Convegno CGIL sulle politiche industriali. Roma, 11 febbraio 2003

Intervento di Franco Martini, Segretario Generale della Fillea-Cgil

 

 

Il settore delle costruzioni ha chiuso il 2002 con una crescita del 1,4% sull’anno precedente, contribuendo per l’11,9% alla formazione del PIL. Questo dato conferma la crescita registrata negli ultimi 6-7 anni e l’eccezionalità del ciclo espansivo che ha avuto agli inizi della metà degli anni ’90.

 

Anche l’andamento occupazionale conferma la positività del ciclo. Nell’ultimo biennio la crescita è stata ancora del 5,5% portando il numero degli occupati a 1.750.000 (recuperando gran parte della perdita subita negli anni della crisi), con una forte crescita del lavoro dipendente (il 10% nello stesso biennio).

 

Questa fotografia può sembrare nettamente contrastante con il declino industriale che abbiamo denunciato in queste settimane e contro il quale ci siamo mobilitati.

Ma il declino di cui parliamo non è solo nei numeri della congiuntura, non è il fotogramma di un esercizio. Il declino di cui parliamo è la somma della crisi in cui versano i principali settori produttivi, ma anche delle occasioni mancate per lo sviluppo, il declino è l’assenza di prospettive e di futuro.

 

Il questo contesto e di fronte a questo rischio il settore delle costruzioni rischia di iscriversi quale esempio di quanto l’incapacità strategica del Governo ed il ripiegamento delle imprese su politiche di basso profilo possano più delle dinamiche negative della congiuntura interna ed internazionale.

 

Il ciclo positivo che già risente di una significativa inversione di tendenza nel 2003 che potrebbe diventare stagnazione nel 2004 è stato sostanzialmente il frutto di una politica fiscale a favore di settori trainanti delle costruzioni, a partire dalle ristrutturazioni e dalla manutenzione.

Questi interventi hanno consentito di far ripartire il motore del settore dopo la crisi di Tangentopoli, ma quel processo positivo non conteneva in sé gli elementi per il necessario salto di qualità del sistema delle imprese.

 

Il settore, infatti, si è presentato agli inizi del 2000 sostanzialmente nelle stesse condizioni nelle quali era uscito dal tunnel di Tangentopoli: la più bassa dimensione d’impresa tra i paesi europei ed un sistema di imprese ancora fortemente indebitato e sottocapitalizzato; un tasso di irregolarità e di infortuni tra i più elevati; una struttura di grandi imprese ridotta all’osso e con vocazione industriale pressochè estinta.

E questo perché di quella crescita registrata nella seconda metà degli anni ’90 solo una quota insignificante è rientrata nel ciclo produttivo sottoforma di interventi strutturali.

 

Poiché la crescita nel settore segue andamenti ciclici tradizionali l’esaurirsi della fase espansiva era più che prevedibile ed anche per questo gli interventi di natura strutturale per innalzare la qualità del mercato e dell’impresa erano e sono condizioni indispensabili per dare stabilità alla ripresa e ribadire il ruolo anticiclico del settore.

 

Purtroppo le scelte del Governo sono andate in tutt’altra direzione.

 

Innanzitutto, guardando alla telenovela delle risorse destinate a quello che doveva essere il grande Cantiere Italia. I dati sono noti, parlano di una riduzione costante nei primi due esercizi finanziari del Governo ed il quadro è ancor più grave poiché viene ad essere incrementato ulteriormente il differenziale con gli altri Paesi Europei.

 

Ma il problema non riguarda solo le grandi opere strategiche, quanto il conflitto generato con il mercato delle opere ordinarie al quale la spugna delle grandi opere e la “presa in ostaggio” della Cassa Depositi e Prestiti ha sottratto i finanziamenti necessari alla realizzazione dei programmi di sviluppo locale gestiti dalle Pubbliche Amministrazioni.

 

E come se non bastasse, il furore normativo, ben lungi dal rispondere all’obiettivo di velocizzare la realizzazione dei grandi cantieri, ha creato un conflitto tra Stato e Regioni che può portare ad una vera paralisi del mercato, dato il clima di grande incertezza che si è determinato tra gli operatori.

