Comitato Direttivo Nazionale FILLEA-CGIL

Roma, 9 novembre 2000

Relazione introduttiva di Franco MARTINI

 

 

 

 

 

Premessa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La fase nuova del settore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ripresa produttiva e squilibri territoriali

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una crescita con i diritti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per una ripresa stabile

 

 

 

 

 

Il valore strategico della politica infrastrutturale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La tutela del territorio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La qualità dello sviluppo sostenibile

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La finanziaria 2001 per lo sviluppo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le ultime posizioni dell’Ance

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il confronto con l’Ance

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le code contrattuali:

a) la stesuta del CCNL

 

 

 

 

 

 

 

 

 

b) il fondo di previdenza complementare

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

c) l’unificazione del sistema delle casse edili

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il falso modernismo dell’Ance

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Crescita-diritti: binomio della contrattazione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’assillo della sicurezza nei luoghi di lavoro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La contrattazione a monte

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La formazione per combattere l’emarginazione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I laboratori della contrattazione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In attesa del Congresso

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un progetto organizzativo per rafforzare ancora la Fillea

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La riorganizzazione del centro nazionale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Con questa sessione del Comitato Direttivo Nazionale vorremmo definire i principali obiettivi di lavoro per la stagione sindacale che abbiamo di fronte, rilanciando con ciò l’iniziativa della Fillea dopo la fase che ha portato –con la precedente sessione di luglio- al cambio alla segreteria generale e ad un ulteriore assetto della segreteria nazionale.

 

In conseguenza di questo importante avvicendamento le settimane che abbiamo alle spalle, le prime del mandato che mi è stato assegnato e del quale ringrazio nuovamente le compagne e i compagni del C.D., sono state inevitabilmente dedicate ad una ricognizione conoscitiva indispensabile per chi come me proveniva dall’esterno la categoria. Ciò ha determinato sicuramente un ritardo nella ripresa immediata dell’attività, qualche lentezza nel ripristinare gli abituali rapporti con i compagni. Di questo me ne scuso, ma vorrei al tempo stesso ringraziare i compagni per la disponibilità manifestata per predisporre con tempestività questo giro ricognitivo e per la pazienza con la quale sono state riproposte le analisi delle situazioni locali e territoriali. Si è trattato per me che dovevo conoscere e capire di un viaggio molto importante, ma credo condivisa l’opinione dei compagni circa l’utilità di una periodica ricognizione che impegni direttamente, in trasferta, la Segreteria Nazionale. Per questa ragione è nostra intenzione riproporre questo metodo anche per il prossimo futuro, poiché questo ci consente oltre le formalità delle riunioni tradizionali di approfondire meglio e di monitorare con maggiore sistematicità i programmi di attività delle varie strutture e le problematiche organizzative ad esse connesse.

 

Questo viaggio, in realtà, non si è ancora del tutto concluso, anche in ragione di alcuni eventi imprevisti. Restano per completare il giro Piemonte, Val d’Aosta, Trentino, Toscana, Basilicata e Molise, appuntamenti  già programmati per i prossimi giorni.

 

Tuttavia, al di là degli indispensabili elementi di conoscenza personale, la ricognizione svolta offre un materiale corposo e sufficientemente omogeneo sul quale ragionare e da poter contestualizzare nella fase politica e sindacale nella quale ci troviamo.

 

 

 

 

 

 

 

 

Pur con gli inevitabili elementi di caratterizzazione territoriale il primo dato che emerge è la conferma della fase di ripresa produttiva che caratterizza il settore delle costruzioni. Questo si evidenzia attraverso i principali indicatori che confermano per il secondo anno consecutivo un significativo trend di crescita nel volume degli investimenti e nelle dinamiche occupazionali.

Agli effetti già positivi prodotti negli anni passati dalle misure di sostegno fiscale si sommano quelli legati alla realizzazione di un vasto programma di opere infrastrutturali.

La ripresa del settore tradizionale, quello dell’edilizia –non solo in opere pubbliche ma anche nel settore dell’edilizia privata- determina un evidente fenomeno di trascinamento in tutti gli altri comparti.

 

Ovviamente il contesto della ripresa non è identico dal Nord al Sud. La differenziazione più evidente è che nel primo caso, così come in altre aree del centro, la ripresa accentua i fenomeni tipici delle aree a forte densità produttiva. In particolare, va ad accentuare le contraddizioni tipiche dei sistemi di piena occupazione.

Nel Sud, al contrario, permane un dato legato agli alti tassi di disoccupazione che non automaticamente incrociano positivamente la stessa ripresa beneficiandone.

 

Se volessimo sintetizzare molto all’ingrosso lo scenario che abbiamo di fronte  potremmo dire che la ripresa è una medaglia a due facciate:  la prima sollecita una questione di natura redistributiva ed accentua una riflessione sui contenuti e sull’intensità della contrattazione quale terreno della redistribuzione della crescita in atto; la seconda ripropone una questione legata allo sviluppo ed al lavoro.

