Roma, 9 novembre 2000
Premessa La fase nuova del settore Ripresa produttiva e squilibri territoriali Una crescita con i diritti Per una ripresa stabile Il valore strategico della politica infrastrutturale La tutela del territorio. La qualità dello sviluppo sostenibile La finanziaria 2001 per lo sviluppo Le ultime posizioni dell’Ance Il confronto con l’Ance Le code contrattuali: a) la stesuta del CCNL b) il fondo di previdenza complementare c) l’unificazione del sistema delle casse edili Il falso modernismo dell’Ance Crescita-diritti: binomio della contrattazione L’assillo della sicurezza nei luoghi di lavoro La contrattazione a monte La formazione per combattere
l’emarginazione I laboratori della contrattazione In attesa del Congresso Un progetto organizzativo per rafforzare ancora la Fillea La riorganizzazione del
centro nazionale |
Con questa sessione del Comitato Direttivo Nazionale vorremmo definire i principali obiettivi di lavoro per la stagione sindacale che abbiamo di fronte, rilanciando con ciò l’iniziativa della Fillea dopo la fase che ha portato –con la precedente sessione di luglio- al cambio alla segreteria generale e ad un ulteriore assetto della segreteria nazionale. In conseguenza di questo importante avvicendamento
le settimane che abbiamo alle spalle, le prime del mandato che mi è stato
assegnato e del quale ringrazio nuovamente le compagne e i compagni del C.D.,
sono state inevitabilmente dedicate ad una ricognizione conoscitiva
indispensabile per chi come me proveniva dall’esterno la categoria. Ciò ha
determinato sicuramente un ritardo nella ripresa immediata dell’attività,
qualche lentezza nel ripristinare gli abituali rapporti con i compagni. Di
questo me ne scuso, ma vorrei al tempo stesso ringraziare i compagni per la
disponibilità manifestata per predisporre con tempestività questo giro ricognitivo
e per la pazienza con la quale sono state riproposte le analisi delle
situazioni locali e territoriali. Si è trattato per me che dovevo conoscere e
capire di un viaggio molto importante, ma credo condivisa l’opinione dei
compagni circa l’utilità di una periodica ricognizione che impegni
direttamente, in trasferta, la Segreteria Nazionale. Per questa ragione è
nostra intenzione riproporre questo metodo anche per il prossimo futuro,
poiché questo ci consente oltre le formalità delle riunioni tradizionali di
approfondire meglio e di monitorare con maggiore sistematicità i programmi di
attività delle varie strutture e le problematiche organizzative ad esse
connesse. Questo viaggio, in realtà, non si è ancora del
tutto concluso, anche in ragione di alcuni eventi imprevisti. Restano per
completare il giro Piemonte, Val d’Aosta, Trentino, Toscana, Basilicata e
Molise, appuntamenti già programmati
per i prossimi giorni. Tuttavia, al di là degli indispensabili elementi
di conoscenza personale, la ricognizione svolta offre un materiale corposo e
sufficientemente omogeneo sul quale ragionare e da poter contestualizzare
nella fase politica e sindacale nella quale ci troviamo. Pur con gli inevitabili elementi di
caratterizzazione territoriale il primo dato che emerge è la conferma della fase di ripresa
produttiva che caratterizza il settore delle costruzioni. Questo si
evidenzia attraverso i principali indicatori che confermano per il secondo
anno consecutivo un significativo trend di crescita nel volume degli
investimenti e nelle dinamiche occupazionali. Agli effetti già positivi prodotti negli anni
passati dalle misure di sostegno fiscale si sommano quelli legati alla
realizzazione di un vasto programma di opere infrastrutturali. La ripresa del settore tradizionale, quello
dell’edilizia –non solo in opere pubbliche ma anche nel settore dell’edilizia
privata- determina un evidente fenomeno di trascinamento in tutti gli altri
comparti. Ovviamente il contesto della ripresa non è
identico dal Nord al Sud. La differenziazione più evidente è che nel primo
caso, così come in altre aree del centro, la ripresa accentua i fenomeni
tipici delle aree a forte densità produttiva. In particolare, va ad
accentuare le contraddizioni tipiche dei sistemi di piena occupazione. Nel Sud, al contrario, permane un dato legato agli
alti tassi di disoccupazione che non automaticamente incrociano positivamente
la stessa ripresa beneficiandone. Se volessimo sintetizzare molto all’ingrosso lo
scenario che abbiamo di fronte potremmo
dire che la ripresa è una medaglia a due facciate: la prima sollecita una
questione di natura redistributiva ed accentua una riflessione sui
contenuti e sull’intensità della contrattazione quale terreno della
redistribuzione della crescita in atto; la seconda ripropone una questione
legata allo sviluppo ed al lavoro. E’ l’Italia divisa in due (non solo
