Il settore delle costruzioni
ha chiuso il 2002 con una crescita del 1,4% sull’anno precedente, contribuendo
per l’11,9% alla formazione del PIL. Questo dato
conferma la crescita registrata negli ultimi 6-7 anni e l’eccezionalità del
ciclo espansivo che ha avuto agli inizi della metà degli anni ’90.
Anche l’andamento occupazionale conferma la positività del ciclo.
Nell’ultimo biennio la crescita è stata ancora del 5,5% portando il numero
degli occupati a 1.750.000 (recuperando gran parte della perdita subita negli
anni della crisi), con una forte crescita del lavoro dipendente (il 10% nello
stesso biennio).
Questa fotografia può sembrare nettamente contrastante con il declino industriale che abbiamo
denunciato in queste settimane e contro il quale ci
siamo mobilitati.
Ma il
declino di cui parliamo non è solo nei numeri della congiuntura, non è il
fotogramma di un esercizio. Il declino di cui parliamo è la somma della crisi
in cui versano i principali settori produttivi, ma anche delle occasioni
mancate per lo sviluppo, il declino è l’assenza di prospettive e di futuro.
Il questo contesto e di fronte a questo rischio il
settore delle costruzioni rischia di
iscriversi quale esempio di quanto l’incapacità strategica del Governo ed il
ripiegamento delle imprese su politiche di basso profilo possano più delle
dinamiche negative della congiuntura interna ed internazionale.
Il ciclo positivo che già risente di una
significativa inversione di tendenza nel 2003 che potrebbe diventare
stagnazione nel 2004 è stato sostanzialmente il frutto di una politica fiscale
a favore di settori trainanti delle costruzioni, a partire dalle ristrutturazioni
e dalla manutenzione.
Questi interventi hanno consentito di far ripartire il motore del
settore dopo la crisi di Tangentopoli, ma quel processo positivo
non conteneva in sé gli elementi per il necessario salto di qualità del sistema delle imprese.
Il settore, infatti, si è presentato agli inizi del 2000
sostanzialmente nelle stesse condizioni nelle quali era uscito dal tunnel di
Tangentopoli: la più bassa dimensione
d’impresa tra i paesi europei ed un sistema di imprese
ancora fortemente indebitato e sottocapitalizzato; un
tasso di irregolarità e di infortuni tra i più elevati; una struttura di grandi
imprese ridotta all’osso e con vocazione industriale pressochè
estinta.
E questo perché di quella crescita registrata nella seconda metà
degli anni ’90 solo una quota insignificante è rientrata nel ciclo produttivo
sottoforma di interventi strutturali.
Poiché la crescita nel settore segue
andamenti ciclici tradizionali l’esaurirsi della fase espansiva era più che
prevedibile ed anche per questo gli interventi di natura strutturale per
innalzare la qualità del mercato e dell’impresa erano e sono condizioni
indispensabili per dare stabilità alla ripresa e ribadire il ruolo anticiclico
del settore.
Purtroppo le scelte del Governo sono andate in tutt’altra direzione.
Innanzitutto, guardando alla telenovela delle risorse destinate a
quello che doveva essere il grande Cantiere
Italia. I dati sono
noti, parlano di una riduzione costante nei primi due esercizi finanziari del
Governo ed il quadro è ancor più grave poiché viene ad essere incrementato
ulteriormente il differenziale con gli altri Paesi Europei.
Ma il problema non riguarda solo le grandi opere strategiche,
quanto il conflitto generato con il mercato delle opere ordinarie al quale la
spugna delle grandi opere e la “presa in ostaggio” della Cassa Depositi e
Prestiti ha sottratto i finanziamenti necessari alla
realizzazione dei programmi di sviluppo locale gestiti dalle Pubbliche
Amministrazioni.
E come se non bastasse, il furore
normativo, ben lungi dal rispondere all’obiettivo di velocizzare la
realizzazione dei grandi cantieri, ha creato un conflitto tra Stato e Regioni
che può portare ad una vera paralisi del mercato, dato il clima di grande
incertezza che si è determinato tra gli operatori.
