Vorrei innanzitutto ringraziare i rappresentanti delle Associazioni Imprenditoriali per aver accolto il nostro invito a partecipare a questa iniziativa, che oltre a consentire loro di incontrare per la prima volta il nostro nuovo Segretario Generale Guglielmo Epifani renderà possibile un confronto ravvicinato sui temi che vedono maggiormente impegnata la nostra Confederazione e la nostra Categoria e che in parte sono oggetto di analoghe attenzioni e iniziative dei nostri interlocutori.

 

L’occasione è quella della presentazione di un lavoro curato dal Centro Studi “Impresa e Lavoro in Edilizia”, costituito presso la Facoltà di Architettura di Valle Giulia in seguito ad un accordo con la Fillea.

L’iniziativa nasce da un interesse comune fondato sulla convinzione che l’esperienza sindacale e quella accademica possono contribuire, attraverso una sinergia originale, ad offrire letture e proposte sulle principali problematiche che investono il nostro settore.

 

Il sindacato, per parte sua, compie un atto attraverso il quale riconosce il limite del pragmatismo, soprattutto a fronte della crescente complessità con la quale si manifestano i fenomeni dentro il settore delle costruzioni ed investe sulla cultura, sulla conoscenza, sulla ricerca anche teorica, con l’obiettivo di aggiungere un proprio punto di vista a quelli che già gli altri attori mettono a disposizione e cerca di farlo con la maggiore autorevolezza che deriva dal coinvolgimento di un soggetto scientificamente autorevole come –appunto- l’Università ed in questo caso la Facoltà di Architettura Valle Giulia.

 

L’Università, a sua volta, può trovare in questa esperienza una ulteriore occasione di apertura verso la società, interpretandola, ad esempio in questo caso, come un potenziale ed importante laboratorio ove applicare e sperimentare le proprie conoscenze.

 

La denominazione del Centro Studi contiene due parole chiave, lavoro ed impresa, perché pur rappresentando come sindacato una parzialità del processo produttivo, i lavoratori, è nostra convinzione che in questo settore, forse più che in tanti altri, il destino dei lavoratori e quello delle imprese sono molto legati tra loro.

 

Dunque, senza rinunciare alla nostra parzialità, senza rinunciare alla nostra funzione di soggetto che tutela gli interessi del mondo del lavoro, vogliamo farlo misurandoci con le problematiche dell’intero processo produttivo, comprese quelle che investono il sistema delle imprese, tentando di essere con ciò di stimolo al processo di rinnovamento che deve investirle.

E lo facciamo offrendo una nostra opinione, un nostro punto di vista sulle questioni che investono il settore delle costruzioni in questa fase.

 

Il Professor Ferdinando Terranova, docente ordinario di “Processi e metodi della produzione edilizia” della Facoltà di Valle Giulia e Responsabile scientifico del Centro Studi che ha curato la ricerca, ne illustrerà sinteticamente gli aspetti più significativi.

Io vorrei ringraziarLo a nome della Fillea e ringrazio anche i collaboratori, i consulenti e gli esperti che con Lui hanno lavorato e lavoreranno per dare seguito a questa nostra iniziativa.

 

Il mio compito –dunque- è solo quello di mettere a disposizione una chiave di lettura su quanto contenuto nel rapporto, auspicando che ciò possa sollecitare un confronto sincero e costruttivo con i nostri interlocutori.

 

Sicuramente il rapporto contiene più conferme che novità. Del resto la fotografia sullo stato del settore, ampiamente indagato in questi mesi, è nota altrettanto ampiamente tra gli attori che vi operano: dopo un quinquennio di incrementi positivi a due cifre il settore è entrato in un ciclo che vedrà l’esaurirsi della fase espansiva che lo ha accompagnato a partire dalla seconda metà degli anni ’90. E’ probabile che a questo raffreddamento segua una inversione di tendenza caratterizzata da ridimensionamento e stagnazione.

