RELAZIONE DI  FRANCO MARTINISEGRETARIO GENERALE FILLEA NAZIONALE

CONFERENZA -CANTIERE QUALITA’ – 18/19 APRILE 2001

 

 

L’iniziativa, che teniamo in questi due giorni, rappresenta il momento centrale di un lavoro che, negli ultimi mesi, ha visto la Fillea impegnata nell’aggiornare la sua analisi e le sue proposte per lo sviluppo del settore e per la tutela dei lavoratori che in esso vi sono impiegati.

 

Come già lo è stato per il seminario nazionale di Riccione sulla contrattazione e come lo sarà per le prossime scadenze, in particolare la campagna nazionale sulla sicurezza nei luoghi di lavoro e l’assemblea organizzativa di giugno, lo sforzo che stiamo tentando di compiere è quello di meglio affinare le nostre idee, la nostra struttura, i nostri programmi di lavoro per far si che la nostra funzione, il nostro ruolo possano esercitarsi con la massima efficacia, interpretando a questo fine quelli che sono i tratti evolutivi della fase che il settore delle costruzioni sta vivendo.

 

Sappiamo per esperienza che non è sempre ugualmente semplice fare il nostro mestiere. Non lo è stato sicuramente negli anni che abbiamo alle spalle, per la grave crisi che colpì il settore nella metà degli anni ’90.

Per altrettanta esperienza sappiamo che non è sufficiente registrare un andamento positivo del ciclo economico per determinare un passaggio automatico dalle cose difficili a quelle facili.

Al contrario, la nostra convinzione è che le cose restino ancora oggi ugualmente complesse, per quanto è mille volte preferibile una complessità dai segni algebrici positivi piuttosto che negativi.

 

Questo non ci scoraggia, siamo abituati alle cose complicate e se abbiamo sempre superato con successo le prove più difficili e tormentate è perché abbiamo sempre creduto nelle potenzialità che stanno dentro la passione, la tenacia, la competenza dei nostri gruppi dirigenti e dei nostri quadri attivi. E’ stata proprio questa ricchezza a farci crescere sempre, in ognuna delle difficoltà che abbiamo incontrato nel nostro cammino. Ed oggi, di fronte alla necessità di essere nuovamente all’altezza delle sfide che la situazione del nostro settore e più in generale del Paese impongono siamo sicuri che questa prova sarà un ennesimo momento di crescita della Fillea. Ne uscirà una Fillea più forte, unita, grande e rinnovata, sarà il nostro modo di guardare e di andare al Congresso che ci attende, portando in dote alla CGIL idee e verifiche sul campo, ciò di cui abbiamo bisogno per dare un senso più utile alle discussioni che immancabilmente ci attenderanno e che rischiano di appassionarci più per i destini di ognuno di noi che per quelli di chi rappresentiamo.

 

Dato il percorso che il direttivo nazionale ha scelto di seguire è ovvio che questa iniziativa non si occuperà di tutte le problematiche politiche ed organizzative che stanno davanti a noi. In particolare, le questioni di politica organizzativa saranno oggetto della già citata Assemblea Nazionale organizzativa prevista per i giorni 11-12 giugno in Sardegna.

 

Il lavoro, la nostra chiave di lettura…..

Abbiamo scelto di affrontare in questi due giorni il tema del lavoro in edilizia, sapendo che il lavoro è per questo settore la principale chiave di lettura dei processi in atto. Abbiamo scelto di farlo costruendo all’interno della Conferenza un momento di confronto specifico con le Associazioni delle imprese poiché è nostra convinzione che parlare di lavoro in edilizia ha poco senso se non si parla anche dell’impresa, di cui il lavoro resta il fattore principale.

 

Abbiamo scelto due parole per il titolo di questa iniziativa, due parole che vogliono dire molto: il cantiere qualità. Il cantiere, perché resta il luogo simbolo del lavoro in edilizia (anche se il  nostro è un settore dove la diversificazione è cresciuta negli anni in modo diffuso) e la qualità perché non vi è altra via per vincere le sfide della competizione, una competizione che farà giustizia di ogni vecchia ricetta.

Il cantiere qualità è anche il nostro cantiere sindacale. Un cantiere di iniziative con il quale ci impegniamo a dare continuità al lavoro svolto positivamente in tutti questi anni dalla Fillea, unitamente a Filca e Feneal.

 

Ma perché abbiamo pensato di aprire questo cantiere?

 

La situazione generale del settore ormai da alcuni anni si è stabilizzata su dati positivi. Essi sono il frutto di una situazione generale dell’economia che ha risentito positivamente della ripresa della domanda mondiale, degli effetti dell’azione di risanamento dell’economia nazionale intrapresa con successo da anni e del sostegno che il settore ha beneficiato sul versante fiscale per consentirne una ripresa dopo gli anni di crisi forte.

 

Un settore in crescita……

Questa ripresa può essere sintetizzata in pochi dati significativi.

L’indice di crescita del mercato delle costruzioni ha continuato a salire dal ’98 (+2,8%), raggiungendo la punta del 5,5% nel 2000 (5,6% investimenti – 5,1% manutenzione ordinaria). Per l’anno in corso e per quello successivo le previsioni segnano ancora un dato positivo, pur all’interno di una inversione di tendenza (rispettivamente del 2,9% e 1,1%).

 

A questa crescita hanno concorso tutti i settori, dalle infrastrutture pubbliche all’edilizia privata, dai materiali da costruzione alla manutenzione e servizi. Ed è stata una crescita che ha riguardato tutto il Paese, dal Nord al Sud, pur con le differenze che riflettono le peculiarità territoriali.

 

Anche l’occupazione ha seguito questo andamento. I dati resi noti dall’Istat a gennaio del 2001 ci parlano di altri 86mila nuovi posti di lavoro costruiti nel 2000, che portano gli occupati nel settore allargato a quota 1.659.000 (gennaio 2001) con una crescita secca del 5,5% rispetto all’anno precedente.

E’ un dato importante perché si avvicina molto a quello del 1993 (1.727.000) anno in cui il settore cominciò a registrare una caduta inesorabile fino a sfiorare il milione e mezzo di occupati agli inizi del ’97. Si tratta, quindi, del dato più alto raggiunto negli ultimi sette anni al quale hanno concorso tutte le aree del Paese, quelle del Sud, dove l’occupazione cresce del 8,2% (addirittura del 23,5% in Calabria) del Centro (9,1%) e del Nord-Est (6,1%).

 

Questi dati sono stati salutati e commentati da tutti gli operatori del settore con moderato entusiasmo ed altrettanto ottimismo per il futuro, ribadendo l’importanza del settore nell’economia del Paese ed è stato giusto così, perché questi dati sono indubbiamente espressione di forti potenzialità presenti nel mercato delle costruzioni.

 

In questo coro ci siamo un po’ smarcati come sindacato e come Fillea non per fare i bastian contrari quanto per rafforzare il concetto a noi caro da molti mesi ormai secondo il quale questa situazione deve rappresentare una opportunità eccezionale per far compiere al settore quel necessario salto di qualità, indispensabile per essere competitivo negli anni futuri.