geograficamente poiché ogni area ha il suo Sud) sulla quale la ripresa, se
priva di obiettivi, indirizzi può agire come fattore di ulteriore accentuazione
degli squilibri, rendendo più ricco il Paese già ricco e mantenendo nella
tradizionale condizione di precarietà le aree più disagiate. (Sulla situazione produttiva sarebbe utile poter
condurre -con il contributo di alcuni soggetti della ricerca che collaborano
con noi- una analisi più puntuale,
non con la presunzione di contrapporre alle più autorevoli fonti ufficiali
una nostra statistica, ma per incrociarle con la nostra lettura che ha il
vantaggio di un riscontro con la realtà diretta. Ad esempio, si fa una grande
e sempre più frequente parlare di “piena occupazione” ma spesso si tratta di
riferimenti privi di un adeguato riferimento con la realtà quali-quantitativa
del mercato del lavoro, quello reale, quello che incontriamo noi tutti i
giorni andando nei cantieri o negli altri
impianti produttivi). Ma ridurre il dato
della ripresa a questa suddivisione schematica rischia di non farci cogliere
il tratto comune, il filo rosso che lega il Nord al Sud: lo stato complessivo del settore nella sua dimensione strutturale. E’ un settore
fortemente destrutturato, caratterizzato da processi di dequalificazione in
atto nella struttura delle imprese e del mercato del lavoro. E’ un settore che non
riesce ad incidere adeguatamente nella produzione della ricchezza economica
nazionale e comunque meno che negli altri paesi dell’Europa. E’ un settore nel quale
il sistema delle grandi imprese, quelle poche che sono rimaste, quelle che
solitamente rappresentano l’ossatura di un sistema produttivo, orientano i
propri processi di riorganizzazione fuori dalle attività produttive dirette
per riprodurre un modello già conosciuto con il decentramento produttivo. Dentro questa ripresa
c’è dunque una questione di fondo che appare irrisolta anzi, che potrebbe
aggravarsi ulteriormente ed è il salto
di qualità in termini strutturali che il nostro settore deve compiere. Per questo da qualche
mese, con sempre più insistenza andiamo affermando che la ripresa in atto
deve rappresentare una opportunità,
forse irripetibile nel breve e medio termine, per compiere questo salto di
qualità e abbiamo tradotto questo concetto nell’equazione crescita-qualità e quindi crescita-diritti, perché più che in
altri settori i diritti rappresentano una cartina di tornasole infallibile
dei processi di qualità e di innovazione in atto. Questo binomio sarebbe
già indispensabile se potessimo affrontare la questione dello sviluppo entro
una dimensione meramente nazionale. Ma così non è e la sfida della
competizione globale, la nascita e lo sviluppo di un mercato senza frontiere
impone alle imprese del nostro Paese, pena la radicale emarginazione dal
contesto europeo e mondiale, quello sforzo di innovazione necessario a
superare ritardi endemici, aggravati dallo scarso profilo strategico delle
politiche condotte in tutti questi
anni dalle classi imprenditoriali vecchie e nuove. Perdere l’opportunità
della ripresa sarebbe suicida, per non dire criminale ed è per questo che la
nostra proposta, la proposta politica della Fillea e della CGIL, ma più in
generale del sindacato unitario di categoria e di quello Confederale deve
muoversi con un adeguato profilo politico, assumendo con decisione il
convincimento che siamo oggettivamente dentro una fase nuova, che non è più
la fase dei morti e dei feriti che abbiamo conosciuto nella metà degli anni
’90, ma che non automaticamente può diventare la fase del progresso e del
superamento delle principali contraddizioni sul versante del lavoro e quello
dell’impresa. Senza una iniziativa
forte, ispirata ad una elaborazione ed una proposta altrettanto forti
rischiamo di andare a rimorchio degli altri, in particolare di un padronato
nel nostro settore che sembra mosso da una grande volontà dinamica, da una
forte volontà di protagonismo politico. Il problema è dunque
individuare le direttrici principali di una proposta che si offra quale
terreno utile per imporre un salto di qualità in termini strutturali del
settore. Il primo concetto che
abbiamo affermato in questi mesi è stato quello di dare stabilità alla ripresa il che significa ancorarla a
dinamiche strutturali, che guardino oltre la logica degli interventi
contingenti, legati all’emergenza ed alimentate dalla esclusiva leva delle
incentivazioni, che pure sono una leva
indispensabile soprattutto nei momenti di crisi. Dare stabilità alla
ripresa significa, innanzitutto, assumere la valenza strategica della politica infrastrutturale nel nostro
Paese. La infrastrutturazione, dalla mobilità ai servizi, è una condizione
ineludibile della competizione e della modernità di un Paese. La realizzazione di un
vasto programma di opere infrastrutturali che il Governo di centro-sinistra