 

E’ l’Italia divisa in due (non solo geograficamente poiché ogni area ha il suo Sud) sulla quale la ripresa, se priva di obiettivi, indirizzi può agire come fattore di ulteriore accentuazione degli squilibri, rendendo più ricco il Paese già ricco e mantenendo nella tradizionale condizione di precarietà le aree più disagiate.

 

(Sulla situazione produttiva sarebbe utile poter condurre -con il contributo di alcuni soggetti della ricerca che collaborano con noi-  una analisi più puntuale, non con la presunzione di contrapporre alle più autorevoli fonti ufficiali una nostra statistica, ma per incrociarle con la nostra lettura che ha il vantaggio di un riscontro con la realtà diretta. Ad esempio, si fa una grande e sempre più frequente parlare di “piena occupazione” ma spesso si tratta di riferimenti privi di un adeguato riferimento con la realtà quali-quantitativa del mercato del lavoro, quello reale, quello che incontriamo noi tutti i giorni andando nei cantieri o negli altri  impianti produttivi).

 

 

 

 

Ma ridurre il dato della ripresa a questa suddivisione schematica rischia di non farci cogliere il tratto comune, il filo rosso che lega il Nord al Sud: lo stato complessivo del settore nella sua dimensione strutturale.

E’ un settore fortemente destrutturato, caratterizzato da processi di dequalificazione in atto nella struttura delle imprese e del mercato del lavoro.

E’ un settore che non riesce ad incidere adeguatamente nella produzione della ricchezza economica nazionale e comunque meno che negli altri paesi dell’Europa.

E’ un settore nel quale il sistema delle grandi imprese, quelle poche che sono rimaste, quelle che solitamente rappresentano l’ossatura di un sistema produttivo, orientano i propri processi di riorganizzazione fuori dalle attività produttive dirette per riprodurre un modello già conosciuto con il decentramento produttivo.

 

Dentro questa ripresa c’è dunque una questione di fondo che appare irrisolta anzi, che potrebbe aggravarsi ulteriormente ed è il salto di qualità in termini strutturali che il nostro settore deve compiere.

Per questo da qualche mese, con sempre più insistenza andiamo affermando che la ripresa in atto deve rappresentare una opportunità, forse irripetibile nel breve e medio termine, per compiere questo salto di qualità e abbiamo tradotto questo concetto nell’equazione crescita-qualità e quindi crescita-diritti, perché più che in altri settori i diritti rappresentano una cartina di tornasole infallibile dei processi di qualità e di innovazione in atto.

 

Questo binomio sarebbe già indispensabile se potessimo affrontare la questione dello sviluppo entro una dimensione meramente nazionale. Ma così non è e la sfida della competizione globale, la nascita e lo sviluppo di un mercato senza frontiere impone alle imprese del nostro Paese, pena la radicale emarginazione dal contesto europeo e mondiale, quello sforzo di innovazione necessario a superare ritardi endemici, aggravati dallo scarso profilo strategico delle politiche condotte  in tutti questi anni dalle classi imprenditoriali vecchie e nuove.

 

Perdere l’opportunità della ripresa sarebbe suicida, per non dire criminale ed è per questo che la nostra proposta, la proposta politica della Fillea e della CGIL, ma più in generale del sindacato unitario di categoria e di quello Confederale deve muoversi con un adeguato profilo politico, assumendo con decisione il convincimento che siamo oggettivamente dentro una fase nuova, che non è più la fase dei morti e dei feriti che abbiamo conosciuto nella metà degli anni ’90, ma che non automaticamente può diventare la fase del progresso e del superamento delle principali contraddizioni sul versante del lavoro e quello dell’impresa.

Senza una iniziativa forte, ispirata ad una elaborazione ed una proposta altrettanto forti rischiamo di andare a rimorchio degli altri, in particolare di un padronato nel nostro settore che sembra mosso da una grande volontà dinamica, da una forte volontà di protagonismo politico.

 

Il problema è dunque individuare le direttrici principali di una proposta che si offra quale terreno utile per imporre un salto di qualità in termini strutturali del settore.

 

Il primo concetto che abbiamo affermato in questi mesi è stato quello di dare stabilità alla ripresa il che significa ancorarla a dinamiche strutturali, che guardino oltre la logica degli interventi contingenti, legati all’emergenza ed alimentate dalla esclusiva leva delle incentivazioni, che pure sono una leva  indispensabile soprattutto nei momenti di crisi.

 

Dare stabilità alla ripresa significa, innanzitutto, assumere la valenza strategica della politica infrastrutturale nel nostro Paese. La infrastrutturazione, dalla mobilità ai servizi, è una condizione ineludibile della competizione e della modernità di un Paese.