 

E se abbiamo detto questo è per la semplice ed altrettanto evidente ragione che ancora così non è e dal tono di alcuni commenti rischia di non esserlo neanche in futuro se non si scelgono le strade giuste per tradurre questa crescita in nuova forza economica e produttiva.

 

Non è per spirito polemico ma per la semplice osservazione della realtà che non sfugge, peraltro, neanche ai nostri interlocutori, che spesso la riconoscono, con molta obiettività, nelle occasioni di confronto che in questi mesi si sono avute.

 

Partiamo da quello che ci è più caro, il lavoro, ciò che vogliamo rappresentare.

L’occupazione è cresciuta, è cresciuta ancora, ma che lavoro è?

 

L’altra faccia: la destrutturazione continua….

E’ un lavoro che cresce ma in un mercato del lavoro dove diminuiscono i fattori di strutturalità a vantaggio della precarietà e della temporaneità. E’ un lavoro caratterizzato ancora da una quota consistente di sommerso e di nero (oltre al grigio), dove il fenomeno degli infortuni resta altissimo rispetto agli altri settori industriali e non. E’ un lavoro dove la componente di immigrazione cresce prevalentemente al di fuori di un sistema di tutele e di garanzie. E’ un lavoro scarsamente appetibile per i giovani i quali in modo massiccio entrano nelle imprese, ma in quote altrettanto consistenti fuggono.

 

E se questo è il lavoro che cresce in edilizia non è frutto del caso, di una condanna del destino. Il lavoro è lo specchio dell’impresa in questo settore più che in ogni altro. Con questo tipo di impresa, con questa particolare caratteristica che ha la struttura produttiva in edilizia non può esserci altro lavoro in termini qualitativi che questo.

 

Anche qui qualche dato per avere la piena consapevolezza di cosa stiamo parlando.

E’ sufficiente ribadire quelli presi a riferimento in occasione della Conferenza Nazionale dei Lavori pubblici. Il numero medio di addetti per impresa risulta pari a 3,1 contro i 4,2 rilevati per l’Unione Europea.

 

Distribuite per classi dimensionali anche la quota occupazionale si concentra nella classe con 1-9 addetti con il 65% contro il 45,6% nell’Unione Europea.. In Italia solo il 10% delle realtà imprenditoriali si trova sopra la soglia dei 50 addetti a fronte del 26% della media europea.

 

Sotto l’aspetto della forma giuridica il 64% delle imprese di costruzioni ha forma di impresa individuale. Circa il 70% è costituito da realtà artigiane ove trovano lavoro circa la metà degli addetti.

 

L’ambito di attività è noto, prevalentemente entro i confini comunali per il 97%.

 

Se questi dati fotografavano la realtà di qualche anno fa (1996-1998) non si registrano sostanziali novità alla luce di quanto accaduto negli anni più recenti. In particolare, proprio nelle realtà interessate da andamenti produttivi sostenuti, vedi il Veneto o alcune aree della Lombardia come quella bergamasca o lo stesso Lazio, soprattutto nelle zone interessate ai lavori del Giubileo, la destrutturazione del sistema di imprese né si è arrestata né ha conosciuto una sostanziale inversione di tendenza, destinando a questo obiettivo le opportunità offerte dal ciclo produttivo favorevole. Lo stesso mercato delle opere pubbliche dal quale avrebbe potuto venire un impulso significativo a combattere il nanismo delle imprese non si è rilevato altrettanto efficace, dato il ricorso consistente che anche in questo settore si è fatto del subappalto.

 

La ripresa, occasione mancata?

Qui sta il primo motivo per il quale non ci va di associarci al coro di ottimismo. Lo abbiamo detto in altre occasioni e qui lo ripetiamo: questa è una ripresa che rischia di non lasciare traccia di sé ed il pericolo della occasione mancata è quello che potremmo correre di fronte ad un andamento ciclico che potrebbe esaurire, gradualmente, i suoi effetti positivi, lasciando a nudo tutte le debolezze strutturali di un sistema di imprese, che ad oggi, non appare certo in grado di vincere la sfida competitiva.

E potrebbe essere una occasione mancata anche per il superamento degli squilibri che gravano tra le aree territoriali. Se è vero che a questa ripresa ha contribuito anche il Mezzogiorno non è però vero che tutte le aree del Sud stanno vivendo gli stessi andamenti di crescita. Il Mezzogiorno resta, al contrario, una realtà dove convivono punti di eccellenza e situazioni drammatiche nelle quali alti tassi di disoccupazione, lavoro nero ed illegale, presenze malavitose, carenza di un sistema di imprese organizzate continuano a negare prospettive di sviluppo sempre più urgenti per rendere credibile la stessa capacità competitiva del Paese e l’iniziativa nel Mezzogiorno deve restare per noi un punto prioritario dell'’niziativa.

 

Questa è un’impresa quindi –lo diciamo senza spirito polemico- che in queste condizioni non andrà da nessuna parte, rendendo assolutamente effimeri i risultati, anche occupazionali, raggiunti in questi anni. Ed è contro questa prospettiva che noi vogliamo batterci, anche qui non con le polemiche ma con gli argomenti e le iniziative che poniamo al centro di questa iniziativa e che vogliamo sostenere unitariamente con Filca e Feneal.

 

La prima cosa da fare è respingere l’idea che questo sia un settore destinato a vivere entro condizioni di precarietà, incapace di tirar fuori risorse proprie per avviare un nuovo processo di industrializzazione.

Sicuramente sul settore delle costruzioni pesa la storia del suo sviluppo, il modo come si è passati dagli anni della ricostruzione allo sviluppo delle città e al forte inurbamento del territorio, con l’intreccio sempre crescente tra politica-affari-illegalità. Pesano i terribili anni ’90 con la falcidia di un numero considerevole di imprese e una loro successiva nuova gemmazione frutto della scomposizione spesso estrema di parte di quelle rimaste.

 

Ma questo non è un settore necessariamente ostaggio della sua storia. Se le cose continuano ad andare così è perché si continua a scegliere questa strada, è perché la si considera al punto in cui siamo quella più facile da perseguire, quella che offre vantaggi più immediati. Ma se alziamo lo sguardo all’Europa e al mondo tutti sappiamo che questa è la strada della pura e semplice sopravvivenza, non di un futuro certo per le imprese e per i lavoratori.

Questa è la strada della rinuncia ad investire tutte le risorse materiali ed immateriali per ridefinire un nuovo profilo industriale e professionale ad un settore che può rappresentare un punto di riferimento stabile nella crescita generale dell’economia.

 

Sappiamo che la sfida oggi, per tutte le economie, è quella della competizione globale e che per vincere questa sfida bisogna essere competitivi con le altre economie. Non è un caso che le azioni per rendere competitivo il nostro sistema produttivo sono oggetto, nel nostro Paese, di un confronto serrato, che segue quello lungo ed impegnativo che in tutti questi anni ci ha consentito di vincere la prima sfida, quella del risanamento.

 

Parma, un manifesto a senso unico……

In questo quadro, abbiamo seguito con interesse le proposte che la maggiore delle Associazioni di Imprese ha avanzato nel suo convegno di Parma e abbiamo cercato di immaginarle calate nel nostro settore.