ha definito in questi ultimi anni ha offerto indubbiamente un grosso
contributo al rilancio del settore. Su questo programma di opere dovremo condurre, in parte
lo stiamo già facendo, un monitoraggio sullo stato di avanzamento dei lavori,
per verificare quali siano le eventuali difficoltà che ne ritardino la
realizzazione o che in alcuni casi impediscano l’apertura dei cantieri. Dobbiamo però capire meglio
come affrontare il nodo strategico della completa “messa a rete” del Paese,
perché la politica infrastrutturale è certamente quella delle grandi opere di
cui più si parla, ma è anche quella delle restanti che assumono altrettanta
valenza strategica nello sviluppo economico territoriale. E dobbiamo capire
meglio come risolvere il problema delle risorse a fronte della non illimitata
disponibilità dello Stato a supportare il peso di questo disegno strategico. Tutto ciò è necessario
per evitare di anteporre il libro dei sogni ad una concreta e credibile
rivendicazione perché comunque una concreta e credibile ipotesi di “messa a
rete” del Paese è fondamentale. L’altra direttrice di
cui abbiamo parlato per dare stabilità alla ripresa è quella che ha a che fare
con la tutela e la valorizzazione del patrimonio edilizio, ma più in generale
del territorio. Non avevamo bisogno di nuovi disastri per essere convinti che
tutela, manutenzione e qualità della ricostruzione sono assi
strategicamente complementari alla politica infrastrutturale. Già in
occasione dei terremoti, quello più lontano dell’Irpinia e quello più recente
del Centro-Italia, ci siamo impegnati nell’affermare il valore qualificante
per il patrimonio di cui disponiamo e per l’economia in generale, dell’attività
di tutela, prevenzione ambientale e ricostruzione. Le nostre strutture hanno
sostenuto e stanno sostenendo proposte e piattaforme che hanno assunto il
discrimine della qualità degli interventi e dei soggetti quale principale
valore aggiunto, in quel caso della ricostruzione. Quello di cui parliamo,
le due leve sulle quali agire, la politica infrastrutturale e la tutela e
prevenzione ambientale, quello che abbiamo sintetizzato nel trinomio costruire-ricostruire-tutelare non è
altro che il nostro tentativo di affermare il concetto di sviluppo sostenibile oltre le
dichiarazioni di principio. Di questo tentativo è
parte anche la necessità di riproporre la questione dell’edilizia nel suo
nuovo impatto sociale, nuovo nel saper interpretare bisogni sociali legati a
fenomeni nuovi o più intensi del passato. Basterebbe pensare guardando ad
esempio agli immigrati al problema della casa, delle strutture di servizio.
E’ paradossale che un tema come questo possa fare notizia se proposto dal
presidente dei costruttori. Di questo tentativo è
parte anche la necessità di riaprire una riflessione ed una iniziativa sulla
politica urbanistica, abbandonata da anni in questo Paese, quando la spinta
dei nuovi bisogni e l’esplosione di quelli vecchi porterebbe a ridisegnare
l’ordine delle città, a partire dalle città metropolitane. Questo approccio al
tema della ripresa, quale opportunità per destinare le risorse della crescita
all’affermazione di un modello di sviluppo sostenibile, spiega perché il tema
dei diritti è connesso ed al tempo
stesso rappresenta una discriminante per noi. Garantire i diritti nel
settore delle costruzioni, il diritto alla sicurezza, quello alla formazione,
il diritto all’assistenza e alla previdenza, presuppone l’esistenza di un
settore strutturato, robusto nella sua dimensione qualitativa, avulso dalla
precarietà che lo caratterizza attraverso il ricorso al lavoro nero e la
polverizzazione produttiva alimentata dal subappalto. Gran parte di questa
elaborazione si traduce nella iniziativa che la nostra categoria deve
assumere in riferimento a problematiche apparentemente specifiche ma perfettamente coerenti con
tale approccio: le questioni poste da agenda 2000, i PRUSST, Piani di
Riorganizzazione Urbana, il sistema della programmazione negoziata, i temi
della lotta all’abusivismo riproposti clamorosamente dalle decisioni della
Giunta Regionale Siciliana, la ricostruzione delle zone terremotate: Sembrano tasselli
separati, ma in realtà appartenenti ad un medesimo mosaico il cui filo
conduttore è rappresentato dalle scelte di qualità, qualità dello sviluppo e qualità dell’impresa e del lavoro. Naturalmente le
possibilità di affermare una prospettiva stabile alla ripresa produttiva del
settore sono connesse ad un contesto generale di sviluppo che deve trovare
nelle scelte economiche del Governo un riferimento utile e coerente. Questa è la ragione per
la quale abbiamo affermato fin dal primo momento nel quale ci sono state
sottoposte le scelte per la Finanziaria
