CONVEGNO
LEGNO – MILANO 8.4.03
Illustrazione
di Luigi Aprile
1
- la guerra ha aggravato…
Alla
fine la guerra è scoppiata. Siamo ormai alla terza settimana di combattimenti,
e mano a mano che si allunga la lista delle vittime, civili e militari, dei
lutti, delle distruzioni, va svanendo la cinica illusione di chi pensava ad una
guerra breve e indolore.
Pertanto
già il primo dei tre scenari possibili che gli analisti di tutto il mondo si
erano dati, fino a pochi giorni dal suo inizio, per tentare di capire che cosa
sarebbe successo all'economia mondiale e ai sistemi produttivi in conseguenza
della tragica avventura bellica è stato, drammaticamente, spazzato via dalla
piega che hanno preso gli eventi. Non si è trattato della passeggiata trionfale
di una settimana, che addirittura avrebbe dovuto, chissà perché poi, e in virtù
di chissà quale miracolo, dare impulso e addirittura accelerare la ripresa.
Adesso
ci si affanna a capire (ma più che altro ad auspicare) che il conflitto duri il
meno possibile (si ragiona comunque in termini di mesi, e non certo di
settimane), e che abbia conseguenze sul prezzo del petrolio (e sui costi delle
materie prime, sui prezzi, sul clima di fiducia, sulle attese dei mercati
finanziari) inevitabilmente gravi, ma magari non del tutto devastanti.
Altrimenti
lo scenario di una guerra lunga, sanguinosa, incerta (tragica oltre che,
ovviamente, per le morti, i lutti, le distruzioni, anche per i sistemi
produttivi e per i destini di milioni di lavoratori e cittadini a tutte le
latitudini), sarà l'incubo con cui dovremo fare i conti, tutti, per un tempo
lunghissimo, spostando vieppiù in avanti e rendendo sempre più aleatorie le
condizioni di una ripresa stabile e duratura.
E
tuttavia stare fermi non si può, non si deve. Oltre a tutto ciò che andrà fatto
per fermare la guerra, oltre la mobilitazione ideale, culturale, civile volta
ad affermare le condizioni della pace, della ricostruzione, oltre ad impegnarsi
nelle azioni umanitarie che saranno necessarie; ognuno di noi deve, in questi
frangenti, contribuire per la propria parte a tenere saldo il filo della pace
che è fatto anche di lavoro, di studio, di ricerca, di impegno quotidiano
responsabile, per garantire diritti, produzione, occupazione, reddito.
2
- …una congiuntura già difficile.
A
cominciare dalla necessità di avere –tutti!- ben chiara la consapevolezza che
la guerra cambia tutto, e che niente sarà più come prima. E che alla guerra non
possono certo essere addebitate anche le
difficoltà preesistenti, gli scricchiolii nei cicli, gli andamenti difficili
della domanda e della produzione in tanti settori produttivi, compreso il
nostro.
Sarebbe
sciocco ed irresponsabile cadere, di fronte alla gravità e straordinarietà
della situazione, in atteggiamenti improntati o alla rimozione tout court delle cause strutturali
di una congiuntura negativa, magari scaricando tutto sull'alibi della guerra;
ovvero in atteggiamenti minimizzatori tali per cui, appena sia chiusa questa scomoda
parentesi, questa variabile imprevista che è la guerra, tutto tornerebbe come
prima: "Aspettavamo la ripresa (taumaturgicamente, passivamente) per
settembre del 2003? Pazienza, magari arriva a
novembre, o a gennaio".
Non
sembri, la denuncia di questo genere di atteggiamenti, un esercizio
scolastico, perché voci di tal fatta si sono ben sentite nei giorni
scorsi, e viviamo pur sempre in un Paese
governato dai professionisti dell'improvvisazione, da gente che ha negato fino
all'ultimo la crisi economica e produttiva.
Tutti ricordiamo i penosi giochetti con i dati macroeconomici dell'anno
scorso, e le irrealistiche previsioni che poi erano costretti, dai fatti, a rimangiarsi sistematicamente.
Questo
è il paese in cui, fino all’esplosione della crisi della FIAT si continuava a
predicare di tassi di crescita assolutamente fuori dalla realtà, solo per
giustificare provvedimenti iniqui e velleitari, o per l’incapacità e non
volontà di fare altro.