La realizzazione di un vasto programma di opere infrastrutturali che il Governo di centro-sinistra ha definito in questi ultimi anni ha offerto indubbiamente un grosso contributo al rilancio del settore.

 

Su questo programma di opere dovremo condurre, in parte lo stiamo già facendo, un monitoraggio sullo stato di avanzamento dei lavori, per verificare quali siano le eventuali difficoltà che ne ritardino la realizzazione o che in alcuni casi impediscano l’apertura dei cantieri.

 

Dobbiamo però capire meglio come affrontare il nodo strategico della completa “messa a rete” del Paese, perché la politica infrastrutturale è certamente quella delle grandi opere di cui più si parla, ma è anche quella delle restanti che assumono altrettanta valenza strategica nello sviluppo economico territoriale. E dobbiamo capire meglio come risolvere il problema delle risorse a fronte della non illimitata disponibilità dello Stato a supportare il peso di questo disegno strategico.

 

Tutto ciò è necessario per evitare di anteporre il libro dei sogni ad una concreta e credibile rivendicazione perché comunque una concreta e credibile ipotesi di “messa a rete” del Paese è fondamentale.

 

L’altra direttrice di cui abbiamo parlato per dare stabilità alla ripresa è quella che ha a che fare con la tutela e la valorizzazione del patrimonio edilizio, ma più in generale del territorio. Non avevamo bisogno di nuovi disastri per essere convinti che tutela, manutenzione e qualità della ricostruzione sono assi strategicamente complementari alla politica infrastrutturale. Già in occasione dei terremoti, quello più lontano dell’Irpinia e quello più recente del Centro-Italia, ci siamo impegnati nell’affermare il valore qualificante per il patrimonio di cui disponiamo e per l’economia in generale, dell’attività di tutela, prevenzione ambientale e ricostruzione. Le nostre strutture hanno sostenuto e stanno sostenendo proposte e piattaforme che hanno assunto il discrimine della qualità degli interventi e dei soggetti quale principale valore aggiunto, in quel caso della ricostruzione.

 

Quello di cui parliamo, le due leve sulle quali agire, la politica infrastrutturale e la tutela e prevenzione ambientale, quello che abbiamo sintetizzato nel trinomio costruire-ricostruire-tutelare non è altro che il nostro tentativo di affermare il concetto di sviluppo sostenibile oltre le dichiarazioni di principio.

Di questo tentativo è parte anche la necessità di riproporre la questione dell’edilizia nel suo nuovo impatto sociale, nuovo nel saper interpretare bisogni sociali legati a fenomeni nuovi o più intensi del passato. Basterebbe pensare guardando ad esempio agli immigrati al problema della casa, delle strutture di servizio. E’ paradossale che un tema come questo possa fare notizia se proposto dal presidente dei costruttori.

Di questo tentativo è parte anche la necessità di riaprire una riflessione ed una iniziativa sulla politica urbanistica, abbandonata da anni in questo Paese, quando la spinta dei nuovi bisogni e l’esplosione di quelli vecchi porterebbe a ridisegnare l’ordine delle città, a partire dalle città metropolitane.

 

Questo approccio al tema della ripresa, quale opportunità per destinare le risorse della crescita all’affermazione di un modello di sviluppo sostenibile, spiega perché il tema dei diritti è connesso ed al tempo stesso rappresenta una discriminante per noi.

Garantire i diritti nel settore delle costruzioni, il diritto alla sicurezza, quello alla formazione, il diritto all’assistenza e alla previdenza, presuppone l’esistenza di un settore strutturato, robusto nella sua dimensione qualitativa, avulso dalla precarietà che lo caratterizza attraverso il ricorso al lavoro nero e la polverizzazione produttiva alimentata dal subappalto.

 

Gran parte di questa elaborazione si traduce nella iniziativa che la nostra categoria deve assumere in riferimento a problematiche apparentemente  specifiche ma perfettamente coerenti con tale approccio: le questioni poste da agenda 2000, i PRUSST, Piani di Riorganizzazione Urbana, il sistema della programmazione negoziata, i temi della lotta all’abusivismo riproposti clamorosamente dalle decisioni della Giunta Regionale Siciliana, la ricostruzione delle zone terremotate:

Sembrano tasselli separati, ma in realtà appartenenti ad un medesimo mosaico il cui filo conduttore è rappresentato dalle scelte di qualità, qualità dello sviluppo e qualità dell’impresa e del lavoro.

 

Naturalmente le possibilità di affermare una prospettiva stabile alla ripresa produttiva del settore sono connesse ad un contesto generale di sviluppo che deve trovare nelle scelte economiche del Governo un riferimento utile e coerente.

Questa è la ragione per la quale abbiamo affermato fin dal primo momento nel quale ci sono state sottoposte le scelte per la Finanziaria 2001 che non poteva trattarsi di una operazione  di mera redistribuzione del Bonus fiscale.