 

Il rischio del declino in questo caso non è solo nei numeri del mercato che invertono la loro tendenza fino ad assumere il segno algebrico negativo. Il declino è ancor più nella prospettiva di una innovazione qualitativa che viene meno in un settore che invece necessità di un forte investimento di qualità.

 

Il declino è la china lungo la quale rischia di scivolare (verso il basso) una cultura ed una civiltà del lavoro e dell’impresa che assume la sopravvivenza quale unico orizzonte della competizione.

 

Dopo una parentesi positiva il fenomeno infortunistico ha ripreso a salire in modo allarmante. Le morti nei cantieri e gli infortuni gravi sono anche la conseguenza di un messaggio che sta passando tra le imprese, quello di una ulteriore riduzione dei costi quale unica strategia di sopravvivenza. La delega del Governo, in questa materia, è davvero inquietante e rischia di completare la trilogia sul lavoratore-merce dopo la riforma del mercato del lavoro ed il decreto sull’orario.

 

La lotta all’irregolarità, al lavoro nero è stato un puro fallimento, come denunciano anche le imprese e la stessa Bossi-Fini, in un settore dove la forza lavoro manca in aree intere del Paese ed il ricorso ai lavoratori stranieri è assolutamente necessario, non farà altro che allargare l’area dell’evasione e dell’irregolarità.

 

Ma, soprattutto, il declino è nella rinuncia ad uno sviluppo di qualità del settore che sia espressione di uno sviluppo sostenibile del Paese. La logica della grande infrastrutturazione come il Governo l’ha pensata e quella dei condoni sulle violenze subite dal territorio e dall’ambiente sono facce della stessa medaglia.

 

In un paese in cerca di risorse per lo sviluppo si nega l’uso del petrolio più naturale: le città da riorganizzare, gli spazi urbani da recuperare, l’ambiente ed il territorio da tutelare, il grande patrimonio artistico e culturale da salvaguardare e del quale promuoverne la valorizzazione, i servizi alle persone da potenziare.

 

In questi “cantieri” potrebbe esserci tanto lavoro qualificato, potrebbero crescere tante imprese qualificate e potrebbe essere sostenuto uno sviluppo di grande qualità.

Un terreno di forte mobilitazione delle Istituzioni e degli attori dello sviluppo.

 

La grande infrastrutturazione e la politica dello sviluppo locale possono quindi essere le facce di una medaglia di grande valore per la crescita del Paese, una risposta forte al rischio di un declino incombente, anche là dove ancora si lavora –come in questo settore-, ma dove si lavora senza una prospettiva di qualità.

 

Questo rende assolutamente coerente per la nostra categoria il contenuto della mobilitazione decisa dalla Confederazione e che rappresenta, almeno per adesso, terreno di importanti convergenze con le altre organizzazioni di categoria.

 

Sui contratti che andranno a scadenza nel corso dell’anno rischia di scaricarsi la rabbia e la delusione di un fronte imprenditoriale che chiedeva e si aspettava da questo Governo aiuti che non sono venuti e questo renderà ancor più determinato l’attacco ai diritti.

Nel settore delle costruzioni ed in particolare in edilizia, i diritti in questione non sono solo quelli del posto di lavoro, dato che da anni vige la possibilità del licenziamento per fine cantiere, ma anche e soprattutto quelli della tutela e della valorizzazione professionale, quelli legati all’investimento sul capitale umano.

 

Il tentativo di snaturare la funzione degli enti paritetici ne è un esempio, per portarli da strumenti di promozione e di attuazione delle conquiste contrattuali a strumenti di gestione di una precarietà sempre più diffusa. La formazione –ad esempio- rischia di uscire dall’orizzonte delle politiche strutturali di sostegno al lavoro, in un settore che al contrario ha bisogno di usarla come leva della crescita qualitativa del lavoro e dell’impresa.

 

Questa è la ragione per la quale la nostra categoria partecipa pienamente alla mobilitazione di questi giorni ed intende sostenere quella delle categorie già direttamente coinvolte in questa battaglia e lo fa con la forza delle proposte che offrono l’orizzonte di uno sviluppo di qualità, l’unico orizzonte che può impedire il declino e, nei nostri cantieri, un pericoloso ritorno al passato.