Lo
stesso ministro Marzano ancora oggi si affanna, nella smania di smentire
comunque gli assunti e le denunce della CGIL, a negare o a minimizzare la crisi
di interi settori e filiere, e comunque continua a negare l'esigenza di uno
scatto, di un salto di qualità, di una vera e propria inversione di
tendenza nell'approccio alle questioni
dei destini produttivi del sistema Paese, perché questo -e non altro- c'è nella
parola-chiave “declino”: non la catastrofica e disperata constatazione di una
fine, bensì la denuncia di rischi concreti, di miopie e di strategie
rivelatesi, fino ad ora, perdenti e sbagliate.
Ebbene:
dopo lo sciopero proclamato dalla sola CGIL è ripartito, sia pur timidamente,
il confronto col Governo ed è soprattutto ripreso il dialogo tra Confindustria e CGIL,
CISL e UIL; dialogo che ovviamente
sconta lontananze e diversità di analisi, di obiettivi, delle stesse filosofie di approccio a temi
così complessi come le politiche industriali e settoriali. Però, con lo sforzo
e la buona disposizione di tutti, questo confronto si sta già articolando in tavoli confederali
sui quali vengono approfonditi argomenti quali la formazione, la ricerca e
innovazione, il Mezzogiorno; ed è auspicabile che serva di stimolo per l'avvio
anche di momenti e sedi di confronto
sulle varie situazioni settoriali,
territoriali o per le grandi aziende.
Ciò
dimostra che quando il confronto si sposta sul merito, la CGIL ai tavoli non
solo ci sta ma li sollecita, e vi apporta il proprio contributo di idee, di proposte, di obiettivi e di percorsi
necessari per raggiungerli. Poi -è ovvio- i dialoghi non si fanno tra sordi, e
affinché siano produttivi occorre che all'unità siano propensi tutti, lealmente.
La
FILLEA auspica e propone che anche per il settore del legno e del mobile si
determinino le condizioni di un dialogo serio e approfondito tra le parti
sociali, che traguardi alla richiesta al
Governo (meglio se fatta congiuntamente, in quanto settore) di avviare un
Tavolo operativo per il sistema
CASA/ARREDO, similmente a quanto si sta facendo per il SISTEMA
MODA/ABBIGLIAMENTO.
Siamo
convinti della piena legittimità di una tale proposta, e della necessità di
avanzarla tempestivamente, ora, pur se il nostro settore non attraversa certo
la crisi di altri sistemi industriali.
Ma
sarebbe scellerato pensare che solo a disastri già avvenuti si debba
intervenire, magari con provvedimenti di
emergenza e straordinari. Al contrario,
si deve agire prima, e per evitare che le difficoltà esplodano.
Tanto più in un settore in cui, per la sua intrinseca caratteristica di piccole
imprese, le sole strategie aziendali non sono comunque sufficienti a fare
sistema, ma occorrono politiche e strategie collettive, in cui far convergere
intelligenze, risorse e volontà di più soggetti, per governare i processi e
ridare competitività e slancio ad un settore decisivo per il sistema-paese.
Ed
è con questo scopo che oggi, qui, la FILLEA avanza le sue riflessioni e alcune,
prime proposte, chiamando al confronto associazioni, imprese, istituzioni, gli
amici di Filca e di Feneal; che
ringraziamo sinceramente per aver accolto la nostra sollecitazione.
3
- le ragioni dei successi di ieri…
Il
punto di partenza non può che essere una fotografia della congiuntura, la più
aggiornata e oggettiva possibile, e contestualmente una chiave di lettura dei
medesimi dati - e questa non può che essere soggettiva.
Il
2002 è stato un anno negativo anche per il settore del mobile e
dell'arredamento. La produzione è calata del -3,3, dopo che già nel 2001 si era
fermata (con un misero 0,4) la crescita tumultuosa ed ininterrotta di un
decennio. L'esportazione di mobili è diminuita del 3,5 in valore e del 5,7 in
quantità; il fatturato complessivo è diminuito in media dello 0,2; i consumi
interni hanno registrato una contrazione del -1,6. Il dato occupazionale del
2002 non è stato particolarmente drammatico (-0,1) ma è significativo il calo
dei volumi orari, e soprattutto ci
preoccupano le possibili conseguenze sui livelli occupazionali dei foschi
scenari dei prossimi mesi.