 

Intanto, per quanto riguarda questo aspetto non abbiamo potuto non apprezzare il carattere innovativo della manovra rispetto ad un vissuto caratterizzato da anni di costanti prelievi sui redditi dei lavoratori e dei pensionati. In questo caso si trattava di redistribuire a vantaggio di queste categorie economiche e sociali secondo una scelta di equità e giustizia sociale, cioè, in direzione di chi maggiormente aveva sostenuto lo sforzo del risanamento finanziario.

 

I contenuti della manovra sono fin troppo noti e mi esimono dal riepilogarli.

E’ forse più utile proporre alla discussione una riflessione sui significati che ha assunto la  recente polemica tra il candidato premier dell’Ulivo, il Sindaco di Roma Rutelli e Cofferati.

 

La virulenza della critica di Cofferati ha suscitato forse qualche preoccupazione anche nei nostri ambienti. Il commento più diffuso è che il merito delle questioni è giusto mentre il tono, cioè il metodo appare un po’ anomalo rispetto alle abitudini del nostro segretario.

 

Io credo che sarebbe un errore rincorrere significati dietrologici, un po’ perché è impossibile coglierli, un po’ perché difficilmente possono entrare dentro una discussione di tipo sindacale.

Il merito delle questioni per essere pienamente compreso va al di là ovviamente della questione pura e semplice dell’Irpeg. In definitiva la riflessione può essere riproposta in questi termini: le aziende hanno goduto in questi anni di significative politiche di sostegno per fronteggiare la crisi degli anni ’90 e per tentare di affrontare la sfida competitiva in posizioni di non subalternità.

 

Riproporre oggi misure di sostegno fiscale alle imprese al di fuori di un contesto innovativo certo e credibile, senza cioè una chiara contropartita sul fronte delle scelte di qualità appare del tutto incoerente con quanto è utile e necessario per finalizzare lo sforzo che lo Stato sostiene per il risanamento e lo sviluppo.

 

Non è necessario percorrere tanta strada per trovare un esempio eloquente a questo proposito. Basta guardare alle più recenti posizioni dell’Ance.

Avevamo salutato con attenzione ed interesse le posizioni della nuova presidenza  pur senza soverchie illusioni. Ma la relazione del Presidente De Albertis al momento del suo insediamento alla carica di Presidente e le successive dichiarazioni facevano sperare in una volontà di confronto nuova da parte dell’Associazione tra le più conservatrici del mondo imprenditoriale.

 

Nella sua ultima intervista De Albertis chiede tre cose molto precise: decontribuzione, flessibilità, superamento della legge sul subappalto. Il resto lo aveva già chiesto in precedenza: revisione delle norme sulla sicurezza e sulla trasparenza degli appalti.

 

Su questi terreni l’Ance ha sviluppato un protagonismo sostenuto, in parte finalizzato a qualche modifica alla finanziaria, in parte proiettato nel futuro del quadro politico.

 

Non è caratteristica nostra sfuggire alle necessità dell’impresa. Ma quando da problemi reali si fanno scaturire posizioni strumentali come quelle sostenute vuol dire che il vero intento non è l’interesse dell’azienda e del lavoratore, ma è solo quello dell’imprenditore.

 

Dicevo che non è caratteristica nostra sfuggire al confronto tant’è che abbiamo accettato immediatamente l’invito dell’Ance a sederci ad un tavolo sul quale sono state depositate alcune questioni da loro considerate prioritarie, quali il fisco, il lavoro, la sicurezza. L’interesse per queste presunte “aperture” non ci ha fatto smarrire la giusta dose di scetticismo, conoscendo le attitudini poco dialoganti dei nostri interlocutori e controparti.

 

In quella sede abbiamo posto un problema preliminare relativo alla affidabilità degli interlocutori, intendendo per affidabilità intanto la definizione delle cosiddette code contrattuali. Non ci si può inoltrare in nuovi percorsi di confronto con l’intento di produrre nuove intese quando su quelle già realizzate non si riesce spesso mai a mettere la parola fine.

Oltretutto, dopo le prime battute, abbiamo subito capito che l’interesse reale dell’Ance si esaurisce nell’aprire un tavolo di confronto col Governo sulle misure di decontribuzione fiscale.

 

Abbiamo posto quindi la pregiudiziale della definizione delle code contrattuale a partire dalla stessa stesura definitiva del testo per il quale mancavano alcune piccole questioni da sistemare. Tra le questioni di maggior rilievo abbiamo posto quelle del Fondo della Previdenza complementare dell’edilizia e quello dell’unificazione delle casse edili.