2001 che non poteva trattarsi di una operazione di mera redistribuzione del Bonus fiscale. Intanto, per quanto
riguarda questo aspetto non abbiamo potuto non apprezzare il carattere
innovativo della manovra rispetto ad un vissuto caratterizzato da anni di
costanti prelievi sui redditi dei lavoratori e dei pensionati. In questo caso
si trattava di redistribuire a vantaggio di queste categorie economiche e
sociali secondo una scelta di equità e giustizia sociale, cioè, in direzione
di chi maggiormente aveva sostenuto lo sforzo del risanamento finanziario. I contenuti della
manovra sono fin troppo noti e mi esimono dal riepilogarli. E’ forse più utile
proporre alla discussione una riflessione sui significati che ha assunto
la recente polemica tra il candidato
premier dell’Ulivo, il Sindaco di Roma Rutelli e Cofferati. La virulenza della
critica di Cofferati ha suscitato forse qualche preoccupazione anche nei
nostri ambienti. Il commento più diffuso è che il merito delle questioni è
giusto mentre il tono, cioè il metodo appare un po’ anomalo rispetto alle
abitudini del nostro segretario. Io credo che sarebbe un
errore rincorrere significati dietrologici, un po’ perché è impossibile
coglierli, un po’ perché difficilmente possono entrare dentro una discussione
di tipo sindacale. Il merito delle questioni
per essere pienamente compreso va al di là ovviamente della questione pura e
semplice dell’Irpeg. In definitiva la riflessione può essere riproposta in
questi termini: le aziende hanno goduto in questi anni di significative
politiche di sostegno per fronteggiare la crisi degli anni ’90 e per tentare
di affrontare la sfida competitiva in posizioni di non subalternità. Riproporre oggi misure
di sostegno fiscale alle imprese al di fuori di un contesto innovativo certo
e credibile, senza cioè una chiara contropartita sul fronte delle scelte di
qualità appare del tutto incoerente con quanto è utile e necessario per
finalizzare lo sforzo che lo Stato sostiene per il risanamento e lo sviluppo. Non è necessario
percorrere tanta strada per trovare un esempio eloquente a questo proposito.
Basta guardare alle più recenti posizioni dell’Ance. Avevamo salutato con
attenzione ed interesse le posizioni della nuova presidenza pur senza soverchie illusioni. Ma la
relazione del Presidente De Albertis al momento del suo insediamento alla
carica di Presidente e le successive dichiarazioni facevano sperare in una
volontà di confronto nuova da parte dell’Associazione tra le più
conservatrici del mondo imprenditoriale. Nella sua ultima
intervista De Albertis chiede tre cose molto precise: decontribuzione,
flessibilità, superamento della legge sul subappalto. Il resto lo aveva già
chiesto in precedenza: revisione delle norme sulla sicurezza e sulla
trasparenza degli appalti. Su questi terreni
l’Ance ha sviluppato un protagonismo sostenuto, in parte finalizzato a
qualche modifica alla finanziaria, in parte proiettato nel futuro del quadro
politico. Non è caratteristica
nostra sfuggire alle necessità dell’impresa. Ma quando da problemi reali si
fanno scaturire posizioni strumentali come quelle sostenute vuol dire che il
vero intento non è l’interesse dell’azienda e del lavoratore, ma è solo
quello dell’imprenditore. Dicevo che non è
caratteristica nostra sfuggire al confronto tant’è che abbiamo accettato
immediatamente l’invito dell’Ance a sederci ad un tavolo sul quale sono state
depositate alcune questioni da loro considerate prioritarie, quali il fisco,
il lavoro, la sicurezza. L’interesse per queste presunte “aperture” non ci ha
fatto smarrire la giusta dose di scetticismo, conoscendo le attitudini poco
dialoganti dei nostri interlocutori e controparti. In quella sede abbiamo
posto un problema preliminare relativo alla affidabilità degli interlocutori,
intendendo per affidabilità intanto la definizione delle cosiddette code contrattuali. Non ci si può
inoltrare in nuovi percorsi di confronto con l’intento di produrre nuove
intese quando su quelle già realizzate non si riesce spesso mai a mettere la
parola fine. Oltretutto, dopo le
prime battute, abbiamo subito capito che l’interesse reale dell’Ance si
esaurisce nell’aprire un tavolo di confronto col Governo sulle misure di
decontribuzione fiscale. Abbiamo posto quindi la
pregiudiziale della definizione delle code contrattuale a partire dalla
stessa stesura definitiva del testo per il quale mancavano alcune piccole
questioni da sistemare. Tra le questioni di maggior rilievo abbiamo posto
quelle del Fondo della Previdenza complementare dell’edilizia e quello
dell’unificazione delle casse edili. La stesura del contratto sembra finalmente questione conclusa, anche se non
è stato ancora tecnicamente siglato. Sul testo definitivo sarebbe stata
raggiunta un’intesa che attende solo le firme delle rispettive delegazioni.