Questi
dati risultano ancor più stridenti se confrontati con l'ultimo decennio (ancora
solo nel 2000 si viaggiava a ritmi di crescita del +8,1), periodo durante il
quale l'Italia ha conquistato la leadership nelle esportazioni (con una quota
del 17%) e consolidato il secondo posto, dietro gli USA, in quanto a volumi
prodotti (con una quota del 9% della produzione mondiale).
E'
finito un ciclo? E cosa serve oggi per rilanciare la competitività delle
imprese e del settore, nel suo insieme?
Per
capirlo, occorre innanzitutto evidenziare quali sono state le chiavi dei
successi recenti per cercare di capire quante e quali di quelle chiavi possano
servire ancora, nel prossimo futuro, e cosa si debba invece cambiare per
mantenere o riconquistare la competitività delle singole imprese e dei sistemi
locali.
Finora
la capacità espansiva sui mercati è
stata resa possibile da vari fattori:
4
- …non sono più sufficienti…
Potremmo
elencarne altri, di fattori vincenti, ma qui ci vogliamo limitare alla
esemplificazione di un ragionamento.
Quello
che vogliamo evidenziare è il paradosso in base al quale ad ognuno
di questi punti di forza corrisponde un rovescio di medaglia, un elemento di
fragilità intrinseco, tale per cui, dietro quelli che ieri erano indubbi motivi
di successo potrebbero annidarsi le
cause stesse delle difficoltà del domani
(in parte già dell’oggi).
Alcuni
esempi, seguendo la falsariga di prima:
·
La dimensione
delle imprese, l’eccessiva frammentazione dei processi realizzativi,
l’esternalizzazione spinta di fasi e componenti, che indubbiamente abbattono i
costi quando la concorrenza è solo da costi e nelle fasi alte del ciclo, possono diventare un ostacolo quando il ciclo
è basso, la domanda incerta, la concorrenza di chi agisce solo sui costi, in
particolare sul costo del lavoro, è spietata e imbattibile. Qui la risposta
necessaria dovrebbe essere: strategia, investimenti pesanti in tecnologia,
innovazione, qualità ecc. Insomma: “piccolo è bello” non basta più.
·
Alcuni
economisti addirittura teorizzano che l’unica vera chiave del successo del
futuro consisterebbe nella crescita dimensionale delle imprese.
In sostanza si dice: se neppure il tessile abbigliamento (dove la dimensione
media delle imprese, rispetto al legno-arredamento è di circa otto volte
maggiore) è stato al riparo dalle ondate della nuova concorrenza
internazionale, figuriamoci il mobile. A noi pare che un fondo di verità ci
sia, in questa sollecitazione. Anche se,
per non snaturare ciò che ha reso (e deve continuare a rendere) diverso,
unico nello stile, nel design il mobile italiano rispetto a quello prodotto
altrove, occorre non tanto una indistinta crescita dimensionale delle imprese,
non tanto la serializzazione spinta, quanto piuttosto una più decisa
managerializzazione delle imprese nonché delicati (e complicati) processi di integrazione,
verticale e orizzontale, dei sistemi di imprese.
·
Le competenze,
le professionalità
vanno coltivate, valorizzate, remunerate, promosse, favorite. E anche qui ci
vuole saggezza, lungimiranza, progetti a lungo termine; altro che staff leasing,
altro che contratti individuali, altro che precariato istituzionalizzato, in
un’idea dell’imprenditorialità da mordi e fuggi che è foriera solo di
subalternità, di marginalità, di… declino, appunto.
·
Se vogliamo
salvaguardare le nostre peculiarità di prodotto e la nostra leadership nelle
fasce importanti del mercato, occorre ottimizzare le strategie della distribuzione,
della promozione, della valorizzazione dei marchi.
5
- …per vincere le sfide del domani.
Insomma, vale per il nostro settore il discorso che accomuna tutto il cosiddetto Made in Italy, e cioè tutti i beni di consumo, più o meno necessari, più o meno durevoli, a scarsa composizione tecnologica e ad alta intensità di lavoro umano, nei quali siamo specializzati e che costituiscono, nel bene e nel male, gran parte della capacità produttiva di questo Paese: qui la concorrenza dei nuovi produttori è forte, inarrestabile, aggressiva, ancorché legittima ed anzi, spesso, da noi stessi sollecitata e facilitata.