 

Il 2002 è stato un altro anno positivo, ma con risultati abbastanza distanti da quelli conosciuti negli anni precedenti. In quel 1,4% di crescita stimata dal Cresme si addensano già i primi sintomi di quella contrazione che prelude all’inversione di tendenza prevista.

 

L’andamento occupazionale non ha ancora risentito in modo sensibile di questo cambiamento di fase. Sia nel 2001 che nel 2002 l’occupazione dipendente è cresciuta del 5,7% e del 4,2%. Il nostro settore ha così contribuito a sostenere il livello occupazionale del Paese, assieme al terziario, settori questi due che più di ogni altro hanno contribuito alla formazione del Pil.

 

Eppure in ognuno di noi vi è la convinzione che questi dati fotografino una fase che già potenzialmente non c’è più e che comunque stia lasciando il passo ad un tunnel di incertezze e preoccupazioni.

Naturalmente pesa in questa valutazione il tradizionale andamento dei cicli espansivi tipici del settore delle costruzioni.

 

Ma secondo noi e non solo secondo noi all’interno di questo scenario c’è un di più, c’è un insieme di scelte operate che hanno accentuato e rischiano di accentuare ancor di più gli effetti negativi della fine del ciclo espansivo.

 

Secondo la nostra opinione non solo la crescita del settore poteva e potrebbe esprimere ancora delle potenzialità ma addirittura poteva e potrebbe rappresentare una delle risposte anticicliche ad una crisi come quella italiana che avrebbe bisogno come il pane di settori in grado di sostenere non solo la domanda di consumi, ma lo sviluppo qualificato dell’economia.

 

E questo di più sta innanzitutto nelle scelte operate dal Governo in tutti questi mesi (o forse sarebbe meglio dire non operate).

Vorremmo stare il più lontano possibile da polemiche pretestuose (benchè crediamo di non averle mai fatte) stando all’obiettività dei dati analitici.

 

La conclusione nostra è che il Governo con le sue scelte non ha aiutato il settore e le sue potenzialità e certo non ci consola (anche se non ci imbarazza) trovarci in questa critica in compagnia della grande maggioranza delle stesse associazioni imprenditoriali.

 

Il Governo aveva promesso l’apertura di un grande cantiere, il Cantiere Italia, come l’aveva definito. Per la verità fin dall’inizio non ci era parso un approccio molto serio e credibile quello di affidare alla propaganda televisiva questa intenzione lodevole e mi riferisco alla famosa mappa televisiva delle grandi opere strategiche.

E tuttavia il Governo non faceva altro che toccare un tasto vero, quello del deficit infrastrutturale, che è problema serio e complice della bassa competitività dei nostri sistemi produttivi, anche se si trattava della scoperta dell’acqua calda.

 

Il problema è che oggi le risorse destinate a quel cantiere smentiscono clamorosamente quelle intenzioni. Le cifre ditele voi, le nostre sono contenute nel rapporto. Ma la sostanza è che il precedente esercizio di bilancio già le aveva ridotte, l’ultima finanziaria le ha ridotte ulteriormente e quelle indispensabili per completare la realizzazione delle opere cosiddette strategiche e che mancano all’appello non si sa se e da dove potranno arrivare.

 

Per fortuna lo avete già detto voi, perché se lo diceva solo Epifani avrebbero detto che anche lui continua a fare politica…! Del resto che le nozze con i fichi secchi non si possono fare è concetto che appartiene alla fase precedente alla costituzione dell’ultimo Governo!

 

Ma questo è solo il primo aspetto. Se le risorse non bastano ed il buon senso consiglierebbe maggiore prudenza nel dispensare promesse a destra e a manca, sarebbe comunque auspicabile una politica di reperimento delle risorse stesse credibile ed efficace.

La nostra opinione è che dietro la nozione di finanza creativa vi sia in effetti molta fantasia e poco costrutto, in qualche caso addirittura qualche pericoloso boomerang.

 

Volendo perseguire l’obiettivo congiunto del reperimento delle risorse e della riduzione del debito pubblico il Governo, affidandosi a questa finanza creativa, ha costituito le due note società, Patrimonio Spa ed Infrastrutture Spa, con l’obiettivo tra l’altro di rendere più efficace la normativa sulla Finanza di Progetto.