Se ci è consentita una sintesi estrema, volutamente spinta all’eccesso di schematizzazione ma consapevoli di non intaccare l’impianto filosofico della proposta la Confindustria individua la propria ricetta o meglio le coordinate strategiche delle azioni proposte nella equazione minori costi, maggiori flessibilità, minori regole.

 

L’aspetto incredibile di tale ricetta non è nelle proposte in sé, che per la verità non destano molte sorprese, quanto nella straordinaria omissione di responsabilità che le imprese avrebbero (o meglio non avrebbero) avuto nel determinare la scarsa competitività del sistema.

Come dire, se l’impresa in Italia non è competitiva è per ragioni tutte esterne all’impresa stessa o che non sono dipese dall’impresa o –meglio dire- dall’imprenditore in quanto tale.

 

Da qui il passo è brevissimo per concepire le azioni per la competitività come qualcosa che si chiede di fare solo o prevalentemente agli altri, in questo caso Stato e sindacati.

 

Non sappiamo fino a che punto gli imprenditori del nostro settore condividano questa impostazione, abbiamo fondati sospetti che una parte almeno si riconosca in quelle ricette. Ricette che non ci preoccupano solo per il senso unico delle azioni proposte, quanto e soprattutto per il merito. In particolare in edilizia ridurre la questione della competitività al problema dei costi e della flessibilità significherebbe togliere ogni credibilità ad un interlocutore realmente intenzionato ad affrontare il problema del consolidamento della ripresa e della qualificazione del settore.

 

Partiamo dai costi.

E’ noto come nessuno osi sostenere che il costo dei salari in edilizia sia superiore agli altri settori mentre invece si denuncia l’eccessivo carico contributivo che renderebbe il costo del lavoro nel settore superiore alla media.

 

Premesso che questa valutazione non può avvenire al netto dei contributi di cui il settore ha goduto sul piano fiscale in questi anni, né delle ragioni che hanno portato negli anni a costruire un sistema paritetico finalizzato alla erogazione di prestazioni per i lavoratori e per le imprese (che tuttavia registra un unico punto di differenza rispetto agli altri settori dell’industria, cioè il contributo del 5,20% per la CIGO, ma alla quale le imprese fanno ricorso anche in caso di maltempo), resta il fatto che sulla struttura dei costi pesa innanzitutto la caratteristica di una impresa fortemente sottocapitalizzata e in parte indebitata in seguito alla crisi degli anni passati.

 

Ma questa debolezza economica dell’impresa è un fatto strutturale al quale la leva fiscale che si invoca e la stessa riforma del costo del lavoro solo in parte potrebbero porre rimedio. Oltretutto la riforma del costo del lavoro presuppone affidare alla fiscalità generale alcune funzioni che le imprese sostengono oggi di svolgere impropriamente. Diventa allora difficile pretendere lo sgravio di oneri impropri sull’impresa ed al tempo stesso una riduzione generalizzata ed indiscriminata della pressione fiscale, come ad esempio quella che si è sostenuta con la richiesta di riduzione dell’Irpeg.

 

E’ strano come non si affermi che la via maestra per una competitività da riduzione dei costi in aziende sottocapitalizzate derivi innanzitutto da un forte investimento per incrementare il valore aggiunto dell’impresa stessa, quindi, attraverso la via maestra della innovazione, della ricerca, della formazione. Questa –purtroppo- resta sempre una variabile indipendente, il frutto di una stagione che non arriva mai. Lo sviluppo dei piani di impresa per consolidare sul piano industriale l’apparato produttivo e vincere anche così la debolezza endemica delle imprese di costruzione italiane non è mai oggetto di confronto. Quindi, è come curare il paziente con il salasso al posto di una bella terapia d’urto che aggredisca le cause del male.

 

Ma cosa dire della flessibilità. Proviamo ad immaginare sul campo la tesi che le imprese di costruzione non sarebbero competitive per scarsa flessibilità, per eccesso di rigidità del fattore lavoro.

 

Di quale flessibilità si parla….?

Qui è il pudore che ci trattiene, e ci limita a ricordare cosa offre il campionario delle flessibilità già operanti nel mercato del lavoro. Parliamo della flessibilità che c’è già, quella consentita dalle leggi del Parlamento e dalla contrattazione sindacale. Se escludiamo il lavoro a tempo indeterminato e a orario pieno, quello che potremmo definire per comodità di ragionamento lavoro tipico, esistono ben 10 tipologie di contratti di accesso cosiddetti flessibili, 5 nel lavoro dipendente, contratto di lavoro temporaneo (interinale), a tempo parziale, a termine (compresi gli stagionali), di apprendistato, di formazione e lavoro, e 5 nel lavoro non dipendente, soci-lavoratori di cooperative, contratti di collaborazione coordinata e continuativa, contratti di collaborazione occasionale, professioni non regolamentate, associazione in partecipazione. A queste tipologie sono peraltro riconducibili contratti di tipo “parasubordinato” come il contratto d’opera, o il contratto d’agenzia.

 

E’ un campionario molto ricco, al quale, peraltro, le imprese fanno già ampiamente ricorso come dimostrano i dati sugli andamenti del mercato del lavoro e che vanno a sostituire gradualmente forza lavoro e funzioni strutturate dentro l’impresa.

Occorre veramente molta fantasia per immaginare quale altra flessibilità necessiti e poiché, giunti a questo punto del ragionamento, si parla della flessibilità in uscita, per porre il problema del superamento dell’articolo 18 della legge 300, ossia la libertà dell’impresa di licenziare senza giusta causa, non voglio stare a dire qui che il problema è francamente incomprensibile dato il pronunciamento già avvenuto nella consultazione referendaria che ha respinto questo tentativo.

 

Il problema è incomprensibile e lo è ancor di più qualora si intendesse sostenere che la scarsa flessibilità in uscita nel settore dell’edilizia è un impedimento alla crescita e allo sviluppo delle imprese di costruzione: Non solo perché è nota l’esistenza della norma che rende possibile il licenziamento per fine cantiere o, addirittura, per fine fase lavorativa, quanto per il fatto che le imprese del settore che si collocano sotto la soglia dell’art.18 e che quindi sono escluse da quel vincolo, sono bel il 90% e rappresentano il 65% dei dipendenti.

Quasi l’intero universo delle imprese del settore è –dunque- fuori dal regime dell’articolo 18. Ecco perché se vogliamo stare al merito delle questioni risulta incomprensibile l’enfasi che si attribuisce a questo aspetto assolutamente irrilevante nella conformazione delle imprese del settore. Mentre invece desta grande preoccupazione e –conseguentemente- grande avversione da parte nostra il fatto che dietro l’insistenza con la quale si pone il problema della flessibilità si nasconde la fuga dalle scelte strategiche di cui necessita l'impresa.

 

Non siamo noi a dirlo ma il responsabile del Centro Studi della Confindustria, GianPaolo Galli: la flessibilità è un disincentivo agli investimenti a lungo termine, soprattutto nelle aziende di minori dimensioni. Ed in effetti non può che essere così poiché non c’è relazione coerente tra scelte ispirate alla temporaneità e precarietà della prestazione e quelle ispirate alla strutturalità degli interventi.

 

C’è poi il problema delle regole.