Quella dell’Ance, rinnovata dopo la nuova presidenza, doveva convocarsi in
questi giorni per consentirci di procedere alla formalizzazione definitiva in
un incontro che era stato previsto per il pomeriggio di ieri e che all’ultimo
momento ci è stato chiesto di spostare ai prossimi giorni. E’ ovvio che la
nostra vigilanza non può minimamente abbassare la guardia, conoscendo la
naturale propensione della nostra controparte a dilazionare all’infinito i
tempi. L’altra questione che
pare aver imboccato una strada in discesa è quella del fondo di previdenza
complementare. Esiste una bozza di statuto sulla quale è stata raggiunta
un’intesa, anche con gli artigiani e nei prossimi giorni con Filca e
Feneal andremo a definire anche la questione del regolamento elettorale. Siamo quindi nella
condizione di prevedere per le prossime settimane lo sbocco formale
necessario per procedere lungo il decollo del fondo, a partire dalla
formalizzazione notarile dello statuto. Penso che a nessuno
sfugga l’importanza di questo passaggio poiché sull’intera partita della
previdenza complementare abbiamo accumulato non poche tensioni dovute ai
ritardi che hanno riguardato l’avvio di alcuni importanti fondi di settore,
oltre a quello dell’edilizia anche quello di legno e cemento (Arco). Una
contraddizione che rischiava di diventare esplosiva sia per il già avvenuto
superamento di istituti quali l’Apes, sia per l’avvicinarsi della verifica
del 2001 sull’accordo di riforma delle pensioni, una riforma che ha
individuato nella previdenza complementare il secondo pilastro su cui reggere
l’intero sistema pensionistico del futuro. (In questo quadro si
pone il problema dei lavori usuranti, un problema sul quale abbiamo assunto
degli impegni durante la fase di approvazione della riforma delle pensioni
che ci hanno aiutati nel sostegno alla riforma. In questi giorni è in
atto un lavoro per tentare di recuperare in qualche modo una partita che
appariva molto compromessa. Su questi elementi torneremo per una discussione
quando saranno a nostra disposizione). Su tutta questa
partita, mentre procedono gli ultimi atti per la definizione formale dei
fondi, la segreteria ritiene necessario operare per un maggior coordinamento
delle nostre forze impegnate su questa materia e per rilanciare una funzione
ed una iniziativa politica della stessa, superando una delega impropria a chi
ci rappresenta formalmente negli stessi Fondi. La previdenza complementare è
questione troppo importante e sulla quale non è immaginabile una latitanza
della categoria nel suo insieme, sapendo che per la stessa mentalità che ci
accompagna da anni è un chiodo sul quale dobbiamo battere e ribattere per
farne cogliere a pieno il significato soprattutto alle giovani generazioni. L’unificazione del sistema delle Casse Edili è l’altra coda
contrattuale significativa. Conoscete le origini del problema e le intese
recenti sulle quali si sono spese anche le altre controparti padronali, a
partire da quelle artigiane e della piccola impresa (Aniem). Conoscete anche
le ragioni, molto di bottega, della riluttanza con la quale l’Ance ha
tergiversato fino ad oggi. In occasione del tavolo
sulle code contrattuali abbiamo proposto una sperimentazione in un paio di
aree di un possibile modello unitario (Sicilia, Marche?) per poi valutare
sulla base di una esperienza concreta problemi e difficoltà da superare. L’interesse con il
quale guardiamo a questa possibile sperimentazione non è solo per un rispetto
burocratico delle intese siglate, ma anche per la necessità di avviare
sull’intero sistema degli enti bilaterali una riflessione che investa le
funzioni, il ruolo, le prospettive a
fronte dei continui cambiamenti che anche il nostro mondo del lavoro, quello
da noi rappresentato vive. Non ci piace considerare il sistema degli enti
bilaterali come una realtà statica, immobile, come una rendita di posizione
incapace di guardare ai necessari processi evolutivi, questo sia a fronte
della composizione qualitativa e quantitativa dei bisogni di assistenza e di
tutela in un mercato del lavoro che cambia, sia in funzione del valore sempre
più strategico dei processi di investimento sulla qualità del lavoro e dunque
sulla funzione strategica e per questo dinamica della formazione
professionale, per parlare ad esempio del futuro delle scuole edili. Ovviamente, su tutta
questa partita è interesse nostro sviluppare una autonoma riflessione, che
non sia indotta né dagli altri, né dagli eventi, con l’obiettivo di
riproporre, magari riformandola, una esperienza -quella appunto del
bilateralismo- che possiede tratti di originalità e di interesse in un
settore come quello nostro per il quale la questione dei servizi, compresi quelli erogati dalle nostre
organizzazioni, ha una importanza superiore rispetto ad altri, anche se