 

Ma la manovra è piena di rischi ed incertezze, a partire dall’appetibilità per gli investitori privati delle grandi opere dal rendimento di lungo termine, dato che potrebbe far abortire sul nascere il project financing.

E poi, la ricerca  delle necessarie garanzie da parte dello Stato hanno portato il Governo ad impegnare la Cassa Depositi e Prestiti, rischiando di sottrarre la principale fonte che alimenta finanziariamente il programma complessivo delle Pubbliche Amministrazioni, svuotandola di competenze mettendola alle dirette dipendenze del Ministro Tremonti.

 

Per non parlare delle raccomandazioni del FMI relative al consolidamento dei conti pubblici, alla massima trasparenza ed al massimo controllo parlamentare, raccomandazioni che con l’operazione messa in campo il nostro Paese non sembra in grado di raccogliere, anche perché rischia di configurarsi come una traslazione di debito pubblico in tempi successivi.

 

Del resto la scarsa vocazione settoriale del Governo è apparsa fin dalle più piccole diatribe che hanno accompagnato la vicenda relativa alla proroga dello sgravio del 36%, per le ristrutturazioni che non si è voluto rendere strutturale e l’aliquota Iva al 10% sui materiali da costruzioni. E poi le vicende sulla cancellazione dei residui passivi, che ha fatto sollevare soprattutto le nostre imprese e sul credito di imposta per i nuovi assunti.

 

Esiste dunque un problema serio che peserà nei prossimi mesi e nei prossimi anni, quello dell’assenza di risorse per garantire la realizzazione di opere essenziali e questo dato non è attenuato dal fatto che quelle disponibili comunque consentiranno di aprire cantieri, perché il problema non è solo aprire quei cantieri, ma portarli a conclusione, se è vero che il problema reale è il deficit infrastrutturale.

 

Purtroppo non è problema che riguardi solo il settore delle opere cosiddette strategiche.

L’effetto spugna della Legge Obiettivo, la presa in ostaggio della Cassa Depositi e Prestiti avrà conseguenze dirette sul mercato delle opere ordinarie, sottrarrà il carburante a quello che è il motore principale dell’economia settoriale.

 

E questo non è grave solo perché rischiano di non lavorare tante imprese piccole e medie che costituiscono una ricchezza del nostro tessuto produttivo, ma soprattutto perché si rischia di non realizzare opere ugualmente importanti per lo sviluppo del Paese.

Lo abbiamo detto più di una volta, sono importanti le autostrade, le ferrovie veloci, in alcuni casi i ponti, ma lo sono anche le scuole, le case, le opere di manutenzione del territorio, gli interventi di recupero delle città e delle aree urbane, la mobilità territoriale, ecc e sono importanti perché rappresentano una condizione dello sviluppo di questo Paese.

 

Tutto questo rischia di essere bloccato, secondo una previsione non molto difficile da farsi. Se il settore già sente i sintomi di un raffreddamento non è molto difficile immaginare che quando gli effetti del blocco del mercato saranno pienamente espressi saremo dentro una pericolosa fase di regressione produttiva, di vera e propria recessione.

 

Il clima di incertezza tra gli operatori e tra le imprese può indubbiamente accentuare le negatività denunciate.

Già il conflitto che si è aperto attorno alle modifiche della normativa sugli appalti tra Regioni e Governo è fonte di non poche incertezze per chi deve operare in un mercato nel quale agiscano un minimo di regole condivise. Si aggiunga anche un rapporto con l’Unione Europea non del tutto chiaro, al limite della procedura di infrazione e non è molto difficile interpretare lo stato di incertezza e di preoccupazione di chi si attendeva un risultato esattamente opposto degli interventi effettuati, cioè, una maggiore rapidità e semplicità nel mercato delle costruzioni.

 

Non credo di aver dipinto un quadro strumentale delle difficoltà che il settore sta vivendo, anche perché in tutta onestà mi pare ampiamente coincidente con il pensiero diffuso tra gli stessi nostri interlocutori.