 

Di quelle del mercato delle costruzioni abbiamo a lungo discusso in occasione della Conferenza Nazionale dei Lavori Pubblici. Non è questa la sede per riproporre quel dibattito. Sicuramente la Conferenza ha contribuito ad evidenziare i limiti della nuova normativa sui lavori pubblici. Noi che l’abbiamo voluta, sostenuta e difesa non abbiamo difficoltà a sostenere che in alcune sue parti deve essere migliorata. Ma questo è altro discorso da quello di chi pensa che il futuro dei lavori pubblici ed in parte del mercato privato debba essere liberato il più possibile dai vincoli della norma, strumentalizzando a questo fine la necessità di velocizzare la realizzazione delle opere di interesse pubblico.

Il problema dei tempi è un problema che esiste, che va affrontato riformando i processi decisionali che necessitano del coinvolgimento di tutti i soggetti interessati al governo del territorio, ma al quale abbiamo già cominciato a dare alcune risposte anche sindacali, come nei cantieri tosco-emiliani dell’alta velocità.

 

La realtà è che la norma, non a caso, ha subito una pesante offensiva proprio sul versante del processo di certificazione della qualità delle imprese.

Può anche darsi che il sistema delle SOA debba essere meglio adeguato alla realtà del settore, ma è difficile vincere il sospetto che dietro alla voglia di autocertificarsi già presente in diverse realtà associative vi sia la volontà da parte di un settore ampio delle imprese di ripristinare il vecchio sistema, che tutto ha fatto fuorchè garantire della qualità delle stesse.

 

L’impresa chiede, in cambio di che cosa?

Come si può ben cogliere dagli esempi sintetici, c’è una logica inequivocabile nella competizione da ricercare attraverso la riduzione dei costi, è la logica di chi individua esclusivamente fuori di sé le cause delle debolezze, che chiede agli altri di mettere a disposizione nuove risorse e maggiori libertà per l’impresa in cambio di un atto di fiducia verso i meccanismi regolatori del mercato e verso la assunzione unilaterale di responsabilità da parte dell’impresa sulle scelte organizzative del processo di lavoro.

 

Ma non è la nostra opinione e non per un approccio ideologico al problema.

 

Intanto, non è la nostra analisi. Se l’industria italiana è in queste condizioni, se il settore delle costruzioni è così destrutturato è perché una parte consistente dell’impresa italiana, anche di costruzione, ha rinunciato in tutti questi anni a scommettere su un nuovo processo di industrializzazione del settore, intendendo per industrializzazione non necessariamente la rinascita dei colossi industriali, ma un sistema di imprese più moderno ed innovativo.

 

E’ certamente vero che la crisi degli anni ’90 ha colpito pesantemente una grossa fetta delle imprese di costruzione. Ma è altrettanto vero che in pochissimi casi la ricchezza prodotta in questi anni di ripresa è tornata all’interno del ciclo produttivo sotto forma di qualità dei processi e delle strutture.

 

In secondo luogo, perché crediamo nell’esistenza di un’altra via per rilanciare l’impresa e dare stabilità alla ripresa e al settore, una via che smentisce l’idea di un sindacato arroccato nella difesa dell'esistente, come spesso viene dipinta la nostra Confederazione.

 

Il cantiere qualità è la nostra risposta, coerente con le indicazioni dell’Assemblea Nazionale dei Quadri della CGIL, per indicare una via diversa che può essere percorsa da tutti i soggetti che credono nella forza competitiva di una moderna cultura industriale.

 

Il cantiere qualità è la nostra scelta di tradurre le sfide della competizione in moderna cultura industriale e per noi una moderna cultura industriale è quella che considera fattori dello sviluppo tanto la dignità del lavoro quanto la funzione sociale dell’impresa, concetti di cui non abbiamo trovato molte tracce nelle analisi e nelle proposte di cui parlavamo.

 

Il cantiere qualità è dunque un terreno di confronto e di iniziative specifiche che proponiamo ai nostri interlocutori, per segnare attraverso obiettivi da raggiungere un percorso di qualificazione del settore.

 

Il cantiere dello sviluppo sostenibile…..

Del resto non esiste un’altra strada che possa rispondere con altrettanta efficacia e forza all’obiettivo di consolidare la ripresa e dare stabilità e maggiore incidenza nell’economia nazionale al settore delle costruzioni.

Il mercato delle costruzioni del domani sempre più dovrà essere un mercato in grado di rappresentare la qualità dei processi legati alla difesa e alla valorizzazione del territorio.

 

Certo, dovremo continuare a costruire.

La politica infrastrutturale dovrà essere una leva importante ed ancora trainante, anche in relazione alla necessità di superare il deficit strutturale che pesa negativamente sulla forza competitiva del Paese e delle imprese e sarebbe veramente utile –a questo proposito- fare il punto in modo serio e senza demagogia sullo stato dell’arte relativamente alla realizzazione delle principali opere connesse al sistema della mobilità territoriale, dei servizi, della infrastrutturazione a rete.

 

E qui si pone già un interrogativo scontato e cioè con quali imprese di costruzioni saremo in grado di realizzare un piano qualificato di opere infrastrutturali?

 

Anche il mercato dell’edilizia privata dovrà misurarsi con bisogni crescenti, bisogni innanzitutto sociali, penso al crescere della popolazione anziana, ma soprattutto alla presenza sempre più massiccia di comunità di immigrati.

 

Ma già qui ed a partire da qui il mercato delle costruzioni dovrà sempre più essere un mercato in grado di ricostruire, recuperare, riorganizzare, restaurare, cioè un settore in grado di valorizzare il patrimonio abitativo, il patrimonio urbano, territoriale, ambientale, la ricchezza di un Paese fortemente antropizzato, capace di accettare la sfida della riorganizzazione delle città e del territorio, in grado di fare del proprio patrimonio culturale ed artistico quel valore aggiunto universalmente invidiato, ma sconsideratamente, spesso, sottovalutato.

 

Venti giorni fa abbiamo promosso a Spoleto con le strutture territoriali e regionali di categoria e della CGIL un convegno sul restauro, partendo dal laboratorio del restauro che è la città di Spoleto.

Nella sua relazione GianPaolo Mati esprimeva il concetto del fare industria in un settore come il restauro, organizzando e favorendo l’incontro ed estendendone le opportunità, per ricavarne reddito spendibile e reinvestibile in imprese, lavoro, restauro, manutenzione, ricerca.

Ebbene, per noi questa non è poesia ma un esempio di quanto una cosa che esiste e che deve essere valorizzata può a sua volta produrre nuova ricchezza, dentro un circuito virtuoso dal quale lo stesso sistema delle imprese ed il lavoro impiegato può crescere nella qualità.

 

Potrà apparire un esempio di piccole dimensioni, anche se per noi non lo è. Ma proviamo ad applicare questo concetto alla riorganizzazione delle città, al riassetto idrogeologico del territorio, alla produzione di servizi, per fare qualche altro esempio e chiediamoci se non si tratta di qualcosa che va oltre qualche episodica opportunità di lavoro o se il tutto non sia riconducibile ad una vera e propria strategia, che noi definiamo dello sviluppo sostenibile, che le imprese possono assumere come un orizzonte per la crescita di nuova specializzazione, nuova qualità, nuove funzioni.