E a tale proposito vogliamo aprire un’altra riflessione specifica: evitiamo di identificare le sorti di un intero sistema produttivo (in questo caso: il legno-arredamento italiano) solo con quelle delle imprese che lo compongono. Perché, così come è del tutto legittimo che le imprese, nell'intento di perseguire obiettivi di crescita, di redditività, di competitività si spostino dove le condizioni sono più favorevoli; è altrettanto legittimo preoccuparsi che ciò non avvenga a discapito degli assetti produttivi e occupazionali nostri.
Per essere più espliciti: se le imprese del nord-est investono in Romania o in Slovenia, in paesi che si affacciano tumultuosamente all'economia di mercato; ebbene, se tutto ciò avviene nel rispetto dei diritti, delle norme di sicurezza, della legalità, della concorrenza, può anche essere visto come un fatto positivo, oltre che come una inarrestabile manifestazione della globalizzazione (l’altra faccia essendo rappresentata dall’altrettanto inarrestabile movimento che spinge i cittadini dei paesi poveri a cercare lavoro e riscatto sociale nei paesi e nei luoghi dove lavoro e ricchezza ci sono già).
E ancora: se Natuzzi apre nuovi stabilimenti in Brasile
perché così è più vicino ai compratori nordamericani, dove fa la gran parte del
suo mercato, e magari così facendo cerca in parte di aggirare le croniche carenze infrastrutturali della Murgia, con
cui comunque egli, come del resto tutti gli operatori di quell'area, fanno quotidianamente i conti; ciò può star bene a tutti nei momenti alti,
in cui cioè tali strategie aggiungono, senza togliere.
Ma se queste dinamiche non sono accompagnate da strategie industriali di consolidamento della produzione qui, in Italia, nei nostri distretti, allora il rischio che corriamo è di avere prevalentemente imprese italiane che organizzano altrove (in Cina o in Messico o in Polonia) i fattori della produzione, magari conservando in Italia solo la testa e le strategie; e che qui da noi cominci un lento ma inesorabile ridimensionamento del tessuto produttivo.
Peraltro In un settore in cui, non esistendo, nel bene e nel male, il gigante da cui dipendano le sorti di tutti e la cui crisi diventerebbe un grande dramma nazionale, in grado di coinvolgere l’intera opinione pubblica e di drenare ingenti finanziamenti statali; un’eventuale, malaugurata situazione di tal genere sarebbe ancor più difficile da gestire, perché meno appariscente, anche se non certo meno drammatica.
Insomma, noi non ci rassegniamo ad un futuro
di: made in China, Italian design.
Se questo può andar bene in Cina a noi fa
piacere. Ma va salvaguardato il lavoro e l’impresa qui, in Italia; il saper
fare nostrano, il produrre in qualità,
qui, beni altrimenti e altrove
non replicabili.
6 – al centro bisogna…
La sfida, come si vede, è ardua. Ma non c’è alcun dubbio che le cose stiano così. Ed è anche per questa consapevolezza, che è ben lontana da noi l’illusione di percorsi facili e semplici, o di interventi taumaturgici. Pensiamo al Tavolo come alla sede permanente di confronto sugli obiettivi, di raccordo tra ambiti e sfere di decisioni anche le più diverse, ma che nel complesso diano l’evidenza di una strategia di politiche settoriali degne di questo nome. Noi non abbiamo certo la pretesa di indicare le soluzioni a tutti i problemi; solo riteniamo doveroso dire secondo noi come, e intorno a quali grandi priorità dovrebbe articolarsi il confronto. Proviamo a indicare cinque filoni tematici:
· Il nodo della globalizzazione socialmente, eticamente ed ecologicamente sostenibile. Esso postula, per noi, l’esigenza di strategie mirate alla certificazione della qualità nei processi, nei prodotti, nei materiali, nel rispetto delle norme contrattuali e delle leggi; la valorizzazione dei marchi (anche territoriali) e la lotta alle contraffazioni; per le imprese internazionalizzate, forme di rintracciabilità e di garanzia sulla qualità sociale dei fornitori e dei cicli realizzativi.