 

Ma forse è qui che si esauriscono le coincidenze tra noi, anche se voglio sperare di no. Se il settore è davanti a tutti questi rischi diventa decisivo capire cosa fare, se c’è un fare comune e, comunque, cosa può fare ognuno di noi per evitare di precipitare in quello che la Cgil ha definito declino.

 

La parola può sembrare pesante per un settore che ha chiuso il 2002 con tutti dati positivi, ma vogliamo avere il coraggio di guardare un po’ più in là del nostro naso e farlo per tempo. Se sono vere le preoccupazioni dette, se i rischi e le conseguenze negative che abbiamo elencato in precedenza hanno un qualche fondamento bisogna sapere che il rischio di un declino del settore è contenuto all’interno di quelle dinamiche.

 

Del resto che l’Italia sia in declino non lo diciamo più solo noi, vi è una graduale ed inesorabile presa di coscienza da parte di tutti gli osservatori economici e finanziari.

Nella graduatoria sulla competitività dei sistemi produttivi il nostro Paese occupa il 32° posto, dietro Cile ed Ungheria.

Questa non è la conseguenza del caso, di un destino cinico e baro, ma il risultato di scelte, compiute anche da una parte importante del sistema delle imprese, con le quali si è rinunciato all’innovazione qualitativa, preferendo la competizione bassa.

 

Sono stati abbandonati i settori strategici dell’economia, la spesa per la ricerca pubblica e privata è semplicemente ridicola, il settore dell’auto con il quale a torto o a ragione si misura la forza di una economia moderna è stato lasciato privo di progetti industriali avanzati. Il bollettino di guerra, lo sapete come noi o forse meglio di noi, è molto più lungo.

 

Il declino non è solo nei dati dell’attualità economica e congiunturale, il declino è soprattutto assenza di futuro, è mancanza di una prospettiva e questo fa ancor più male di una stretta congiunturale.

 

Contro questo scenario noi vogliamo combattere, anche perché non esiste un declino degli altri che non si ripercuota anche nel nostro settore. Se l’economia ripiega su se stessa anche il mattone alla fine diventerà un rifugio solo virtuale e comunque per un numero sempre  minore di persone.

 

La mobilitazione messa in campo dalla Cgil e che porterà anche allo sciopero generale dell’industria e dell’artigianato del 21 febbraio assume questa preoccupazione e nel contempo l’obiettivo di sconfiggere questa prospettiva.

Naturalmente non chiediamo a voi di condividere questa scelta –ci sembrerebbe davvero troppo- né ci sembrerebbe utile che la prendeste a pretesto per una polemica che scantoni il merito delle questioni.

 

Restiamo al merito e restiamoci a casa nostra, sulle nostre cose. Non basta dire dove il Governo ha sbagliato o sbaglia è giusto e necessario dire cosa fare, proporre una ricetta.

La Cgil, l’11 febbraio terrà una iniziativa sui temi della politica industriale, portando delle proposte di sviluppo.

 

Anche noi abbiamo le nostre e non ci dispiacerebbe che potessero coincidere oppure essere un contributo alla messa a punto di una ricetta condivisa, senza rinunciare al ruolo che ognuno di noi svolge.

La nostra è una ricetta che punta alla qualità dello sviluppo di un settore del quale siamo orgogliosi ed al quale siamo attaccati, perché è espressione di una grande tradizione del lavoro di questo Paese.

 

Quando si parla di qualità di solito siamo tutti d’accordo, però esprimiamo qualche dubbio circa alcune strade che vorrebbero portare alla qualità, strade che possono portare secondo noi ad una meta opposta che è la destrutturazione diffusa del settore.

 

Mi limito solo ad alcuni esempi, poiché è materia sulla quale ci siamo appassionati nel corso di questi mesi e che in alcuni casi sono riproposti da una cronaca non certo benevola per l’immagine ed il futuro di questo settore.