 

Anche questo e innanzitutto questo è il nostro cantiere qualità un cantiere nel quale la qualità dei processi è ciò che restituisce dignità al lavoro ed esalta la funzione sociale dell’impresa, un cantiere nel quale crescita e diritti sono le facce di una stessa medaglia.

 

E se abbiamo scelto di lanciare questo terreno parlando del  lavoro in edilizia è perché, come già detto, il lavoro è lo specchio della qualità del settore, il lavoro è l’incrocio della maggior parte delle politiche d’impresa, è la risultante delle scelte fatte dall’impresa.

Il capitale umano è, inoltre, una delle principali risorse di cui dispone l’impresa di costruzione, un capitale che va investito e sul quale occorre investire per renderlo sempre ricco ed in grado di accrescere il valore aggiunto dell’impresa.

 

Contro il lavoro nero……

Poiché parliamo del lavoro non possiamo non partire dal bisogno di grande trasparenza del mercato del lavoro in edilizia. E parlare della trasparenza del MdL in edilizia significa parlare del grave fenomeno del lavoro nero ed irregolare.

Sappiamo tutti di cosa stiamo parlando. Di un fenomeno che –secondo i dati resi noti dall’INPS- interessa 3 aziende su 4 del totale industria e artigianato per quanto riguarda le posizioni irregolari e quasi l’8% di aziende in nero. Ovviamente ci riferiamo a dati noti, parlando tuttavia di un fenomeno che per sua natura sfugge al controllo, quindi, più consistente rispetto alla fotografia ufficiale.

 

Abbiamo apprezzato l’insistente attenzione che in questi mesi è venuta dalle Associazioni Imprenditoriali nei confronti della lotta al lavoro nero. Per quanto ci riguarda il lavoro nero prima ancora di essere causa di concorrenza sleale tra imprese e quindi fattore di inquinamento del mercato è una lesione dei diritti e della dignità dei lavoratori è una condizione di ricatto intollerabile e contraria ad una moderna cultura industriale e del lavoro.

 

L’immagine del gruppo di lavoratori, sempre più spesso immigrati dell’Est o ancora africani, che attendono il pulmino inviato dal caporale, tanto nelle albe metropolitane quanto in quelle di provincia, sia nel profondo ed arretrato sud, che nel ricco ed evoluto Nord-Est, è una immagine che ci richiama ad una cultura del lavoro inaccettabile, ad una carta dei diritti violata, ad una modernità che sa di antico e questo pensiero prima ancora di essere di tipo morale è etico e politico, perché configura una idea di società che non ci appartiene e che vogliamo combattere.

 

La nave dei bambini schiavi può sembrare un’immagine lontana da noi, ma quando qualche anno fa la CGIL si è fatta portatrice di una campagna contro lo sfruttamento dei minori sul lavoro siamo stati tacciati di strabismo, salvo scoprire successivamente che vi sono almeno 300mila minorenni sfruttati nel nostro Paese. Quella nave, anche fosse una nave fantasma, in un certo senso è un fantasma che si aggira, il simbolo estremo di una vulnerabilità che tutte le nostre società moderne hanno di fronte alla rottura del vincolo crescita-diritti.

 

E’ bene precisarlo poiché ci sono due modi per avvicinare gli estremi di un mercato del lavoro dualista, allineandoli al punto più alto o abbassando la soglia di quello ufficiale.

Infatti, il problema non è tanto e solamente quello di annullare gli svantaggi dell’impresa legale verso quella sommersa, ma di debellare il fenomeno del sommerso, in quanto civilmente inaccettabile.

 

Non è un processo alle intenzioni ma la preoccupazione che le difficoltà oggettivamente esistenti nell’adattare al nostro settore gli strumenti di lotta all’emersione adottate in altri settori, vedi i contratti di riallineamento, possa portare a ritenere che per sua natura il mercato del lavoro in edilizia, per essere più appetibile nella sua versione ufficiale o legale debba essere un po’ più libero e meno strutturato.

 

Se così non è si tratta di insistere con più determinazione lungo le strade che già abbiamo intrapreso per allargare l’area della regolarità esistente.

 

Sappiamo che l’arma repressiva da sola non è sufficiente per vincere questa battaglia, tant’è che va usata dentro un piano che aiuti le imprese ad uscire dal sommerso. Si tratta naturalmente di non dare un segnale mal interpretabile. Le funzioni di controllo e di repressione non debbono abbassare la guardia. E’ utile ricordare che esiste un nesso stretto, peraltro, tra sommerso e infortuni.

Ma, giustamente, occorre altro, ed altro ci può essere.

 

La costruzione di una rete tra Inps, Inail, Casse Edili per la definizione –attraverso l’incrocio dei dati- di strumenti omogenei di semplificazione e di controllo (DURC, Documento Unico di Regolarità Contributiva) è un passo importante in questa direzione.  Anche in questo caso non siamo riusciti a dare prova di tempestività rispetto alla necessità di attivare in tempi non biblici queste esperienze, che per fortuna cominciano ad estendersi sul territorio (di recente è stato siglato l’accordo a Milano). E quando una cosa palesemente utile incontra mille difficoltà per essere realizzata viene spontaneo il sospetto che a parole siamo sempre tutti d’accordo, poi nei fatti c’è sempre il timore di mettere in discussione chissà quali equilibri.

 

Oltre alla rete e gli strumenti che si possono costruire tra Inps, Inail e Casse Edili potrebbe essere sperimentata la realizzazione di protocolli d’intesa tra parti sociali ed istituzioni, sicuramente per il mercato delle opere pubbliche, ma anche per quello privato, che definiscano una sorta di patti di legalità, quali terreni di selezione delle imprese. La normativa sugli appalti pubblici già definisce l’obbligo di iscrizione e di versamento alle casse edili per le imprese che gestiscono l’appalto, anche se la logica del subappalto ed il successivo aggiramento della norma che lo regola attraverso altre tipologie di contratti (di servizio, di messa in opera, ecc..) tendono a riproporre un terreno di evasione dalle regole. E qui, francamente, non riusciamo a capire come fanno a stare insieme la vocazione alla lotta contro il sommerso e la richiesta del superamento della responsabilità in solido delle aziende prevista dalla L.1369 sul subappalto, di cui si chiede il superamento.

 

Resta –indubbiamente- il problema di come la leva fiscale possa aiutare le imprese del settore ad emergere, data l’oggettiva difficoltà a praticare in edilizia l’esperienza dei contratti di riallineamento.

Non può essere l’Irpeg, per le ragioni che la stessa Confederazione ha spiegato in questi mesi.

Non possono essere neanche provvedimenti fiscali indiscriminati, tanto meno provvedimenti che determinino la sospensione di diritti dei lavoratori ed è sempre bene ricordare che una parte dei diritti di cui godono i lavoratori di questo settore sono tutelati dal regime contributivo esistente (CIGO).

 

Tuttavia, restiamo disponibili a confrontarci nelle prossime settimane su proposte ispirate realmente a selezionare le imprese che scelgono di intraprendere la via della regolarizzazione.

 

L’assillo quotidiano della sicurezza…..