 

La stesura del contratto sembra finalmente questione conclusa, anche se non è stato ancora tecnicamente siglato. Sul testo definitivo sarebbe stata raggiunta un’intesa che attende solo le firme delle rispettive delegazioni. Quella dell’Ance, rinnovata dopo la nuova presidenza, doveva convocarsi in questi giorni per consentirci di procedere alla formalizzazione definitiva in un incontro che era stato previsto per il pomeriggio di ieri e che all’ultimo momento ci è stato chiesto di spostare ai prossimi giorni. E’ ovvio che la nostra vigilanza non può minimamente abbassare la guardia, conoscendo la naturale propensione della nostra controparte a dilazionare all’infinito i tempi.

L’altra questione che pare aver imboccato una strada in discesa è quella del fondo di previdenza complementare. Esiste una bozza di statuto sulla quale è stata raggiunta un’intesa, anche con gli artigiani e nei prossimi giorni con Filca e Feneal andremo a definire anche la questione del regolamento elettorale.

Siamo quindi nella condizione di prevedere per le prossime settimane lo sbocco formale necessario per procedere lungo il decollo del fondo, a partire dalla formalizzazione notarile dello statuto.

 

Penso che a nessuno sfugga l’importanza di questo passaggio poiché sull’intera partita della previdenza complementare abbiamo accumulato non poche tensioni dovute ai ritardi che hanno riguardato l’avvio di alcuni importanti fondi di settore, oltre a quello dell’edilizia anche quello di legno e cemento (Arco). Una contraddizione che rischiava di diventare esplosiva sia per il già avvenuto superamento di istituti quali l’Apes, sia per l’avvicinarsi della verifica del 2001 sull’accordo di riforma delle pensioni, una riforma che ha individuato nella previdenza complementare il secondo pilastro su cui reggere l’intero sistema pensionistico del futuro.

 

(In questo quadro si pone il problema dei lavori usuranti, un problema sul quale abbiamo assunto degli impegni durante la fase di approvazione della riforma delle pensioni che ci hanno aiutati nel sostegno alla riforma.

In questi giorni è in atto un lavoro per tentare di recuperare in qualche modo una partita che appariva molto compromessa. Su questi elementi torneremo per una discussione quando saranno a nostra disposizione).

 

Su tutta questa partita, mentre procedono gli ultimi atti per la definizione formale dei fondi, la segreteria ritiene necessario operare per un maggior coordinamento delle nostre forze impegnate su questa materia e per rilanciare una funzione ed una iniziativa politica della stessa, superando una delega impropria a chi ci rappresenta formalmente negli stessi Fondi. La previdenza complementare è questione troppo importante e sulla quale non è immaginabile una latitanza della categoria nel suo insieme, sapendo che per la stessa mentalità che ci accompagna da anni è un chiodo sul quale dobbiamo battere e ribattere per farne cogliere a pieno il significato soprattutto alle giovani generazioni.

 

L’unificazione del sistema delle Casse Edili è l’altra coda contrattuale significativa. Conoscete le origini del problema e le intese recenti sulle quali si sono spese anche le altre controparti padronali, a partire da quelle artigiane e della piccola impresa (Aniem). Conoscete anche le ragioni, molto di bottega, della riluttanza con la quale l’Ance ha tergiversato fino ad oggi.

In occasione del tavolo sulle code contrattuali abbiamo proposto una sperimentazione in un paio di aree di un possibile modello unitario (Sicilia, Marche?) per poi valutare sulla base di una esperienza concreta problemi e difficoltà da superare.

 

L’interesse con il quale guardiamo a questa possibile sperimentazione non è solo per un rispetto burocratico delle intese siglate, ma anche per la necessità di avviare sull’intero sistema degli enti bilaterali una riflessione che investa le funzioni, il ruolo, le prospettive  a fronte dei continui cambiamenti che anche il nostro mondo del lavoro, quello da noi rappresentato vive. Non ci piace considerare il sistema degli enti bilaterali come una realtà statica, immobile, come una rendita di posizione incapace di guardare ai necessari processi evolutivi, questo sia a fronte della composizione qualitativa e quantitativa dei bisogni di assistenza e di tutela in un mercato del lavoro che cambia, sia in funzione del valore sempre più strategico dei processi di investimento sulla qualità del lavoro e dunque sulla funzione strategica e per questo dinamica della formazione professionale, per parlare ad esempio del futuro delle scuole edili.

 

Ovviamente, su tutta questa partita è interesse nostro sviluppare una autonoma riflessione, che non sia indotta né dagli altri, né dagli eventi, con l’obiettivo di riproporre, magari riformandola, una esperienza -quella appunto del bilateralismo- che possiede tratti di originalità e di interesse in un settore come quello nostro per il quale la questione dei servizi, compresi quelli erogati dalle nostre organizzazioni, ha una importanza superiore rispetto ad altri, anche se richiede risposte più complesse. Guardando in casa nostra, penso ad esempio alla funzione dei patronati sindacali e alle difficoltà che su molti territorio registriamo nel rapporto con il nostro patronato.