 

Sapete già quello che noi pensiamo delle modifiche introdotte alla normativa sugli appalti. Al di là del caos normativo nel quale ci siamo infilati è difficile nascondere che dietro l’apparente volontà di semplificare e velocizzare la realizzazione delle grandi opere si sia voluto far avanzare un progetto di progressiva deregolamentazione del settore.

Vorrei che qualcuno ci spiegasse il nesso tra deregolamentazione e qualità, perché ancora non l’abbiamo capito. E se non l’abbiamo capito non è perché siamo zucconi o troppo ideologizzati, ma semplicemente perché non c’è un nesso logico!

 

E’ vero semmai il contrario. Abbiamo ascoltato più di una volta alle nostre iniziative o ad altre iniziative imprenditori o loro rappresentanti che invocavano la piena libertà di organizzare il cantiere. Dovete spiegarci qual è il nesso tra questa libertà che qualcuno di voi invoca nel organizzare a proprio piacimento il cantiere e la qualità che tutti vogliamo. Se scegliamo di essere tutti sinceri sapete come noi che questo nesso non c’è, anzi.

 

Tra le modifiche introdotte alla normative vi è, ad esempio, la valorizzazione del contraente generale, una sorta di plenipotenziario dell’opera.

Quando siamo stati chiamati ad esprimere una nostra opinione sul regolamento per la qualificazione del contraente generale abbiamo evidenziato il rischio di un fenomeno a cascata di appalto e subappalto, il rischio di un non governo della qualità complessiva dei rapporti di lavoro e delle condizioni di lavoro. Il rischio della messa in discussione della pratica della contrattazione d’anticipo che ha consentito, là dove praticata soprattutto nei cantieri dell’Alta Velocità, di determinare le condizioni per una maggiore qualità del cantiere.

 

Ci è stata addirittura riconosciuta ragione nel sostenere che quella tipologia di contraente generale ripropone la centralità del massimo ribasso quale pratica prevalente….

 

Le vicende riportate in questi giorni dalla cronaca che parlano di cantieri importanti nei quali il ricorso sfrenato al subappalto ha portato all’uso di lavoratori stranieri, non assicurati, sottopagati, completamente al di fuori dalle norme contrattuali e legislative sulla sicurezza, hanno a che fare con la qualità desiderata? E non sto parlando di piccoli cantieri e di costruttori fantasma. In quel caso l’impresa madre sosteneva di non sapere ciò che accade in cantiere, perché in cantiere lei non c’è!

 

La L.1369 parlava di responsabilità in solido delle imprese. La delega del Governo ne propone l’abolizione. C’è una qualche relazione tra qualità e deresponsabilizzazione dell’impresa che prende l’appalto?

 

E potremmo proseguire con tutta la delega che riforma il mercato del lavoro nel senso della precarizzazione.

 Può darsi che un settore come il nostro dove da sempre vige il diritto al licenziamento per fine fase lavoro o fine cantiere quel bisogno di flessibilità in più che invoca l’impresa italiana sia superfluo, ma la spinta che quella riforma esercita addirittura verso la individualizzazione del rapporto di lavoro è una cosa che ha a che fare con la qualità del lavoro, tanto più se non viene accompagnata da una seria riforma degli ammortizzatori sociali che assuma il perno della formazione permanente.

 

Dopodichè attendiamo con trepidazione di conoscere i contenuti della delega in materia di sicurezza sul lavoro. Non so se tutti si sono accorti che la morte nei cantieri è tornata ad essere una notizia quotidiana! Non è certo il frutto della qualità che avanza nel settore, piuttosto la conseguenza di un messaggio di segno opposto che nel corso di questi mesi ha preso campo.

Forse occorrerebbe produrre una atto di civiltà ispirato ad una cultura industriale che assuma il lavoro, il capitale umano come una risorsa da proteggere, da salvaguardare.

 

Le notizie su quella delega invece non sono incoraggianti. Anche lì il messaggio è l’allentamento del rigore, il superamento graduale del vincolo, perché solo così può essere interpretata la scelta della depenalizzazione o quella della compatibilità dei costi della sicurezza con l’economicità dell’impresa, ad esempio nel settore artigiano.

