebbe confermata dall’esame della
sentenza in relazione agli atti delle cause e, soprattutto, alle ordinanze di
rinvio, in cui si lamenta la violazione alla Costituzione proprio nella
considerazione che il premio previdenziale, concentrandosi sull’unico dato
dell’esposizione ambientale all’amianto per un periodo superiore a 10 anni,
senza bisogno di alcun livello minimo di esposizione, sarebbe di per sé
insufficiente per una corretta selezione degli aventi diritto. La Corte non
confuta tali prospettazioni, dando dalle disposizioni di legge sottoposte al
suo esame contenuti diversi da quelli presupposti nelle ordinanze di rinvio a
giudizio, ma sostiene invece che il criterio di esposizione ultradecennale
costituisce un “dato di riferimento tutt’altro che indeterminato”, essendo
l’elemento temporale coniugato con quello di attività lavorativa.
Sul versante opposto, si contrappongono, ormai costantemente, argomentazioni prioritariamente indirizzate a convalidare la tesi che l’ottenimento dei benefici previdenziali sarebbe subordinato all’esposizione a livelli superiori a quelli fissati dagli art. 24 e 31 del D.Lgs. n. 277/1991. Tesi che, è bene sottolinearlo, benché minoritaria nella giurisprudenza di merito (Trib. Vicenza, sent. n. 270/2000), ha trovato l’autorevole consenso della citata sentenza della Cassazione, sulla quale si concentrerà l’attenzione.
Punti
di forza di questa lettura sono:
A) L’interpretazione della legge n. 257/1992.
Una
lettura dell’intero articolo 13 della legge n. 257/1992, attesterebbe la
volontà di parametrare i benefici da riconoscere agli addetti alle lavorazioni
con amianto all’entità del rischio di esposizione, riconoscendo una posizione
privilegiata ai lavoratori che (per essere stati occupati in imprese che
utilizzavano o estraevano amianto) risultavano maggiormente esposti a tale
rischio.
La
tesi troverebbe conforto anche nel comma 8 dello stesso articolo che, nel
richiamare, ai fini del beneficio pensionistico, il periodo lavorativo soggetto
“all’assicurazione obbligatoria contro le
malattie professionali” gestita dall’INAIL, non può che aver inteso
sottolineare un collegamento tra il tempo di esposizione (oltre dieci anni) e
le lavorazioni con valori di esposizione legislativamente ritenuti a rischio,
individuabili in quelli indicati negli articoli 24 e 31 del D.Lgs. n. 277/1991,
il cui superamento fa sorgere in capo al datore di lavoro precisi obblighi di
prevenzione.
Non
volendo limitarsi al dato letterale della norma e concentrandosi su una sua
interpretazione logico-giuridica si arriverebbe alle medesime conclusioni. La
legge n. 257/1992 ha proibito, a partire dal trecentosessantacinquesimo giorno
della sua entrata in vigore, “l’estrazione,
l’importazione, l’esportazione, la commercializzazione e la produzione di
amianto e di prodotti contenenti amianto”, ed ha predisposto misure di
decontaminazione e di bonifica delle aree interessate all’inquinamento da
amianto, disponendo, a sostegno di imprese e lavoratori, meccanismi diretti a
conseguire anticipatamente la pensione di vecchiaia e di anzianità. In questa
iniziativa il legislatore non poteva non tenere presente che l’attuazione della
legge richiedeva gradualità e una pluralità di interventi e che tali interventi
interessavano un assetto industriale “caratterizzato
da un vasto panorama di imprese esposte in maniera differenziata al rischio
amianto”. In questo contesto dovrebbe escludersi che il legislatore abbia
voluto attribuire il beneficio pensionistico in esame a tutti i lavoratori
comunque esposti ad inalazioni di amianto, anche di minima entità, come, ad
esempio, a coloro che sono destinati a lavorare in ambienti oggetto dell’opera
di bonifica e delle misure di prevenzione.
In
definitiva l’esposizione a quantità ridotte di amianto non sarebbe
considerabile come fattore di effettivo rischio, tant’è vero che la stessa
legge n. 257 del 1992, finalizzata all’abolizione dell’impiego di amianto, ne
accetta la possibile presenza in ambienti lavorativi e stabilisce un limite di
concentrazione al di sotto del quale le fibre devono considerarsi “respirabili”
e non tali da richiedere misure protettive specifiche (art. 3). Il concreto
rischio del verificarsi di malattie dovrebbe ravvisarsi solo “laddove siano soddisfatte
le condizioni per il pagamento del premio supplementare per il rischio da
asbestosi” o laddove venga richiesta la predisposizione di cautele per evitare
il rischio da esposizione.