La lotta al lavoro nero è per noi una condizione decisiva per combattere gli infortuni sul lavoro, poiché è del tutto evidente che il sommerso è per definizione, per sua natura antitetico alla cultura della sicurezza e della prevenzione.

 

I recenti dati resi noti dall’Inail sembrano registrare una inversione di tendenza circa l’andamento degli infortuni nel settore delle costruzioni. Sono dati che dovremo meglio analizzare per capire in che misura ciò potrebbe confermare un allargamento, con la crescita produttiva registrata in questi anni, dell’area del sommerso che notoriamente non denuncia gli infortuni.

 

Tuttavia, ed almeno su questo siamo tutti d’accordo, una inversione di tendenza non potrebbe che rafforzare ulteriormente la nostra iniziativa per intervenire su un fenomeno che resta ad altissimi livelli. Anche in questo il nostro settore si distingue dalla media europea ed è un record al quale non teniamo affatto.

 

Per dare un ennesimo segnale della nostra volontà a considerare questo problema l’assillo quotidiano della nostra organizzazione abbiamo proposto a Filca e Feneal di programmare una campagna nazionale straordinaria sul tema della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro che dovrebbe svolgersi, secondo la nostra proposta, nel mese di giugno.

 

Qui veramente non dobbiamo inventarci le piattaforme. Valgono per tutti noi le indicazioni e gli obiettivi scaturiti dalla riunione nazionale unitaria sulla sicurezza in edilizia svolta a Roma il 14 marzo dei quest’anno. Vorrei prendere solo un dato della relazione che in quella sede ha svolto Mara Nardini: dal monitoraggio effettuato dalla Commissione Nazionale Paritetica sulla sicurezza emerge che nel 26% dei bandi di gara nei lavori pubblici manca totalmente l’indicazione dei costi della sicurezza e nel restante 74%, che contiene indicazione dei costi, il fattore qualitativo è allarmante, perché difetta quasi del tutto di coerenza con il valore dell’opera e con la tipologia del lavoro.

 

Questo semplice dato ci spiega che non è sufficiente avere delle buone leggi sulla sicurezza, compresi gli spazi che ci siamo conquistati dentro il corpo normativo che regola gli appalti pubblici.

 

Da qui ne discende che la nostra iniziativa deve dispiegarsi lungo tre direzioni importanti:

 

completare e rafforzare l’esercito dei rappresentanti alla sicurezza, compresi quelli territoriali (RLST), ai quali vanno forniti tutti i mezzi, gli strumenti conoscitivi, le risorse indispensabili per svolgere in piena autonomia le funzioni che la legge assegna loro;

L’investimento in termini formativi verso i delegati alla sicurezza e la conquista della più ampia agibilità nei luoghi di lavoro e sul territorio è un obiettivo al quale deve essere destinato il massimo sforzo delle nostre strutture.

 

Introdurre nella contrattazione di secondo livello obiettivi di modifica delle condizioni di lavoro nei cantieri e in tutti i luoghi di lavoro.

La Fillea è e resterà contraria ad ogni forma di monetizzazione del rischio. Dico questo con la massima forza nei giorni della polemica che ha seguito la firma dell’integrativo Italcementi. Chi ha condotto e ha partecipato a quella trattativa sa quanto difficile sia stato respingere la pretesa dell’azienda di imporre il vincolo tra salario e sicurezza e noi, con Filca e Feneal, ci siamo opposti con tenacia, lasciando aperto un terreno, certo delicato e complesso –come lo sono tante soluzioni contrattuali-  sul quale però potremo veramente tentare di essere coerenti con quello che andiamo spesso affermando, cioè, la necessità di uno spostamento della redditività d’impresa, cioè della ricchezza prodotta ad interventi di miglioramento degli ambienti e delle condizioni di lavoro.

 

Portare la sicurezza nella contrattazione territoriale, perché come non ci stancheremo mai di ripetere questa è una battaglia che può avere successo se la conduciamo prima che si aprano i cantieri ed almeno per quelli che dipendono dalle stazioni appaltanti pubbliche c’è uno spazio importante che la nostra iniziativa può occupare ai tavoli territoriali della programmazione negoziata nel rapporto con le istituzioni e gli organi preposti alla prevenzione ed ai controlli.

 

La campagna nazionale sulla sicurezza vuole essere un momento per diffondere la cultura della sicurezza nel Paese, oltrechè per sostenere i nostri obiettivi.

Ed è importante che si sia verificata la coincidenza con la decisione delle Confederazioni Nazionali di caratterizzare il 1° Maggio di quest’anno proprio sul tema della sicurezza sul lavoro. Questo consentirà alla nostra categoria di dare un contributo non episodico alla importante scelta fatta dai sindacati unitariamente.

 

Sappiamo che si tratta di un problema che ha anche radici in una cattiva cultura del lavoro che si è consolidata negli anni, nel fatto che la dignità del lavoro, l’integrità fisica e morale dei lavoratori non sono considerati il fine del progresso economico e sociale ma spesso il prezzo da pagare.

Per questa ragione tra le innumerevoli ed originali iniziative che dovranno caratterizzare la campagna nazionale un posto importante dovrà avere il rapporto con il sistema di istruzione, per contribuire a seminare tra i giovani i germi di una cultura diversa del lavoro e del produrre.

 

Ed è anche questa la ragione che ci porta a ritenere il governo del mercato del lavoro il principale investimento per il futuro del settore.

 

Il capitale umano dell’impresa…..

Parlando di lavoro nero e di infortuni –infatti- ci siamo riferiti agli aspetti evidentemente più negativi del lavoro in edilizia, quelli che ne rappresentano il volto più selvaggio. Ma quello che ci porta a combattere questi fenomeni è anche la convinzione radicata in noi che il lavoro, il capitale umano rappresenta la prima risorsa dell’impresa edile ed una impresa che non investe questo capitale, una politica aziendale che non si preoccupi di rinnovarlo costantemente è una impresa che non guarda al proprio futuro.

 

Quando ci sentiamo etichettati di conservatori perché non comprendiamo la valenza strategica della flessibilità del lavoro ci chiediamo quale sia la valenza strategica della pesante destrutturazione in atto nel mercato del lavoro in edilizia, se sia strategica per la crescita professionale del lavoro e dell’impresa, se sia strategica per elevare il valore aggiunto delle produzioni, se sia strategica per la costruzione di una nuova leva di lavoratori in grado di sostituire professioni che sono proprie di intere generazioni cresciute nello sviluppo del settore nei decenni che abbiamo alle spalle.

 

Qualcuno dovrà pur chiedersi come mai i giovani che entrano in questo settore decidono di scapparne presto. Certo è per le condizioni di scarsa sicurezza, per un lavoro fisicamente e materialmente più logorante di tanti altri (anche se molti giovani intervistati hanno detto di aver scelto l’edilizia perché è un lavoro comunque molto vario e che si svolge all’aria aperta).

Ma è anche per l’assenza pressochè totale di scenari evolutivi in termini professionali e per lo scarso radicamento che la condizione di precarietà e di destrutturazione offre ai percorsi lavorativi all’interno del settore e delle imprese.

Per questo viene da sorridere quando si parla di rigidità del mercato del lavoro riferendosi alla scarsa flessibilità in uscita, quando la vera rigidità consiste nello scarso investimento sulla qualità dei meccanismi di accesso.