 

Diceva un vecchio, ma ancor sveglio uomo politico nostrano, che ha pensar male si fa peccato, ma il più delle volte ci si azzecca.

 

Non vorremmo che la causa della trasparenza, della legalità, della qualità, della lotta per l’emersione, una causa che fa molti adepti nel settore fosse il pretesto per rivendicare permanentemente una politica di sostegni fiscali dei quali sicuramente il settore avrebbe necessità, ma che non possono appartenere ad una logica di sostegno indiscriminato o indifferenziato, come nella tradizione più antica di questo Paese tornata in auge con le scelte di questo Governo.

 

Abbiamo condiviso, come voi sapete, la richiesta di misure fiscali di sostegno all’edilizia, alcune ottenute attraverso la proroga di misure già esistenti, altre rimaste inascoltate.

 

Sarebbe sbagliato se ciò portasse la maggior parte delle imprese a ricercare nella mera strategia di riduzione dei costi, la via della sopravvivenza, già che di sopravvivenza non potrebbe che trattarsi. Tanto più che i costi da ridurre sarebbero essenzialmente quelli del lavoro.

 

E’ un auspicio che noi facciamo a cavallo tra una stagione contrattuale integrativa che sta compiendo il giro di boa  -con risultati apprezzabili-  e la prossima stagione per il rinnovo dei CCNL.

 

Anche in questo caso il problema è qualificare i costi, spendere meglio più che spendere meno, tanto più che la nostra categoria non si è mai caratterizzata come un’orda di cosacchi.

Spendere meglio significa che la contrattazione deve orientare i suoi costi oltre che alla tutela dei salari reali ed alla loro valorizzazione, anche alla promozione della valore professionale del lavoro.

 

E nel nostro settore questa esigenza si incrocia anche con la lunga ed importante esperienza della bilateralità. Noi siamo per riformare e qualificare gli enti bilaterali, per renderli in grado di corrispondere meglio alle esigenze nuove del lavoro e dell’impresa, sia sul terrenno delle prestazioni, sia su quello strategico della formazione che su quello della sicurezza.

Ma non per questo siamo per snaturarne la funzione di strumenti attuativi della contrattazione, perché crediamo nella funzione negoziale delle parti quale fattore di sviluppo dell’impresa e della società.

 

Anche questa ultima domanda vorremmo porvi, C’è una relazione tra sindacato e qualità? O meglio di quale qualità si parla se si pensa ad un sindacato che non possa o non debba più esercitare la sua funzione di soggetto negoziale e, nel caso nostro, di partenariato in quell’importante laboratorio del dialogo sociale che la stessa bilateralità può essere?

 

Forse quando pensiamo male sbagliamo, ma in tutti questi mesi gli atti concreti ai quali abbiamo assistito, gli atti prodotti da questo esecutivo sembrano concentrati su una preoccupazione fondamentale, togliere al sindacato questa funzione, il che potrebbe essere di secondaria importanza se ciò non coincidesse con l’ossessiva ricerca di penalizzare tutele e diritti che non sono del sindacato ma delle lavoratrici e dei lavoratori in carne ed ossa.

 

Noi non siamo disposti ad assecondare questo disegno, non per noi ma per il Paese che vuole crescere e svilupparsi.

Voi ci conoscete bene e sapete che questo interesse generale ci ha sempre mossi anche nelle vicende della nostra categoria e del nostro settore.

 

Ecco perché di fronte al bivio con il quale abbiamo intitolato questa nostra iniziativa, lavoro e impresa tra declino e innovazione, pur vedendo il pericolo concreto del declino, della pericolosa involuzione che potrebbe ulteriormente indebolire l’importanza e la forza del nostro settore, siamo per imboccare, senza tentennamenti nè presunzioni, la strada dell’innovazione, per quello che ci compete e per quello che possiamo fare.

 

Se non saremo i soli è una scommessa che potremo vincere. Grazie!

 

 

Roma, 4 febbraio 2003