Un
argomento diverso viene sostenuto dalla sopracitata giurisprudenza di merito,
la quale, precisando che la legge n. 257 del 1992 non è finalizzata alla tutela
della salute dei lavoratori, ma a fornire agevolazioni previdenziali, ne deduce
che non potrebbe avere rilievo, ai fini della sua applicazione, qualsiasi esposizione,
anche modesta, che, come tale, potrebbe portare all’insorgenza di malattie come
il mesotelioma pleurico, ma solo quella esposizione qualificata che potrebbe
portare all’insorgenza delle malattie professionali da amianto.
B) L’interpretazione della sentenza della Corte Costituzionale n.
5/2000
Secondo
l’indirizzo considerato, anche la sentenza della Corte Costituzionale avrebbe
una diversa valenza. La Corte Costituzionale sostiene che il concetto di
esposizione ultradecennale, coniugando l’elemento temporale con quello di
attività lavorativa soggetta al sistema di tutela previdenziale del D.P.R. n.
1124/1965, viene ad implicare necessariamente quello di rischio morbigeno
rispetto alle patologie che l’amianto è capace di generare. Il riferimento al rischio
comporterebbe automaticamente la necessità di esposizione ad una concentrazione
di materiale tale da poter determinare una situazione di rischio. Senza la
possibilità di inalazione di una buona dose di fibre di amianto, in definitiva,
non ci sarebbe rischio di malattia.
Dall’intero
contesto motivazionale della decisione della Corte Costituzionale si
ricaverebbe, quindi, il deciso rifiuto di ogni interpretazione del comma 8
dell’art. 13 della legge n. 257/1992 diretta ad estendere il beneficio
previdenziale a tutti i lavoratori addetti per più di dieci anni a lavorazioni
che li abbiano esposti ad inalazione di fibre di amianto e la necessità di
agganciare detta esposizione a chiari standards parametrici di rischio.
Alcune considerazioni conclusive
All’esito della complessa vicenda descritta si possono
trarre alcune considerazioni di sintesi.
La legislazione specifica
in materia di amianto, ed in particolare la norma con un maggiore potenziale
diffusivo, e perciò più controversa - vale a dire quella inerente l’incremento
del periodo contributivo - perseguiva palesemente l’obiettivo di fornire una
peculiare tutela ai lavoratori che avessero operato per un tempo consistente in
contesti lavorativi inquinati dall’uso dell’amianto. Da questo punto di vista la
norma presentava una formulazione abbastanza lineare, e per così dire
originale, supponendo che la mera esposizione protratta in ambienti
suscettibili di rischio fosse un presupposto sufficiente per l’attribuzione di
una maggiore anzianità contributiva, e ciò sulla base di parametri alquanto
elementari che consentissero esclusivamente di evitare forme di utilizzazione
strumentali o fraudolenti. Tuttavia nella fase applicativa la norma aveva
rivelato una naturale proiezione espansiva ben oltre i termini quantitativi, ed
anche qualitativi, originariamente ipotizzati dal legislatore al punto da
determinare una vera e propria situazione di implosione, riverberatasi in
proporzioni macroscopiche nel contenzioso giudiziario.
In altri termini, a
volere osservare retrospettivamente la vicenda, si può registrare un fenomeno,
neppure tanto raro, di vera e propria dissociazione tra la capacità del
legislatore di disciplinare e regolamentare alcuni delicati fenomeni sociali in
continua evoluzione e le dinamiche effettive che hanno rivelato fenomeni e
processi di entità ben più consistenti e problematici di quelli astrattamente
considerati. A questo riguardo si può anche convenire che la tendenza espansiva
è stata alimentata da interessi non sempre ineccepibili ed è venuta a
coniugarsi con un’artificiale lievitazione del contenzioso previdenziale; ciò
nondimeno l’interpretazione normativa non poteva da sola giustificare
l’ampiezza del dibattito e l’articolazione delle posizioni difformi.
In questo contesto ormai esplosivo è iniziata
un’operazione per così dire di “recupero progressivo”, o, se si vuole, di Realpolitik, il cui ruolo preminente è
stato assegnato alle magistrature superiori, o, per meglio dire, che si è
sviluppata in un singolare processo di interazione - o in un gioco di rimbalzo
- tra la Corte Costituzionale e la Suprema Corte di Cassazione, agevolmente
ricostruibile nella motivazione delle pronunzie sin qui esaminate.