 

Su tutta questa partita, previdenza complementare, enti bilaterali, l’Ance aveva avuto una grossa amnesia concentrando l’attenzione del confronto sulle questioni di natura fiscale, le misure di decontribuzione, e su quelle del lavoro, ma per riproporre il tema della flessibilità.

 

In verità, come avrete letto in questi giorni, siamo di fronte ad una attenzione apparentemente sproporzionata ed assolutamente inedita per l’Ance alle questioni della lotta al lavoro nero e irregolare. Non che questo ci dispiaccia ma non ci sfuggono le possibili ragioni strumentali di tutta questa attenzione che paiono risiedere più nelle ragioni della competizione interna al sistema delle imprese che nella volontà di investire sulla qualità del lavoro.

 

Ci chiediamo a questo proposito come fa a stare insieme  questa campagna contro il lavoro sommerso con la richiesta di abolire la legge sul subappalto (L. 1369), di rivedere quella sulla trasparenza degli appalti e anche quella sulla sicurezza. Come fanno a stare insieme lotta al sommerso e superamento delle regole nel mercato del lavoro. E’ questo che chiede in definitiva l’Ance sapendo che è lo stesso processo di deregolazione del mercato e dell’impresa la causa principale che genera il sommerso, il nero, il precario.

 

Il quotidiano Il Sole 24 ore ha pubblicato ieri un articolo nel quale illustrando le posizioni dell’Ance si è parlato di un Patto con i sindacati contro il sommerso. E’ del tutto evidente che siamo di fronte ad una invenzione della giornalista, a meno che per patto non si intenda la comune intenzione di combattere il lavoro sommerso.

 

L’unico patto che noi siamo disponibili a sottoscrivere è quello che mette in rapporto tra loro politiche di flessibilità e di sostegno alle imprese con l’esercizio dei diritti sul lavoro e dei lavoratori. Non siamo pregiudizialmente contrari che lo Stato e la contrattazione aiutino le imprese che scelgano di emergere dall’irregolarità, ma questo non può che essere un processo chiaro, trasparente, una scelta che avvenga non con l’obiettivo di ridurre l’accesso ai diritti ed il ricorso alle libertà sindacali.

 

In definitiva l’Ance chiede più soldi alle imprese e meno vincoli per le stesse. Se questa può apparire una politica efficace e socialmente giusta di lotta al lavoro nero non è certamente la nostra.

 

La nostra ha ben altro contenuto e consideriamo molto positivo il fatto che alla luce di questo confronto avviato con l’Ance dopo molti anni si sia potuto riaprire un tavolo di lavoro comune anche con Filca e Feneal. In giro per l’Italia il quadro dei rapporti unitari non è proprio esaltante ma caratterizzato dall’ossessiva concorrenza spesso ai margini se non oltre il rispetto reciproco. Per questo riteniamo utile e positivo che si sia potuto decidere nella riunione delle segreterie di lunedì scorso di tentare di mettere a punto una piattaforma comune sulle questioni del settore e della categoria, per offrire se non altro un minimo di contesto strategico entro il quale collocare il lavoro delle rispettive organizzazioni.

 

Per quanto ci riguarda gli obiettivi che ci proponiamo per l’immediato futuro non possono che derivare dall’analisi fin qui svolta. Il binomio crescita-diritti si traduce in precisi obiettivi della contrattazione e dell’iniziativa politica della categoria.

 

La questione della crescita è questione che si gioca sia a livello territoriale che dentro l’impresa.

A livello territoriale, per dare stabilità alla ripresa, per far si che la crescita assuma dimensioni strutturali occorre investire la concertazione delle principali politiche di sviluppo locale. Ai tavoli di concertazione territoriale, che sono tavoli dove spesso si decide cosa fare e come e a chi distribuire risorse, prevalentemente pubbliche, occorre imporre il vincolo della qualità. C’è un modo molto semplice per cominciare a farlo ed è quello di chiedere e di imporre alle stazioni appaltanti, in questo caso pubbliche, l’obbligo del rispetto dei diritti contrattuali e delle normative sul lavoro da parte delle imprese che partecipano alle gare di appalto, assumendo questo rispetto delle leggi e delle norme contrattuali quale fattore discriminante tra le imprese. Oltretutto, esistono provvedimenti recenti, come il Dlgs Salvi sui costi della sicurezza e del lavoro che offrono nuove sollecitazioni in questa direzione.

 

La questione della crescita è poi questione che si gioca dentro l’impresa sul terreno delle innovazioni da introdurre nell’organizzazione del processo e del lavoro e nel rispetto dei diritti. Su questo, poiché stiamo parlando dei contenuti della contrattazione di secondo livello, emergono due direttrici lungo le quali orientare la nostra iniziativa generale e della contrattazione di secondo livello.