 

Dentro questo mercato del lavoro, dunque, matura e vive non solo la lesione dei diritti e della dignità dei lavoratori, ma anche il fallimento di una prospettiva di politica di sviluppo delle imprese.

 

Questo a maggior ragione di fronte ai processi nuovi che hanno caratterizzato il mercato del lavoro in edilizia: la forte spinta alla esternalizzazione di funzioni che erano il centro motorio dell’impresa, la crescita delle forme di lavoro parasubordinato e di altre forme di impiego della manodopera che ormai riguardano circa la metà del monte-ore, la presenza sempre più diffusa di lavoratori extracomunitari, oltre 30mila. Tutti fenomeni che abbandonati alle loro dinamiche rendono ancor più esplosive le contraddizioni di un mercato del lavoro profondamente duale.

 

Il governo del mercato del lavoro rappresenta per questi motivi la principale frontiera del cantiere qualità. Un terreno non certo di battaglie difensive e di arroccamento, di chiusura verso nuove tendenze strutturali che appartengono sempre più alla fenomenologia del lavoro dei nostri tempi

Al contrario, il governo del mercato del lavoro è il terreno sul quale vogliamo guardare in faccia la realtà per orientarla verso processi positivi per lo sviluppo qualitativo del settore, un terreno sul quale dare il meglio di noi stessi.

 

Per fare questo occorre innanzitutto porre una limitazione al suo progressivo spappolamento

 

La CGIL ha preso una posizione molto netta sull’attuazione dell’avviso comune in materia di tempo determinato proprio perché un concetto positivo di flessibilità è quello che ne combatte l’uso strumentale. E se non è strumentale vuol dire che è parte di un piano d’impresa di cui risultino chiari gli obiettivi di sviluppo della stessa. Ma se è così significa che la sua dimensione e la sua coerenza con gli obiettivi di sviluppo devono essere oggetto di un confronto negoziato col sindacato. Per questo abbiamo sostenuto che tetti e causali devono essere oggetto della contrattazione. Se si nega questo principio, che per altro viene riconosciuto in Europa, come si può vincere il nostro legittimo sospetto che l’estensione dei contratti di lavoro flessibili ha poco a che fare con la volontà delle imprese di crescere investendo sul capitale umano.

 

Ma governare il mercato del lavoro con l’obiettivo di valorizzare il capitale umano e per questa via determinare un punto d’incontro sempre più avanzato tra domanda e offerta significa individuare la leva strategicamente più efficace per realizzare l’obiettivo.

 

L’arma vincente della formazione…..

Questa leva esiste, in alcuni casi l’abbiamo definita volano ed è la formazione professionale.

Ogni edificio che si rispetti ha le sue strutture portanti. La formazione professionale è l’architrave del nostro cantiere qualità. La formazione è probabilmente la risposta più forte che possiamo dare oggi ai processi disgregativi presenti nel settore per mettere nella condizione i lavoratori edili di stare dentro questi processi senza subirli.

 

Naturalmente qualcuno può pensare che siamo a posto perché disponiamo di un ricco sistema di scuole edili nell’ambito di una consolidata esperienza di enti paritetici.

La realtà è che gli scenari e le prospettive della formazione in edilizia si sono modificati e occorre capire rapidamente se le nostre strutture stanno dentro questo cambiamento.

 

Stiamo parlando della formazione d’ingresso, in particolare a fronte dell’uso ormai sempre più diffuso del principale contratto d’accesso, il contratto di apprendistato, oggetto peraltro del progetto nazionale sperimentale. Ma ci riferiamo anche alla formazione continua, poiché in un settore ad alta mobilità l’acquisizione di nuove conoscenze o l’aggiornamento di quelle esistenti deve essere un dato permanente. E poi la formazione dei lavoratori stranieri che è anche formazione culturale generale oltrechè professionale. Per non parlare della sicurezza e dei processi di qualità e di formazione superiore.

 

Per fare tutto questo non abbiamo bisogno di una sommatoria acritica di presidi formativi territoriali, abbiamo bisogno di un sistema formativo capace attraverso un progetto organico di raccordarsi con il sistema generale, quello definito dalla riforma del sistema di istruzione pubblica e di formazione professionale e dalla riforma del collocamento. Un sistema che sappia interloquire assumendone innanzitutto la nuova dimensione di scala, definita dalle competenze e dalle attribuzioni che le nuove norme attribuiscono, a partire dalle Regioni. Un sistema che sia parte integrante di quello più generale, nel quale i nostri presidi possano svolgere la funzione di soggetti attivi della programmazione formativa e del governo del mercato del lavoro, che è cosa un po’ diversa dalla mera gestione del mercato del lavoro, se intesa nella pura funzione di intermediazione della manodopera, funzione che deve restare dentro il sistema definito dalla riforma dei servizi di accesso.

Solo così penso –tra l’altro- si possa dare un senso alla richiesta di mantenere al settore lo 0,30% del Fondo Nazionale per la Formazione. Non può essere questa una richiesta ispirata ad una visione autarchica e corporativa, deve essere l’espressione di una capacità del settore a produrre una nuova domanda formativa che sappia integrarsi nel nuovo sistema generale.

 

Vi sono a questo proposito molte idee tra i nostri operatori della formazione, penso a Formedil Nazionale e anche ai nostri enti formativi, a partire dai nostri punti di eccellenza. Vi sono anche diverse nostre strutture che hanno avvertito la necessità di inoltrarsi verso l’elaborazione di progetti sperimentali di formazione finalizzati al governo del mercato del lavoro a partire da casi emblematici, come ad esempio la conclusione progressiva dei cantieri del Giubileo.

 

Tutto questo può essere produttivo se siamo disposti a mettere in gioco la nostra dote, in questo caso quella rappresentata dagli enti paritetici per la formazione, per ridefinirla nei nuovi compiti e nelle nuove funzioni richieste da un moderno sistema formativo capace di interpretare le nuove domande di governo e di qualificazione del mercato del lavoro.

 

Concertazione, contrattazione, bilateralismo…..

Il complesso delle idee e delle proposte fin qui delineate ci porta a dire che il nostro cantiere potrà e dovrà vivere a vari livelli.

 

A livello territoriale perché gran parte degli obiettivi formulati necessita di politiche territoriali organiche, di un rilancio degli interventi programmati, sia nel campo della sicurezza e della qualificazione delle imprese, sia nel campo della formazione.

In alcuni casi occorrerà interrogarci se tale organicità in alcune realtà locali potrà suggerirci una riflessione sulla dimensione distrettuale delle politiche settoriali.

Comunque sia il livello territoriale del nostro intervento è quello che può rilanciare una funzione positiva della concertazione per affidare alla contrattazione negoziata il raggiungimento di alcuni obiettivi legati alla qualità dell’impresa e alla qualità del lavoro, penso –ad esempio- alla necessità di definire all’interno di patti formativi locali i vincoli necessari ai processi di qualità nel settore.