Ed invero la Corte Costituzionale, al di là di
affermazioni più o meno rituali se non demagogiche, ha definito il tracciato
entro cui impostare un’operazione di delimitazione normativa allorché ha
osservato che “il criterio
dell’esposizione decennale costituisce un dato di riferimento tutt’altro che
indeterminato, specie se si considera il suo collegamento, contemplato dallo
stesso art. 13, comma 8, al sistema generale di assicurazione obbligatoria
contro le malattie professionali derivanti dall’amianto, gestita dall’INAIL”.
E con ancora maggiore incisività ha poi aggiunto che “nell’ambito di tale correlazione, il concetto di esposizione
ultradecennale, coniugando l’elemento temporale con quello di attività
lavorativa soggetta al richiamato sistema di tutela previdenziale (artt. 1 e 3
del D.P.R. n. 1124 del 1965), viene ad implicare, necessariamente, quello di
rischio e, più precisamente, di rischio morbigeno rispetto alle patologie,
quali esse siano, che l’amianto è capace di generare per la sua presenza
nell’ambiente di lavoro; evenienza, questa, tanto pregiudizievole da indurre il
legislatore, sia pure a fini di prevenzione, a fissare il valore massimo di
concentrazione di amianto nell’ambiente lavorativo, che segna la soglia limite
del rischio di esposizione (decreto legislativo 15 agosto 1991, n. 277, e
successive modifiche)”.
Come si può notare, la delimitazione oggettiva dell’ambito
di incidenza della normativa è stato progressivamente spostato da una
definizione per così dire generalista, in buona parte originale e specifica, ad
una definizione strettamente assicurativa, che tendeva a renderla coerente con
i principi generali in materia di assicurazione obbligatoria e con
l’elaborazione consolidata in materia di rischio professionale.
A questo punto le coordinate erano nitidamente tracciate
per consentire l’ulteriore operazione di interpretazione - ma forse
bisognerebbe dire di legificazione - da parte della Suprema Corte di Cassazione
la quale, dopo avere esordito con il rilievo che “una lettura dell’intero art. 3, L. n. 257/1992, attesta (...) una
volontà di parametrare i benefici da riconoscere agli addetti a tali
lavorazioni all’entità del rischio di esposizione”, ha subito dopo
perentoriamente affermato che “detta
disposizione, nel richiamare, ai fini del beneficio pensionistico, il periodo
lavorativo soggetto “all’assicurazione obbligatoria contro le malattie
professionali (...) gestita dall’INAIL” non può che avere voluto sottolineare
un collegamento tra tempo di esposizione (ultradecennale) e lavorazioni con
valori di esposizione legislativamente ritenuti a rischio, individuabili in
quelli indicati negli artt. 24 e 31 del D.Lgs. n. 277/1991, il cui superamento
faceva sorgere - già in epoca antecedente l’entrata in vigore della legge n.
257 del 1992 - precisi obblighi di prevenzione a carico degli imprenditori con
lavorazioni interessate da polveri provenienti dall’amianto (cfr. commi 4, 5,
6, 7 e 8, art. 31, D.Lgs. n. 277/1991)”.
Tali enunciazioni di principio, che attengono alla
dimensione oggettiva della tutela, si completano perfettamente con i rilievi
successivi che riguardano la posizione per così dire soggettiva del lavoratore
coinvolto, dove la Corte insiste sulla necessità di un’indagine istruttoria che
sia suscettibile di “personalizzare” le condizioni meritevoli di intervento
soggettivo, donde una serie di rilievi, più o meno accettabili, che attengono sia all’onere della prova, integralmente
addebitato al lavoratore, sia alla
valutazione dell’arco temporale, nell’ambito del quale vanno considerate le
pause fisiologiche (ferie, festività, etc.), ma non quelle per così dire
patologiche (servizio militare, periodo di aspettativa, etc.).
Sebbene la pronunzia della Suprema Corte definisca linee interpretative chiare ed univoche, tuttavia l’opera di razionalizzazione forzosamente effettuata su una tematica così incandescente non può lasciare soddisfatti giacché è sin troppo evidente il ruolo surrogatorio esercitato dalla magistratura superiore rispetto ad una funzione regolamentare che doveva essere realizzata, con ben altra compiutezza, nella sede istituzionale, vale a dire nelle aule parlamentari. Ciò è tanto più vero ove si consideri che le più recenti acquisizioni scientifiche forniscono sempre nuovi elementi di riflessione sui livelli di pericolosità di certe sostanze e sulle conseguenti esigenze di protezione, inducendo anche ad un progressivo adeguamento della normativa protettiva ed imponendo la necessità di individuare tecniche di tutela del tutto originali ed innovative. Un intervento legislativo, per essere coerente e corretto, non potrà, quindi, che mirare a dosare le esigenze di compatibilità-prevedibilità della spesa finanziaria con quelle di tutela.