· Nuove strategie di marketing, di distribuzione e di ottimizzazione dell’approccio ai mercati.
· L’abbattimento dei costi delle materie prime, a cominciare dal legno. A tale proposito andrà aperto un confronto specifico con il Ministero dell’Agricoltura per una grande campagna di investimenti per il rimboschimento, per le biotecnologie, per un più ampio e diverso utilizzo del legno in una cultura diffusa della bio-edilizia e dell’abitare ecologico.
· Politiche fiscali e tariffarie di sostegno alla domanda più interessata al nostro settore. Noi non chiediamo la rottamazione, bensì sgravi fiscali per l’acquisto di mobili e arredi, in linea e coerenza con la riconfermata defiscalizzazione delle spese per le ristrutturazioni edilizie.
· Incentivi mirati a selezionare e promuovere gli investimenti in ricerca, innovazione, ampliamento della base produttiva. Parallelamente occorre perseguire con maggiore efficacia e convinzione le imprese che operano, del tutto e in parte, nell'illegalità, nelle irregolarità fiscali e tributarie, nell'evasione delle norme contrattuali e di legge, e che in tal modo sottraggono risorse alla contribuzione generale e mettono in atto odiose forme di concorrenza sleale, che fanno danni agli onesti ma soprattutto abbassano la soglia della competitività di sistema, a medio e lungo termine.
7 - …nel territorio, inoltre…
Poi, siccome questo è un settore che è intrinsecamente legato alle dinamiche territoriali, è del tutto evidente che non c’è una sola politica industriale nazionale e uguale per tutti, ma che accanto al momento centrale, delle politiche settoriali verticali, occorre dar vita a momenti di governo delle dinamiche degli investimenti e delle azioni collettive necessarie per rilanciare la dinamicità dei distretti mobilieri e dei sistemi locali.
Il dossier che il Centro Studi CSIL ha elaborato viene incontro ad un’esigenza fortemente avvertita dalle strutture territoriali della Fillea maggiormente interessate alla dimensione distrettuale del settore, di avere una fotografia aggiornata e obiettiva dei processi in atto, perché solo così si può esercitare con efficacia il ruolo di stimolo, di proposta, di rivendicazione e di controllo sulle politiche di sviluppo messe in atto dalle istituzioni nei territori.
E se non c’è un’unica chiave risolutoria dei problemi a livello centrale, figuriamoci nei territori, dove per definizione serve una capacità di articolare strumenti e risorse in funzione delle situazioni più variegate.
Pertanto, analogamente a quanto fatto prima, ci limitiamo, qui, a indicare alcuni terreni possibili e alcune priorità. Per noi si tratta di:
· Riportare al centro della programmazione negoziata, delle strategie di approccio delle Regioni, la dimensione anche settoriale dello sviluppo locale, ovviamente laddove ciò abbia un senso e una motivazione.
· Orientare alle esigenze dei sistemi produttivi i programmi formativi e veicolare i progetti verso i fabbisogni effettivi avvertiti dalle aziende, riqualificare gli operatori e favorire corrette dinamiche di incontro tra domanda e offerta di lavoro nei bacini. Per fare ciò non occorre alcuna nuova sovrastruttura bilaterale, non servono nuovi centri di potere, magari sindacale. Serve invece far funzionare bene ciò che c’è, a partire dai Fondi interprofessionali per la Formazione continua, costituiti a livello confederale con Confindustria, con Confapi, con le Associazioni dell’Artigianato, rispetto ai quali, semmai, il settore deve attrezzarsi per favorire l'elaborazione di progetti mirati alle esigenze reali delle nostre imprese e dei nostri lavoratori, e quindi per veicolare la permanenza nel nostro settore delle somme che il settore stesso accantona. Serve utilizzare bene strumenti già esistenti quali l’OBNF, gli OBR, l’EBNA e le sue articolazioni regionali.
· Favorire programmi di riqualificazione dei sistemi infrastrutturali e dei servizi alle imprese che siano i più vicini ai diversi bisogni avvertiti nelle diverse realtà: se, ad esempio, in Puglia e Basilicata le infrastrutture viarie e le aree attrezzate alle attività produttive sono i grandi buchi neri, probabilmente nel nord-est serve puntare al decongestionamento e alla riqualificazione ambientale delle aree industriali, non solo per una migliore qualità della vita ma anche della produzione.