richiede risposte più complesse. Guardando in casa nostra, penso ad esempio
alla funzione dei patronati sindacali e alle difficoltà che su molti
territorio registriamo nel rapporto con il nostro patronato. Su tutta questa
partita, previdenza complementare, enti bilaterali, l’Ance aveva avuto una
grossa amnesia concentrando l’attenzione del confronto sulle questioni di
natura fiscale, le misure di decontribuzione,
e su quelle del lavoro, ma per riproporre il tema della flessibilità. In verità, come avrete
letto in questi giorni, siamo di fronte ad una attenzione apparentemente
sproporzionata ed assolutamente inedita per l’Ance alle questioni della lotta
al lavoro nero e irregolare. Non che questo ci dispiaccia ma non ci sfuggono
le possibili ragioni strumentali di tutta questa attenzione che paiono
risiedere più nelle ragioni della competizione interna al sistema delle
imprese che nella volontà di investire sulla qualità del lavoro. Ci chiediamo a questo
proposito come fa a stare insieme
questa campagna contro il lavoro sommerso con la richiesta di abolire
la legge sul subappalto (L. 1369),
di rivedere quella sulla trasparenza degli appalti e anche quella sulla sicurezza. Come fanno a stare insieme
lotta al sommerso e superamento delle regole nel mercato del lavoro. E’
questo che chiede in definitiva l’Ance sapendo che è lo stesso processo di
deregolazione del mercato e dell’impresa la causa principale che genera il
sommerso, il nero, il precario. Il quotidiano Il
Sole 24 ore ha pubblicato ieri un articolo
nel quale illustrando le posizioni dell’Ance si è parlato di un Patto con i
sindacati contro il sommerso. E’ del tutto evidente che siamo di fronte ad
una invenzione della giornalista, a meno che per patto non si intenda la
comune intenzione di combattere il lavoro sommerso. L’unico patto che noi
siamo disponibili a sottoscrivere è quello che mette in rapporto tra loro
politiche di flessibilità e di sostegno alle imprese con l’esercizio dei
diritti sul lavoro e dei lavoratori. Non siamo pregiudizialmente contrari che
lo Stato e la contrattazione aiutino le imprese che scelgano di emergere
dall’irregolarità, ma questo non può che essere un processo chiaro,
trasparente, una scelta che avvenga non con l’obiettivo di ridurre l’accesso
ai diritti ed il ricorso alle libertà sindacali. In definitiva l’Ance
chiede più soldi alle imprese e meno vincoli per le stesse. Se questa può
apparire una politica efficace e socialmente giusta di lotta al lavoro nero
non è certamente la nostra. La nostra ha ben altro
contenuto e consideriamo molto positivo il fatto che alla luce di questo
confronto avviato con l’Ance dopo molti anni si sia potuto riaprire un tavolo
di lavoro comune anche con Filca e Feneal. In giro per l’Italia il quadro dei
rapporti unitari non è proprio esaltante ma caratterizzato dall’ossessiva
concorrenza spesso ai margini se non oltre il rispetto reciproco. Per questo
riteniamo utile e positivo che si sia potuto decidere nella riunione delle
segreterie di lunedì scorso di tentare di mettere a punto una piattaforma
comune sulle questioni del settore e della categoria, per offrire se non
altro un minimo di contesto strategico entro il quale collocare il lavoro
delle rispettive organizzazioni. Per quanto ci riguarda
gli obiettivi che ci proponiamo per l’immediato futuro non possono che
derivare dall’analisi fin qui svolta. Il binomio crescita-diritti si traduce in precisi obiettivi della
contrattazione e dell’iniziativa politica della categoria. La questione della crescita è questione che si gioca sia
a livello territoriale che dentro l’impresa. A livello territoriale,
per dare stabilità alla ripresa, per far si che la crescita assuma dimensioni
strutturali occorre investire la concertazione delle principali politiche di
sviluppo locale. Ai tavoli di concertazione territoriale, che sono tavoli
dove spesso si decide cosa fare e come e a chi distribuire risorse, prevalentemente
pubbliche, occorre imporre il vincolo della qualità. C’è un modo molto semplice per cominciare a farlo ed è
quello di chiedere e di imporre alle stazioni appaltanti, in questo caso
pubbliche, l’obbligo del rispetto dei diritti contrattuali e delle normative
sul lavoro da parte delle imprese che partecipano alle gare di appalto,
assumendo questo rispetto delle leggi e delle norme contrattuali quale
fattore discriminante tra le imprese. Oltretutto, esistono provvedimenti
recenti, come il Dlgs Salvi sui costi della sicurezza e del lavoro che
offrono nuove sollecitazioni in questa direzione. La questione della
crescita è poi questione che si gioca dentro l’impresa sul terreno delle
innovazioni da introdurre nell’organizzazione del processo e del lavoro e nel
rispetto dei diritti. Su questo,
poiché stiamo parlando dei contenuti della contrattazione di secondo livello,