Il rischio del declino
in questo caso non è solo nei numeri del mercato che invertono
la loro tendenza fino ad assumere il segno algebrico negativo. Il declino è
ancor più nella prospettiva di una innovazione
qualitativa che viene meno in un settore che invece necessità di un forte
investimento di qualità.
Il declino è la china lungo la quale rischia di scivolare (verso il
basso) una cultura ed una civiltà del lavoro e dell’impresa che assume la
sopravvivenza quale unico orizzonte della competizione.
Dopo una parentesi positiva il fenomeno infortunistico ha ripreso a salire in
modo allarmante. Le morti nei cantieri e gli infortuni gravi sono anche la
conseguenza di un messaggio che sta passando tra le imprese, quello di una ulteriore riduzione dei costi quale unica strategia di
sopravvivenza. La delega del Governo, in questa materia, è davvero inquietante
e rischia di completare la trilogia sul lavoratore-merce
dopo la riforma del mercato del lavoro ed il decreto sull’orario.
La lotta all’irregolarità, al lavoro nero è stato un puro
fallimento, come denunciano anche le imprese e la stessa
Bossi-Fini, in un settore dove la forza lavoro manca in aree intere del
Paese ed il ricorso ai lavoratori stranieri è assolutamente necessario, non
farà altro che allargare l’area dell’evasione e dell’irregolarità.
Ma, soprattutto, il declino è nella rinuncia ad uno sviluppo di
qualità del settore che sia espressione di uno
sviluppo sostenibile del Paese. La logica della grande infrastrutturazione
come il Governo l’ha pensata e quella dei condoni sulle violenze subite dal
territorio e dall’ambiente sono facce della stessa medaglia.
In un paese in cerca di risorse per lo sviluppo si nega l’uso del
petrolio più naturale: le città da riorganizzare, gli spazi urbani da
recuperare, l’ambiente ed il territorio da tutelare, il grande
patrimonio artistico e culturale da salvaguardare e del quale promuoverne la
valorizzazione, i servizi alle persone da potenziare.
In questi
“cantieri” potrebbe esserci tanto lavoro qualificato, potrebbero crescere tante
imprese qualificate e potrebbe essere sostenuto uno sviluppo di grande qualità.
Un terreno di forte
mobilitazione delle Istituzioni e degli attori dello sviluppo.
La grande infrastrutturazione e la
politica dello sviluppo locale possono quindi essere
le facce di una medaglia di grande valore per la crescita del Paese, una
risposta forte al rischio di un declino incombente, anche là dove ancora si
lavora –come in questo settore-, ma dove si lavora senza una prospettiva di
qualità.
Questo rende assolutamente coerente per la nostra categoria il contenuto della mobilitazione decisa dalla
Confederazione e che rappresenta, almeno per adesso, terreno di importanti
convergenze con le altre organizzazioni di categoria.
Sui contratti che andranno a scadenza nel
corso dell’anno rischia di scaricarsi la rabbia e la delusione di un fronte
imprenditoriale che chiedeva e si aspettava da questo Governo aiuti che non
sono venuti e questo renderà ancor più determinato l’attacco ai diritti.
Nel settore delle costruzioni ed in particolare in edilizia, i
diritti in questione non sono solo quelli del posto di lavoro, dato che da anni vige la possibilità del licenziamento per
fine cantiere, ma anche e soprattutto quelli della tutela e della
valorizzazione professionale, quelli legati all’investimento sul capitale
umano.
Il tentativo di snaturare la funzione degli enti paritetici ne è un esempio, per portarli da strumenti di promozione e
di attuazione delle conquiste contrattuali a strumenti di gestione di una precarietà
sempre più diffusa. La formazione –ad esempio- rischia di uscire dall’orizzonte
delle politiche strutturali di sostegno al lavoro, in
un settore che al contrario ha bisogno di usarla come leva della crescita
qualitativa del lavoro e dell’impresa.
Questa è la ragione per la quale la nostra categoria partecipa
pienamente alla mobilitazione di questi giorni ed intende sostenere quella
delle categorie già direttamente coinvolte in questa battaglia e lo fa con la
forza delle proposte che offrono l’orizzonte di uno sviluppo di qualità,
l’unico orizzonte che può impedire il declino e, nei nostri cantieri, un
pericoloso ritorno al passato.