· Tutto questo presuppone e postula l’esistenza, il buon funzionamento o il rilancio, delle istituzioni distrettuali, in cui bisogna starci meno burocraticamente, è vero, ma in cui tornare a credere, militare, lavorare perché sono le sedi naturali del cervello collettivo di governo dei processi reali di ogni determinato sistema locale.
8 - ovunque e comunque: migliori
relazioni industriali.
Infine pensiamo che, proprio per le caratteristiche del settore, le relazioni industriali vadano approfondite, qualificate, migliorate a tutti i livelli. Riteniamo miope una visione minimalista, in base alla quale meno occasioni e argomenti di dialogo ci sono e meglio è per le imprese. Tanto più nei momenti, come questo, in cui occorre agire per ottenere risultati comunemente ritenuti utili.
Fare questo non vuol dire, banalmente, “vogliamoci bene”, né presuppone necessariamente un contesto generale di concertazione. Significa semplicemente riconoscersi come interlocutori; sempre, e non solo quando serve. Dentro e fuori le aziende. E per chiarire meglio il concetto faccio solo tre esempi:
· L’Osservatorio OLMA ce lo siamo dati da soli, è il classico frutto di una sana convergenza su obiettivi, circoscritti ma precisi, degli interessi diversi delle parti negoziali. Dopo una felice stagione iniziale oggi esso naviga nell’incertezza di strumenti e finalità. Riteniamo ciò uno spreco: se c’è una sede naturale, perché già definita, nella quale tutte le parti di un settore possono definire obiettivi validi per il rilancio e il sostegno da perseguire comunemente, perché non valorizzarla?
· Le enormi modificazioni intervenute nei processi lavorativi e nella composizione tecnologica del lavoro e della professionalità nei nostri settori devono essere riportate con efficacia dentro il sistema di inquadramento e di classificazione dei CCNL. Non possiamo sprecare altro tempo: questa non è una qualsiasi trovata dei sindacati per chiedere soldi, ma una grande necessità, oltre che dei lavoratori, anche di tante piccole imprese, le quali non hanno né tempo né mezzi per organizzare propri autonomi modelli di organizzazione del lavoro, e alle quali solo un efficace e moderno modello contrattualmente esigibile può offrire anche le giuste opportunità di diversificazione.
· Il grande tema della formazione e del sapere, che a noi della FILLEA piace inquadrare prioritariamente nell’ottica delle opportunità di consolidamento dei percorsi professionali dentro le aziende, e che conseguentemente offrirebbe, grazie al meccanismo dei crediti formativi, più eque opportunità nell'ambito dei mercati locali del lavoro.
9 – infine noi: il sindacato, la Fillea.
Le sollecitazioni agli altri non possono sostituire quelle a noi stessi. Anche noi, infatti, dobbiamo metterci nelle condizioni di poter svolgere al meglio queste funzioni.
Fare sindacato in questo settore non può esaurirsi nella, pur fondamentale ed insostituibile, funzione negoziale e di tutela collettiva e individuale dei lavoratori, dentro e fuori le aziende.
Perché, dentro e fuori le aziende occorre sempre avere una dimensione di contesto settoriale in cui si cala la nostra iniziativa.
Oltretutto, più si rafforza la dimensione territoriale, interaziendale, distrettuale del progetto sindacale, più si possono stemperare quegli elementi di conflittualità che spesso avviluppano le strutture di base nostre, e di Filca e Feneal.
Nutrire l’unità possibile di argomenti, tematiche, proposte che spostino sempre più il confronto nel merito delle cose, è compito peculiare dei livelli nazionali del sindacato di categoria. Ciò potrà aiutare, se fatto per bene, tutti noi a superare una fase difficile e a costruire percorsi più proficui di iniziativa, al centro e in periferia, nell’interesse superiore dei lavoratori e della buona occupazione.
Se dall’iniziativa di oggi questa consapevolezza uscisse rafforzata e generalizzata potremmo dire di aver fatto una cosa utile e che un lavoro lungo e difficile sta partendo col piede giusto.