 

La prima, una campagna martellante sul diritto alla sicurezza e sul diritto alla formazione, che per altro sono tra loro “imparentati “.

 

Del diritto alla sicurezza nei luoghi di lavoro dobbiamo fare il nostro vero assillo quotidiano. Se qualcuno ha visto i dati recenti pubblicati dall’Inail si renderà conto del significato che attribuiamo al rapporto tra ripresa produttiva e dinamica infortunistica senza una chiara scelta di inversione di tendenza rispetto ai modelli organizzativi adottati dalle imprese.

Il rapporto 2000 su 1999 del periodo gennaio/agosto, dati relativi a tutti i settori, presenta incrementi sui morti sul lavoro che hanno questi livelli: 69,76% in Toscana, 47,22% in Emilia R., 27% in Lombardia. La media nel settore delle costruzioni è il 13% in più sul ’99.

 

Qui le cose da fare sono due. Una azione più decisa, che impegni tutti i soggetti che hanno una competenza in materia ad attuare le norme, che sono buone norme. Questo vale ad esempio per il regolamento attuativo dell’Art.31 della L.109 che è importante per la coerente attuazione delle normative sulla sicurezza nei cantieri, vale per la spesa sanitaria destinata dalle regioni alla prevenzione nella misura minima del 5%, vale per la costituzione degli RLS e dei RLST.

 

Ma vi è poi uno spazio che appartiene alla contrattazione, al tentativo cioè di determinare a monte e non a valle le condizioni di sicurezza nelle quali viene ad aprirsi un cantiere. Questo vale sia per la definizione dei contenuti del Piano di Sicurezza e di Coordinamento a carico delle stazioni appaltanti, sia del Piano Operativo a carico delle imprese, che non possono essere strumenti burocratici.

 

Ma siccome sicurezza significa poi organizzazione del lavoro si tratta di intervenire a monte sulla predisposizione delle strutture e dell’organizzazione aziendale alle norme sulla sicurezza e sulla organizzazione dei regimi di orario, che spesso hanno un ruolo niente affatto secondario nel determinare le condizioni di esposizione al rischio. In questo senza mai rinunciare a coniugare i diritti con la flessibilità.

 

Nei cantieri dell’alta velocità che attraversa l’Appennino tosco-emiliano si è fatto un accordo che tenta di intervenire sul regime degli orari a fronte di una richiesta del ciclo continuo dovuto al rispetto dei tempi di consegna dell’opera. Provate ad immaginarvi in questi casi quale sarebbe lo scenario in assenza di un tentativo del sindacato di ancorare questa esigenza aziendale ad un sistema di regole: il vero e proprio Far West. Dovrebbe immaginarselo soprattutto chi in queste settimane  si sta adoperando per indebolire quell’accordo senza capire quale sia una alternativa credibile al rapporto diretto che in questi casi, sulla partita degli orari l’impresa rischierebbe di intavolare con i lavoratori, con conseguenze facilmente immaginabili.

 

Se la sicurezza è il nostro assillo dobbiamo riconoscerlo come tale anche a fronte del legittimo obiettivo di affrontare il problema di una redistribuzione della crescita a vantaggio dei lavoratori e dei loro salari. Nelle aree dove più forti sono i tassi di sviluppo e dove reale è il regime di piena occupazione questa questione è emersa con forza e se non assunta da noi rischia di diventare terreno sul quale le aziende puntano a costruire questo rapporto diretto con i lavoratori.

 

Poiché è nostra intenzione proporre una sessione seminariale del C.D. sulle questioni della contrattazione in quella sede potremo approfondire questo aspetto. Ma possiamo fin da ora affermare che il problema di una redistribuzione a vantaggio dei salari attraverso la contrattazione di secondo livello e gli istituti da essa prevista (premio di risultato) non è questione scissa dal rispetto dei diritti, in questo caso quello alla sicurezza e quello altrettanto importante e complementare alla formazione.

 

La formazione deve essere l’altro nostro assillo in questo settore poiché offre gli strumenti della conoscenza critica e quindi della tutela sia rispetto alla questione delle condizioni di lavoro, sia rispetto ai processi di mobilità molto spinti nel settore, che se privati di un costante investimento sulla professionalità rischiano di determinare condizioni di emarginazione e di precarietà insuperabili nel mercato del lavoro.

 

Tra l’altro è proprio sul governo del mercato del lavoro che molte nostre partite legate ai diritti possono essere giocate in modo vincente, sia che si tratti dei nuovi flussi di immigrati che di lotta al sommerso e allo sfruttamento del lavoro minorile, che come ha denunciato la CGIL in questi giorni rappresenta un fenomeno tutt’altro che marginale nel nostro Paese, oppure del ricorso sempre più frequente a forme di lavoro interinale come lavoro sostitutivo di quello strutturato.