 

Al secondo livello di contrattazione per definire i nessi necessari tra politiche contrattuali e politiche del lavoro. So bene che  abbiamo coniato lo slogan concrete ambizioni per il secondo livello di contrattazione. Ma proprio per questo all’elenco della serva sarebbe utile sostituire pochi obiettivi ma inequivocabili del nostro tentativo di introdurre le maggiori coerenze possibili con l’obiettivo della qualità. Abbiamo detto della sicurezza e del suo rapporto con le politiche salariali; sarebbe importante aggiungere il tentativo di stabilirne un raccordo anche con la politica degli orari, a partire dai luoghi produttivi dove l’esercizio contrattuale può essere una concreta ambizione.

 

Vi è poi il sistema degli enti bilaterali di cui già abbiamo parlato in occasione della formazione professionale.

Ma la necessità di sintonizzare il sistema bilaterale ai processi in atto nel settore con uno sguardo a quelli in atto nella società esiste, non certo per negare una funzione importante svolta dagli enti in tutti questi anni nel tutelare i lavoratori edili nelle oggettive differenze di condizioni rispetto agli altri settori dell’industria, quanto per riposizionarla e riqualificarla.

 

Circa il ruolo del bilateralismo la nostra opinione è chiara: non può essere di sostituzione delle funzioni proprie dei soggetti della rappresentanza sindacale, tanto dei lavoratori quanto delle imprese. Se vogliamo difendere questo patrimonio dobbiamo difenderne la natura di strumento di gestione degli ambiti definiti contrattualmente.

 

Un nuovo sistema di relazioni…….

Ho detto in apertura che questa iniziativa rappresenta il momento centrale della nostra stagione politica poiché ha l’ambizione di collocare il tradizionale lavoro sindacale che in una categoria come questa non può mai essere abbandonato all’interno di un profilo strategico che sappia interpretare la fase nuova che si è aperta nel settore e nel Paese.

 

E’ il contributo parziale, forse ancora modesto, che intendiamo dare ad una nuova iniziativa del sindacato unitario di categoria, anche con l’obiettivo di qualificare le relazioni sindacali nel settore.

 

Quando sono venuto in categoria le relazioni sindacali mi erano state descritte come un qualcosa di assolutamente defatigante, scarsamente produttive, dai tempi biblici per la realizzazione o per la semplice attuazione di intese raggiunte ai tavoli negoziali. Mi era stato detto che questo era il DNA prevalente tra le associazioni di impresa, in particolare in quella che vanta la maggiore rappresentatività.

 

Debbo dire che è vero. Basti pensare al tempo resosi necessario per rendere esigibili importantissime code contrattuali, come quella del fondo di previdenza. Oppure alla difficoltà che ancora si incontra per concretizzare le intese con le quali abbiamo ritenuto utile lavorare alla costruzione di un sistema unico di Casse Edili.

 

E’ bene dire con grande chiarezza che questo modo di fare rappresenta esattamente la smentita di quanto poi si va affermando sulle azioni che sarebbe utile intraprendere per qualificare il settore.

Ma poiché sarebbe vana la ricerca dei colpevoli, almeno per le colpe passate, vi è davanti a noi l’occasione per produrre uno scarto nella qualità delle relazioni sindacali.

 

Esistono le scadenze contrattuali, quelle legate al secondo livello di contrattazione e poi, più avanti, quelle del secondo biennio.

Vi sono terreni importanti come quello della previdenza integrativa che con il fondo dell’edilizia completa il quadro di categoria ed entra nella fase più impegnativa.

Vi sono i tavoli che potremmo costruire sulle questioni oggetto di questa nostra Conferenza e su altre che i nostri interlocutori ritengono di dover porre.

C’è una esperienza del bilateralismo che va rilanciata, aggiornandone le funzioni.

 

Si può fare tutto ciò in due modi: nel modo più antico, che poi è anche abbastanza recente, che è quello di trascinare all’infinito le questioni con il chiaro scopo di non arrivare mai da nessuna parte; oppure si possono concentrare le energie migliori –senza rinunciare ai rispettivi ruoli e agli inevitabili conflitti che potranno derivarne- per sperimentare nuovi e più avanzati terreni e prodotti di relazioni sindacali ispirate con più coerenza a quello che ci diciamo da tempo sul futuro del settore.

 

So che la risposta non sarà quella data a parole, almeno la risposta vera, così come non è con gli appelli che le cose si modificheranno.

 

Il cantiere del futuro sindacale……

Il senso di questa nostra Conferenza sta anche nel dire che noi non staremo a guardare, che intendiamo costruire insieme a Filca e Feneal una offensiva sindacale sui terreni di qualità.

 

Noi mettiamo a disposizione di questa impresa tutto ciò di cui disponiamo, a partire dalla ferma convinzione che ciò che proponiamo non ha nulla di autoreferenziale.

C’è un mondo di giovani che chiede non solo di entrare in questo mercato del lavoro ma di potervi rimanere per crescere professionalmente lungo tutto il percorso della loro vita lavorativa.

C’è un mondo di tecnici che si sente parte della sfida innovativa di questo Paese e che vorrebbe vivere questa sfida portandovi dentro l’investimento formativo fatto attraverso gli studi e la preparazione tecnica.

C’è un mondo di immigrati che rifiuta l’idea di una cittadinanza a tempo parziale, cioè, coincidente con l’orario lavorativo e che attraverso il lavoro di qualità chiede di realizzare la società multirazziale che l’Europa della carta sociale e dei diritti riconosce come scelta di civiltà.

 

Questo mondo ed altro ancora vorremmo tentare di rappresentare con sempre maggiore capacità e vorremmo farlo non da soli ma con le altre organizzazioni sindacali. Sappiamo che il momento non è dei più felici, ma sappiamo anche che le differenze tra noi riconducibili spesso a concezioni autenticamente diverse della società, quando vengono lette ed interpretate nel controluce dell’esercizio della tutela sindacale possono apparire meno drammatiche di quanto gli esercizi verbali fanno apparire. Però è corretto ed onesto riconoscere che oggi le difficoltà sono maggiori del passato ed in un settore come il nostro spesso le difficoltà alimentano una competizione non necessariamente costruttiva.

 

Noi offriamo alla competizione sindacale un terreno di qualità, perché è un terreno che riguarda il futuro dei lavoratori e che offre a tutti la possibilità di crescere.

 

Sicuramente la Fillea non rinuncerà a crescere, come sempre con il moderato ed equilibrato orgoglio di organizzazione, un orgoglio –però- che ha sempre rappresentato una risorsa di tutto il sindacato.

Discuteremo a Giugno degli obiettivi e delle tappe di questa crescita. Ma l’incubatrice della nostra crescita è oggi, è la nostra politica, sono le nostre motivazioni, le uniche –tra l’altro- che possono appassionare una nuova leva di dirigenti di cui l’organizzazione ha necessariamente bisogno e sulla quale investiremo tutta la nostra pazienza e la nostra attenzione come abbiamo già iniziato a fare con il progetto under 30.

 

Anche per tutto questo il cantiere qualità è il cantiere del futuro di questa nostra organizzazione, una organizzazione nella quale gli esclusi di oggi saranno sempre più i presenti e i dirigenti di domani, di un domani per noi già iniziato ed al quale dedicheremo tutte le nostre forze e tutta la nostra passione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Roma, 18 Aprile 2001