emergono due direttrici lungo le quali orientare la nostra iniziativa
generale e della contrattazione di secondo livello. La prima, una campagna
martellante sul diritto alla sicurezza e sul diritto alla formazione, che per
altro sono tra loro “imparentati “. Del diritto alla sicurezza nei luoghi di lavoro
dobbiamo fare il nostro vero assillo quotidiano. Se qualcuno ha visto i dati
recenti pubblicati dall’Inail si renderà conto del significato che
attribuiamo al rapporto tra ripresa produttiva e dinamica infortunistica
senza una chiara scelta di inversione di tendenza rispetto ai modelli
organizzativi adottati dalle imprese. Il rapporto 2000 su
1999 del periodo gennaio/agosto, dati relativi a tutti i settori, presenta
incrementi sui morti sul lavoro che hanno questi livelli: 69,76% in Toscana,
47,22% in Emilia R., 27% in Lombardia. La media nel settore delle costruzioni
è il 13% in più sul ’99. Qui le cose da fare
sono due. Una azione più decisa, che impegni tutti i soggetti che hanno una
competenza in materia ad attuare le norme, che sono buone norme. Questo vale
ad esempio per il regolamento attuativo dell’Art.31 della L.109 che è
importante per la coerente attuazione delle normative sulla sicurezza nei
cantieri, vale per la spesa sanitaria destinata dalle regioni alla
prevenzione nella misura minima del 5%, vale per la costituzione degli RLS e
dei RLST. Ma vi è poi uno spazio
che appartiene alla contrattazione, al tentativo cioè di determinare a monte
e non a valle le condizioni di sicurezza nelle quali viene ad aprirsi un
cantiere. Questo vale sia per la definizione dei contenuti del Piano di
Sicurezza e di Coordinamento a carico delle stazioni appaltanti, sia del
Piano Operativo a carico delle imprese, che non possono essere strumenti
burocratici. Ma siccome sicurezza
significa poi organizzazione del lavoro si tratta di intervenire a monte
sulla predisposizione delle strutture e dell’organizzazione aziendale alle
norme sulla sicurezza e sulla organizzazione dei regimi di orario, che spesso
hanno un ruolo niente affatto secondario nel determinare le condizioni di
esposizione al rischio. In questo senza mai rinunciare a coniugare i diritti con
la flessibilità. Nei cantieri dell’alta
velocità che attraversa l’Appennino tosco-emiliano si è fatto un accordo che
tenta di intervenire sul regime degli orari a fronte di una richiesta del
ciclo continuo dovuto al rispetto dei tempi di consegna dell’opera. Provate
ad immaginarvi in questi casi quale sarebbe lo scenario in assenza di un
tentativo del sindacato di ancorare questa esigenza aziendale ad un sistema
di regole: il vero e proprio Far West.
Dovrebbe immaginarselo soprattutto chi in queste settimane si sta adoperando per indebolire
quell’accordo senza capire quale sia una alternativa credibile al rapporto
diretto che in questi casi, sulla partita degli orari l’impresa rischierebbe
di intavolare con i lavoratori, con conseguenze facilmente immaginabili. Se la sicurezza è il
nostro assillo dobbiamo riconoscerlo come tale anche a fronte del legittimo
obiettivo di affrontare il problema di una redistribuzione della crescita a
vantaggio dei lavoratori e dei loro salari. Nelle aree dove più forti sono i
tassi di sviluppo e dove reale è il regime di piena occupazione questa
questione è emersa con forza e se non assunta da noi rischia di diventare
terreno sul quale le aziende puntano a costruire questo rapporto diretto con
i lavoratori. Poiché è nostra intenzione
proporre una sessione seminariale del C.D. sulle questioni della
contrattazione in quella sede potremo approfondire questo aspetto. Ma
possiamo fin da ora affermare che il problema di una redistribuzione a
vantaggio dei salari attraverso la contrattazione di secondo livello e gli
istituti da essa prevista (premio di risultato) non è questione scissa dal
rispetto dei diritti, in questo caso quello alla sicurezza e quello
altrettanto importante e complementare alla formazione. La formazione deve essere
l’altro nostro assillo in questo settore poiché offre gli strumenti della
conoscenza critica e quindi della tutela sia rispetto alla questione delle
condizioni di lavoro, sia rispetto ai processi di mobilità molto spinti nel
settore, che se privati di un costante investimento sulla professionalità
rischiano di determinare condizioni di emarginazione e di precarietà
insuperabili nel mercato del lavoro. Tra l’altro è proprio
sul governo del mercato del lavoro che molte nostre partite legate ai diritti
possono essere giocate in modo vincente, sia che si tratti dei nuovi flussi
di immigrati che di lotta al sommerso e allo sfruttamento del lavoro
minorile, che come ha denunciato la CGIL in questi giorni rappresenta un
fenomeno tutt’altro che marginale nel nostro Paese, oppure del ricorso sempre
più frequente a forme di lavoro interinale come lavoro sostitutivo di quello