 

Quello che vorremmo proporre è di individuare alcune realtà, territoriali o settoriali, nelle quali determinare alcune sperimentazioni contrattuali che tentino di tenere unite l’insieme delle questioni fin qui poste. Ciò può riguardare alcune aree del Centro-Nord, le aree distrettuali dove l’intensità della ripresa e le particolari condizioni di contesto socio-economiche portano a sottolineare di più gli aspetti legati al conflitto redistributivo; ed alcune altre del Sud, dove il lavoro, l’occupazione, la struttura dell’impresa rappresentano i temi dominanti sui quali l’intreccio tra dimensione territoriale e quella aziendale si presenta forse più stringente.

 

Non dobbiamo in tutto questo dimenticare che le contraddizioni della ripresa  si manifestano anche con il permanere di punti di crisi significativi, che riguardano imprese importanti per il settore, a partire dalla Impregilo. Come è ben comprensibile in questi casi si va oltre un significato meramente aziendale poiché si tende a delineare un preciso disegno di riorganizzazione del sistema delle grandi imprese che deve rimanere un punto importante di riferimento nella struttura produttiva settoriale.

 

E’ su questo insieme di questioni che vorremmo costruire la nostra iniziativa nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, contribuendo anche così alla discussione preparatoria al nostro prossimo congresso, il cui svolgimento è oggettivamente poco immaginabile in questa fase della vita politica del Paese. Ma lo slittamento del Congresso è cosa che può preoccupare solo chi vive questo appuntamento in funzione esclusiva delle dinamiche autoreferenziali dei gruppi dirigenti. Se il problema è cosa fa la CGIL, credo che un modo per rispondere a questo interrogativo è anche cominciare a fare o continuare a fare qualcosa che è sempre meglio di ogni attesa messianica di qualcosa che comunque dipende da noi e deve uscire da noi.

 

Attraverso questo lavoro vogliamo infine lanciare una nuova fase di rafforzamento e di sviluppo organizzativo della nostra organizzazione.

 

Nella sessione di ieri abbiamo parlato di risorse e di tesseramento, che in fondo sono le due facciate di una stessa medaglia, anzi dovrebbe esserlo se tutti noi crediamo ancora che dalla delega sindacale più che dalla quota di servizio dovrebbe venire il sangue che anima il nostro organismo. Anche perché se ci limitassimo a gestire l’esistente non avremmo garanzie assolute di sopravvivenza all’infinito.

 

Il bilancio che abbiamo approvato ieri è buono e i dati sul tesseramento sono confortanti. Ma pur soddisfatti di ciò vogliamo non accontentarci del tutto. Proprio perché i dati sono buoni e confortanti vogliamo imprimere una ulteriore scossa a tutta l’organizzazione per mettere in campo nuovi obiettivi, nuovi traguardi per far crescere la Fillea.

 

Per quanto ci riguarda, confermiamo la scelta di svolgere come centro nazionale una funzione di sostegno alle strutture in tutti i progetti di reinsediamento, di tesseramento, di formazione e politica dei quadri, con l’obiettivo di portare nuova linfa ad un quadro dirigente che esprime già tuttavia una buona qualità e per questo oggetto di frequenti incursioni da parte della Confederazione.

 

In questo senso, lo stesso centro nazionale  deve riorganizzarsi in funzione di una efficacia e di una qualità indispensabili a sostenere un ruolo di direzione che deve essere svolto nel modo migliore. Siamo forse in una fase di transizione, caratterizzata da esperienze in parte nuove ed in parte destinate ad altri percorsi.

 

In questo processo di riorganizzazione ci proponiamo di sperimentare modelli e formule nuove di riorganizzazione delle funzioni nazionali, che estendano l’intreccio tra il centro ed il territorio, pensando a funzioni centrali, cioè, nazionali che possano essere attribuite a risorse che hanno responsabilità territoriali e a funzioni nazionali decentrate sui territori stessi, che impegnino compagni le cui competenze e la cui esperienza può essere investita per coprire settori o aree territoriali in una ottica di razionalizzazione delle funzioni e di valorizzazione del patrimonio esistente.

 

Vediamo, approfondiamo, sperimentiamo tutto ciò per poter decidere sulla base di concrete esperienze che ci consentano di valutare la bontà delle soluzioni e dei modelli organizzativi più idonei alle nostre esigenze.

Con ciò  penso che potremo e sapremo raccogliere la sfida che ci è stata consegnata al momento della assunzione delle nuove responsabilità: quella di fare sempre bene e meglio come chi ha già fatto bene, perché solo così potremo assicurare la continuità di una missione che ha il difetto di inoltrarsi in un mondo sempre più complicato, ma il pregio di dare un senso a questa complessità che è poi quel senso che non ci fa rimpiangere il fatto di essere qui a consumare i nostri anni migliori.