strutturato. Quello che vorremmo
proporre è di individuare alcune realtà, territoriali o settoriali, nelle
quali determinare alcune sperimentazioni contrattuali che tentino di tenere
unite l’insieme delle questioni fin qui poste. Ciò può riguardare alcune aree
del Centro-Nord, le aree distrettuali dove l’intensità della ripresa e le
particolari condizioni di contesto socio-economiche portano a sottolineare di
più gli aspetti legati al conflitto redistributivo; ed alcune altre del Sud,
dove il lavoro, l’occupazione, la struttura dell’impresa rappresentano i temi
dominanti sui quali l’intreccio tra dimensione territoriale e quella
aziendale si presenta forse più stringente. Non dobbiamo in tutto
questo dimenticare che le contraddizioni della ripresa si manifestano anche con il permanere di
punti di crisi significativi, che riguardano imprese importanti per il
settore, a partire dalla Impregilo. Come è ben comprensibile in questi casi
si va oltre un significato meramente aziendale poiché si tende a delineare un
preciso disegno di riorganizzazione del sistema delle grandi imprese che deve
rimanere un punto importante di riferimento nella struttura produttiva
settoriale. E’ su questo insieme di
questioni che vorremmo costruire la nostra iniziativa nelle prossime
settimane e nei prossimi mesi, contribuendo anche così alla discussione
preparatoria al nostro prossimo congresso, il cui svolgimento è oggettivamente
poco immaginabile in questa fase della vita politica del Paese. Ma lo
slittamento del Congresso è cosa che può preoccupare solo chi vive questo
appuntamento in funzione esclusiva delle dinamiche autoreferenziali dei
gruppi dirigenti. Se il problema è cosa fa la CGIL, credo che un modo per
rispondere a questo interrogativo è anche cominciare a fare o
continuare a fare qualcosa che è sempre
meglio di ogni attesa messianica di qualcosa che comunque dipende da noi e
deve uscire da noi. Attraverso questo
lavoro vogliamo infine lanciare una nuova fase di rafforzamento e di sviluppo
organizzativo della nostra organizzazione. Nella sessione di ieri
abbiamo parlato di risorse e di tesseramento, che in fondo sono le due
facciate di una stessa medaglia, anzi dovrebbe esserlo se tutti noi crediamo
ancora che dalla delega sindacale più che dalla quota di servizio dovrebbe
venire il sangue che anima il nostro organismo. Anche perché se ci
limitassimo a gestire l’esistente non avremmo garanzie assolute di sopravvivenza
all’infinito. Il bilancio che abbiamo
approvato ieri è buono e i dati sul tesseramento sono confortanti. Ma pur
soddisfatti di ciò vogliamo non accontentarci del tutto. Proprio perché i
dati sono buoni e confortanti vogliamo imprimere una ulteriore scossa a tutta
l’organizzazione per mettere in campo nuovi obiettivi, nuovi traguardi per
far crescere la Fillea. Per quanto ci riguarda,
confermiamo la scelta di svolgere come centro nazionale una funzione di
sostegno alle strutture in tutti i progetti di reinsediamento, di
tesseramento, di formazione e politica dei quadri, con l’obiettivo di portare
nuova linfa ad un quadro dirigente che esprime già tuttavia una buona qualità
e per questo oggetto di frequenti incursioni da parte della Confederazione. In questo senso, lo
stesso centro nazionale deve
riorganizzarsi in funzione di una efficacia e di una qualità indispensabili a
sostenere un ruolo di direzione che deve essere svolto nel modo migliore.
Siamo forse in una fase di transizione, caratterizzata da esperienze in parte
nuove ed in parte destinate ad altri percorsi. In questo processo di
riorganizzazione ci proponiamo di sperimentare modelli e formule nuove di
riorganizzazione delle funzioni nazionali, che estendano l’intreccio tra il
centro ed il territorio, pensando a funzioni centrali, cioè, nazionali che
possano essere attribuite a risorse che hanno responsabilità territoriali e a
funzioni nazionali decentrate sui territori stessi, che impegnino compagni le
cui competenze e la cui esperienza può essere investita per coprire settori o
aree territoriali in una ottica di razionalizzazione delle funzioni e di
valorizzazione del patrimonio esistente. Vediamo, approfondiamo,
sperimentiamo tutto ciò per poter decidere sulla base di concrete esperienze
che ci consentano di valutare la bontà delle soluzioni e dei modelli
organizzativi più idonei alle nostre esigenze. Con ciò penso che potremo e sapremo raccogliere la
sfida che ci è stata consegnata al momento della assunzione delle nuove
responsabilità: quella di fare sempre bene e meglio come chi ha già fatto bene, perché solo così
potremo assicurare la continuità di una missione che ha il difetto di
inoltrarsi in un mondo sempre più complicato, ma il pregio di dare un senso a
questa complessità che è poi quel senso che non ci fa rimpiangere il fatto di
essere qui a consumare i nostri anni migliori. |